Così scendemmo le scale e salimmo in macchina, il tuo sguardo si posava su tutti gli alberi che costeggiavano la strada del ritorno, i tuoi occhi stavano sorridendo: era arrivata la primavera, con tutti i suoi colori ed odori, i rami degli arbusti non sembravano più di cartapesta, né le gemme di plastica. Tu eri di nuovo accanto a me, nonno, ed io di nuovo vicino a te, potevamo godere ancora assieme dello spettacolo della natura, per l’ultima volta, certo, ma insieme.
Ci avrebbero aspettati mesi duri, lo sapevamo entrambi, ma eravamo fermamente convinti della necessità di non lasciarci sfuggire un solo secondo, non avremmo regalato alla morte che avanzava, neanche un minuto di più, a me erano concessi ancora tre mesi, solo tre mesi di te e del tuo sorriso, dei tuoi occhi, delle tua mani, del tuo amore.
Parcheggiammo l’auto davanti al piccolo cancello in ferro battuto, lo stesso che ti aveva visto uscire in divisa per tanti anni, con il cappello calato sulla fronte e la fedele bicicletta sulla cui canna legavi la cartella di pelle nera. Scendesti dalla macchina, non suonasti al citofono di casa dove la nonna ti attendeva, ma apristi tu quel cancello, sfilando dalla tasca quel pesante mazzo di chiavi.
Ricordi, nonno, quante volte ti ho chiesto quali misteriose porte aprissero tutte quelle chiavi. Tu, con tanta pazienza, mi facevi sedere sulle ginocchia, e mostrandomele una ad una, elencavi la loro funzione: questa era del cancello piccolo, quell’altra del cancello grande e poi, ancora, la chiave della campagna, quella del ripostiglio in giardino.
Un giorno ti chiesi quale fosse la chiave del tuo cuore, per poterci entrare e rimanere lì, per sempre, ma tu mi rispondesti che il tuo cuore, nonostante le difficoltà che la vita ti aveva posto davanti, si era spalancato il giorno della mia nascita, ed io da allora, pur senza saperlo, ero lì dentro, in ogni suo singolo battito.