Qualche giorno dopo, di ritorno da Roma, vidi da lontano, appena imboccata la strada, la nonna che mi aspettava impaziente sul balcone, aveva il grembiule a righe colorate annodato dietro al collo e nervosamente asciugava con il lembo del tessuto ora una mano ora un’altra… capii che era tesa, preoccupata, tanto che appena mi vide arrivare, si precipitò fuori dal cancello e, venendomi incontro, mi disse, con le lacrime agli occhi e con la voce tremante, che eri caduto in cantina e che lamentavi uno strano dolore.
Corsi verso casa, quei pochi metri che mi separavano da te sembrava non finissero mai, le mie gambe erano di colpo diventate pesanti mentre nella mia mente si affollavano strani pensieri e presentimenti che cominciavano ad assumere contorni certi ed inconfutabili.
Salii le scalette a due a due, spalancai la porta, lasciata socchiusa dalla nonna che aveva raccolto da terra la borsa lasciata lì, accanto al cancello, e ti trovai in cucina a mangiare del riso in bianco: non eri né più triste, né più allegro degli altri giorni, eri solo desideroso di sapere come fosse andata la mia giornata. Io, senza risponderti, mi inginocchiai vicino alla tua sedia, presi le tue mani tra le mie e ti pregai, con la voce rotta dal pianto, di farti controllare da qualche medico e tu, davanti alla mia disperata richiesta, mi incaricasti di prendere contatto con un dottore del quale un tuo vecchio collega ti aveva parlato molto bene. Telefonai io, come di chiedesti di fare tu, e chiesi di fissare un appuntamento.