Oggi scrivo di te.
Di te e del nostro amore, non consacrato davanti ad un altare con la benedizione di Dio, non regolato dalle leggi civili, ma scandito dai battiti del nostro cuore, incontratisi, per la prima volta, il giorno della mia nascita e suggellato dall’affinità delle nostre anime. Sono stata la tua prima nipote, sono stata l’ultima persona che hai visto prima di lasciare la vita terrena, a me hai stretto la mano baciandola, facendomi promettere che neanche la morte, oramai prossima, ci avrebbe diviso.
La gente mi fermò per strada, appena lessero il tuo nome sui muri della città, chiedendomi: “Era tuo nonno?”.
Io risposi: “È mio nonno”. Patrizio mi disse, per telefono, che la tua assenza su questa terra non avrebbe potuto cancellare mai quel legame così forte, che saresti rimasto mio nonno per sempre, che le anime rimangono unite per l’eternità. Piansi ininterrottamente mentre Patrizio mi diceva tutto ciò, ma fu proprio in quel momento che sentii di essere stata chiamata a gestire un’assenza così pesante come quella che mi avevi lasciato tu, nonno.
Mi vennero in mente tante immagini felici, ricordai le nostre chiacchierate, le lezioni di latino, la correzione dei compiti, le poesie ripetute all’unisono, i libri letti e commentati assieme, ma anche le volte in cui mi portavi con te nell’orto e m’insegnavi i segreti del contadino. Pensai a te, e più le immagini riaffioravano alla mente, più il dolore mi toglieva il fiato. Pensai a te ma non scrissi mai di te.
Oggi, invece, scrivo di te, nonno.
Perché il dolore s’impara a gestirlo, perché il tempo regala un’immagine diversa delle persone che non ci sono più, perché il ricordo non fa più male, anzi, diventa un sollievo per l’anima.
Oggi scrivo di te, di te e di me, una storia un po’ speciale di un nonno e di una nipote che di notte ancora sogna di incontrarti ma che si sveglia di mattino con le lacrime agli occhi, nella piena consapevolezza che non ci sei più in quella casa, seduto sulla poltrona dello studio o a sonnecchiare sul divano, in cucina a scegliere il riso o in camera a sistemare le cravatte nell’armadio, chinato sulla scrivania dello studio a rilegare un tuo vecchio libro o a riordinare le carte: c’è un’assenza tanto forte quanto forte è stata la tua presenza.
Non sono riuscita ad entrare in cantina per mesi, perché lì c’erano le tue botti e le bottiglie verdi con l’anno scritto da te a mano, in giardino non si sentivano più i tuoi passi, mentre quel suono ritmico delle cesoie si era smorzato per sempre, eppure tutto è rimasto lì, ci sono ancora le calle lungo il viale, mente il petto d’angelo sta mettendo le prime foglie proprio come sta facendo in questi giorni l’ortensia.
Oggi ho capito ciò che volevi dirmi con la carezza regalatami quel giorno d’aprile, quando lessi nei tuoi occhi la consapevolezza che stavi per morire, quando capii, dal tuo sguardo addolorato, che stavi leggendo nel mio, il dolore e la disperazione che di lì a poco avrei provato, lasciandoti per sempre. Mi dicesti: “Se scriverai di noi, allora nulla andrà perduto, ed io sarò felice e riuscirò a farti giungere un mio sorriso, una mia carezza. Mi prometti che farai tutto ciò?”. Io non dissi nulla, mi limitai a scuotere la testa, quasi a scacciare indietro l’idea che tu potessi morire, che non ti avrei più dato il buongiorno, affacciandomi di mattino dalla finestra mentre facevi colazione sulla panchina dalle piccole piastrelle blu, che non ti avrei più raccontato le mie giornate, che non avrei più rivisto i tuoi occhi, sempre pronti a cercare i miei, in qualsiasi occasione. Ingenuamente pensavo che, se non ti avessi fatto quella promessa, tu non saresti morto, oppure avresti aspettato che le facessi, prima di lasciare questa terra.
Ho atteso l’ultimo tuo respiro per rassicurarti che sì, sarei rimasta qui, a prendermi cura di quello che più amavi.
Ho pensato a te, sempre, ma solo oggi scrivo di te, perché voglio mantenere la promessa che un giorno avrei scritto di noi, di te e di me.
Bellissimo e commovente. Ti tocca l’anima.