Penso spesso a quel Natale, nonno, l’ultimo trascorso insieme, mangiasti poco quella volta e decidesti persino di anticipare il tradizionale cenone al quale tenevi tanto, all’ora di pranzo. Capii che qualcosa non andava appena la nonna ci comunicò quest’inusuale notizia, io corsi allora giù per le scale, con il cuore in gola, e mi precipitai verso di te: avevi poggiato i gomiti sul grande tavolo della cucina, intrisa di frittura e di cavolfiori messi a lessare, il viso lo tenevi tra il palmo delle mani, lo sguardo fissava il grande pino che dominava da fuori tutto l’ambiente circostante, gli occhi erano umidi e quella giacca da camera bordeaux, che solevi portare in inverno, quella mattina mi sembrò l’abito di un malato.
Spalancai la porta, non mi dicesti, come facevi sempre quando la nonna stava preparando il pranzo: “Chiudila, chiudila in fretta, altrimenti va l’odore del cibo cucinato per tutta casa”.
Ti girasti soltanto verso di me, mi sorridesti come solo tu sapevi fare, con quella dolcezza di un uomo forte e con la profondità di un uomo buono, ed esclamasti: “Bella bambina! Che cosa hai?”.
Io non ce la feci proprio a dire, come avrei voluto fare: “Non morire, ti prego nonno, non morire, ci sono tante cose ancora da fare, tante cose da vedere, non mi lasciare, non farmi mancare quei tuoi occhi con le pagliuzze d’oro, quelle mani grandi che tante volte ho misurato con le mie, quella risata trattenuta appena, mentre porti la mano davanti alla bocca, fammi sentire per cent’anni ancora il tuo passo andare su e giù per la casa, lasciami ammirare la tua inconfondibile camminata e la scrittura da letterato, non mi lasciare, non mi lasciare “.
Non dissi niente di tutto questo perché, se avessi veramente detto quelle parole, avresti sofferto per me, che già mi sentivo dilaniare dal dolore. Spalancai la porta, dunque, e ti dissi: “Bella idea, nonno, anticipare il cenone all’ora di pranzo, almeno abbiamo il tempo di digerire, sai… la sera è meglio star leggeri!”. Ecco cosa fa fare l’amore, fa buttare lì un po’ di sciocchezze ed ovvietà scontate pur di non ferire la persona alla quale si tiene così tanto, ma la cosa buffa è che anche tu mi rispondesti a tono: “L’avessimo fatto anni addietro a consumare il cenone a pranzo!”.
Ed io conclusi questo dialogo con una battuta stiracchiata: “E magari chiamarlo pranzone della vigilia!”. Ne avevo fatte di battute migliori ma, scusami, nonno, quel giorno era l’unica che potesse uscire dalla mia bocca.