Entrai anch’io in casa con te, quel giorno di ritorno dall’ospedale, la nonna non osò dirti nulla mentre tu, mestamente, ti dirigesti verso la camera per sistemare i tuoi bagagli ma mi pregò, con gli occhi gonfi di lacrime, di essere sincera con lei, di dirle la verità. Io mi limitai a comunicarle quanto aveva detto il medico sul tuo stato di salute generale e la nonna, piegata a metà sulla poltrona dello studio, cominciò a piangere. Quando tu uscisti dalla camera, eravamo entrambe in cucina: la nonna a preparare il pranzo ed io ad apparecchiare la tavola. Tu dicesti che avresti mangiato un po’ di pasta solo se mi fossi seduta accanto a te, come avevamo fatto per tanti e bellissimi, indimenticabili anni. Non avrei potuto dire altro che sì, per nulla al mondo avrei rifiutato quel tuo invito.
Mangiammo assieme, come quando ero bambina, io e te, di nuovo vicini. Ti osservai per tutto il tempo del pranzo, vedevo quanto sforzo ti costava quel portarti alla bocca la forchetta che aveva catturato, dal piatto bianco di porcellana, tre penne di numero. Masticavi molto lentamente, poi ti fermavi, guardavi in su, gli occhi al soffitto, poi chinavi nuovamente la testa nel piatto, mentre la tua mano stava cercando un pretesto qualsiasi per evitare di prendere con la forchetta qualche altra penna rossa di sugo.
Dovetti trovare una scusa qualsiasi per alzarmi da tavola ed andare in bagno, per piangere un po’. Mi raggomitolai a terra, le spalle appoggiate all’armadio a muro, la testa tra le ginocchia. Scorrevano davanti a me quegli indimenticabili pranzi della mia infanzia, quando, tornata da scuola, avevo solo il tempo di sfilarmi il grembiule, di posare la cartella e scendevo giù per le scale, cantando le sigle dei cartoni animati che vedevo ogni pomeriggio con la mamma e la nonna, con la felicità nel cuore, talmente forte che delle volte mi sembrava di non essere in grado di contenerla tutta dentro di me. Bussavo alla porta-finestra del corridoio e tu, con quel sorriso che illuminava i tuoi bellissimi occhi, ti precipitavi ad aprirmi. Mi accomodavo vicino a te, mentre la nonna versava nei piatti le fettuccine con i ceci, i maltagliati con i fagioli, il riso al sugo, il brodo con i tortellini. La tua regola aurea dell’ora di pranzo era di osservare e soprattutto, di far osservare, un rigoroso silenzio, ma in nome dell’amore che provavi per me, derogavi a questo principio e mi lasciavi raccontare quanto era accaduto a scuola durante la mattinata appena trascorsa. Parlavo, parlavo e nessuno aveva il diritto di interrompermi, tu mi ascoltavi in silenzio e una volta terminato il pranzo, stringevi, tra il pollice e l’indice, la mia guancia destra e portavi quelle stesse dita alla bocca, baciandole, come si faceva con una statua della Madonna.