Il mattino seguente, quello del tuo ricovero, ci confidammo di non essere riusciti a chiudere occhio e, così dicendo, ci incamminammo verso la macchina.
Sulle gradinate d’accesso, ritratti di varia umanità ci vennero incontro: un volto coperto di bende, una gamba ingessata, il sorriso di un bambino, il pianto di un altro, il viso sereno di una donna, quello teso di un ragazzo.
Dovevamo salire al secondo piano, non prendemmo l’ascensore perché da sempre avevano paura entrambi di rimanere intrappolati in quel piccolo abitacolo, e così, seppure a fatica, cominciammo la nostra ascesa verso quell’uomo, con indosso un camice bianco, che forse avrebbe potuto comunicarci la notizia che aspettavamo entrambi: che stavi bene, che tutto si sarebbe risolto senza problemi.
Chi avrebbe mai potuto separare un nonno ed una nipote come noi due, chi avrebbe mai potuto chiedermi di rinunciare per sempre a te, chi mi avrebbe privato dei tuoi gesti e della tua voce? “Andrà tutto bene, tutto bene”, continuavamo a ripeterci senza sosta, mentre i nomi dei reparti e dei loro primari ci sfilavano davanti, piano dopo piano.
Eravamo finalmente arrivati, il medico ci aspettava nel suo studio, io non entrai, anche questa volta rimasi fuori, il dottore ti prese sotto braccio e andasti con lui, mentre mi cercavi con lo sguardo da quello spiraglio che si stava lentamente chiudendo. Io poggiai la tua valigia sulla panca di plastica verde acqua e subito dopo cominciai a camminare nervosamente, non ricordo i pensieri di quei momenti, non li ricordo proprio, nonostante tutti gli sforzi, forse non pensai nulla. So soltanto che mi misi a pregare, a pregare per te, nonno, con un’intensità che neanche io conoscevo. Il mio cuore stava battendo in maniera convulsa e violenta, sembrava aver occupato tutta la cavità toracica, il mio corpo ne percepiva i battiti come il suono di tam-tam che si propagava dappertutto: nella testa, nelle gambe, nel ventre e più il cuore batteva, più le forze sembravano abbandonarmi.
Poi, d’improvviso, la porta dello studio si spalancò, il dottore l’aprì con fermezza e decisione ed entrò frettolosamente nella stanza di un collega, io, allora, potei finalmente vederti: avevi l’espressione abbattuta e stanca, eri rimasto seduto su quella sedia dall’anima in ferro verniciata di bianco e l’imbottito color carta da zucchero, ti stavi riannodando la cravatta sulla camicia che la mamma ti aveva regalato per la festa del papà, le scarpe avevano invece i lacci sciolti, allora io mi accovacciai sulle ginocchia per allacciarti ed in quel momento entrò il medico, il quale ci informò che stava disponendo, con un suo collega, il ricovero.
Avrei voluto accompagnarti sino in corsia, ti avrei portato io la valigia, avrei sistemato io i tuoi vestiti nell’armadietto ma non mi permisero di farlo, mi dissero di lasciarti lì, in attesa che qualcuno facesse, per spirito di servizio, quello che avrei fatto io per amore.
Aspettai con te che arrivasse la persona preposta alla tua sistemazione nel reparto, nell’attesa ci accomodammo tutte e due su quell’anonima panchina color verde acqua, io strinsi la tua mano e tu stringesti la mia, come facevano quando sedevamo vicini su quelle poltroncine di pelle del corridoio, non dicemmo nulla, i nostri sguardi non si incontrarono neanche una volta, i miei occhi erano gonfi di lacrime che non riuscivano a scendere giù per le gote, a rigarmi il viso. Anche tu eri triste, lo capii da quel gesto inconfondibile di corrugare le labbra in maniera ritmica. Arrivò, dopo dieci minuti l’uomo che stavamo aspettando il quale ti chiese se eri tu quel signore che doveva ricoverarsi. Annuisti con il capo, lui allora prese la valigia che io gli porsi, ti aiutò ad alzarti e ti condusse con lui. Domandai quando sarei potuta venire a trovarti e lui mi rispose: “Alle tre, quando c’è l’orario di visita”.