Ti chiesi cosa ti avessero dato da mangiare e tu indicasti con un gesto rapido del mento delle vaschette di plastica sigillate che avevi poggiato sul comodino, sull’etichetta bianca era riportato il contenuto: pasta al pomodoro, verdure e carne lessa, pera cotta. Non avevi sollevato neanche un lembo di quella plastica, non avevi neanche voluto sentire l’odore di quel pasto ospedaliero perché, per te, l’importante era stato sempre non cosa mangiare ma con chi mangiarlo.
E tu, di pranzare con il pigiama a righe, seduto su di un lettino che non era il tuo, portare alla bocca anonime forchette di plastica e consumare quel pasto da solo, senza avere accanto qualcuno che amavi, non ci riuscivi proprio.
Ti feci notare che non avresti certo potuto continuare a tenere quell’atteggiamento di rifiuto verso il pranzo fornito dall’ospedale, ti chiesi allora se potevo portarti io qualcosa da casa ma tu dicesti che, lontano da quelle stanze dove avevi trascorso mezzo secolo, nulla, neanche il pranzo di un re avrebbe potuto avere sapore. Insistetti perché tu mangiassi almeno qualcosa, allora mi chiedesti di tirare fuori da quella borsa di pelle grigia che avevi portato con te, insieme alla valigia color nocciola, qualche fetta di pane con la caciotta di pecora. Frugai velocemente tra quelle tasche, sai, non ero abituata a mettere le mani tra le tue cose, le consideravo sacre e toccarle era per me come un sacrilegio ma il permesso di aprire quella borsa me lo stavi dando proprio tu.
In fondo a questa riuscii a riconoscere quel tovagliolo a quadri rosa, azzurro e verde: avvolto dentro a quel quadrato di stoffa colorata erano adagiate due fettine di pane, quasi trasparenti, ed un pezzo doppio di formaggio dal colore deciso, afferrai quell’involucro e te lo porsi, tu prendesti quello che era l’avanzo della tua colazione fatta in casa, prima di venire in ospedale, e tentasti di mangiarlo. Lo avvicinasti alla bocca, desti qualche morso, masticasti quel boccone svogliatamente, impiegandoci più del tempo dovuto, ed inghiottisti velocemente.
Capii che stavi facendo tutto questo solo per farmi contenta, per placare la mia preoccupazione davanti al tuo rifiuto di mangiare il pasto dell’ospedale, ma non avevi né fame, né voglia. Un altro morso ancora e posasti quelle fettine di pane sul comodino, non prima di avermi promesso che avresti terminato di mangiarle appena fossi andata via.
L’ora trascorse troppo in fretta, io uscii dalla tua stanza mentre tu mi accompagnavi con lo sguardo, fino a quando girai l’angolo che dal reparto portava alle scale.