Ti accompagnai io personalmente ma non salii con te dal medico, anzi, mi pregasti di restare ad aspettarti giù al palazzo. Mi misi a sedere sulla balaustra della discesa a mare, il tempo sembrava dilatarsi a dismisura e per distogliere il mio sguardo da quella stanza, dove il medico ti stava visitando, con delle pesanti tende bianche tirate, cominciai a leggere tutte quelle frasi scritte con il pennarello nero sul travertino bianco. Erano modi di dire d’uso comune tra gli adolescenti, promesse d’amore eterno…e riflettei sul fatto che i miei sentimenti, i miei stati d’animo, le miei gioie, i miei dolori li avevo sempre comunicati a te, e così ti immaginai, in quel momento, come una preziosissima statuetta d’oro sulla quale la mia memoria aveva inciso una frase, un ricordo, a testimonianza di una bella giornata o di una da dimenticare.
Tu eri il depositario delle mie emozioni, sapevi tutto di me, di quello che ti avevo detto, ma anche di quello che ti avevo taciuto perché, tanto, le cose me le leggevi nell’anima. Era un pomeriggio di quelli che non si dimenticano facilmente: il sole era tiepido, in cielo neanche nuvola, la brezza che arrivava dal mare contrastava con il mio stato d’animo vorticosamente inghiottito in una tempesta di domande senza risposta. Uscisti poi dal palazzo, io attraversai la strada per venirti incontro e mi dicesti che il medico aveva disposto per te un ricovero in ospedale, il mattino successivo, per degli accertamenti di routine.
Tornammo a casa, informammo tutti dell’esito della visita. Sembravi sollevato, forse speravi in quel momento, di fronte ad una diagnosi benigna, che c’era una possibilità di guarigione anche per te, come per quel tuo vecchio collega. Anch’io mi sentii in colpa per il modo in cui avevo vissuto il Natale appena trascorso e credevo fermamente che l’allarme sarebbe rientrato e che saresti tornato l’uomo forte di sempre. Così ti dirigesti verso il tuo studio per tirar fuori dall’armadio quella tua valigia di pelle che tanto piaceva anche a me: di dimensioni ridotte ma capiente, con il tuo nome ed indirizzo scritto a penna, con la fodera grigia a pois blu. Ricordi, nonno, la lasciasti sul divanetto, aperta, e sembrava essere un bambino affamato, pronto ad ingoiare il tuo pigiama, la tua giacca da camera, il tuo rasoio elettrico, le piccole forbici, il dopobarba, il nostro libro di letture, il mio cuscino. Mentre eri intento a sistemare tutto ciò nella valigia di pelle color nocciola, la stessa che avevi portato con te nei viaggi, fatti con la nonna, sempre troppo brevi, impaziente com’eri di tornare a casa, il cuscino di lana bianca e grigia che ti avevo regalato per Natale lo lasciasti fuori perché avevi il timore che, compresso tra gli elastici, si sarebbe potuto rovinare.