Da quel giorno in cui piantammo le piantine nell’orto, parlammo sempre più spesso di noi due, delle nostre giornate trascorse assieme e si celava, dietro i nostri sguardi, il desiderio di riviverle ancora una volta.
Ma non c’era più tempo, non sarebbe arrivata un’altra estate con te che tornavi dalla campagna abbronzato e con le ceste di vimini pieni di pomodori, non ci sarebbe stata la vendemmia da fare, tutti assieme, come nei film, nella cantina sotto la nostra casa, non ci sarebbe stato più il tuo compleanno e la lettera che ti scrivevo abitualmente, non ci sarebbero stati i pomeriggi di novembre con noi due nello studio, a leggere una poesia, non ci sarebbe stato il Natale con i piatti della nonna, non ci sarebbe stata Pasqua con il casatiello e la benedizione che impartivi con l’acqua santa e con il ramo d’ulivo a tutti noi.
Anzi, a dire il vero, Pasqua ci attendeva proprio dietro l’angolo, perché era caduta alta quell’anno. Quante volte, nonno, mi spiegasti perché, a differenza delle altre feste comandate, la festività pasquale arrivava ogni anno in un giorno diverso! Se non ricordo male, bisognava basarsi sull’equinozio di primavera, ebbene, devo confessarti che ho lasciato passare infruttuosamente 28 anni della mia vita per capirlo, perché, nonostante tutto, non mi entrava in testa.
Forse il motivo di questa mia “chiusura mentale” nei confronti di quei calcoli era di natura psicologica: se avessi compreso, definitivamente, com’era fissata la Pasqua, come avrei potuto chiederti di nuovo la spiegazione che tu puntualmente mi davi nel tuo studio, sotto la luce calda della lampada verde, tirando fuori quei tuoi libri ingialliti?
Per nulla al mondo avrei mai potuto perdermi questo spettacolo, di te che mi aspettavi fuori al balcone, prendendomi sotto braccio per entrare assieme nello studio da dove si poteva ammirare lo splendido arbusto del petto d’angelo, che proprio in quel periodo stava mettendo le prime gemme.
Ecco, lo ricordo chiaramente: mi facevi segno di accomodarmi sulla sedia con il cuscino a fiori, mentre, inforcando i tuoi occhiali, ti mettevi alla ricerca del libro che conteneva la spiegazione in maniera dettagliata. Con il tuo: “Oh, eccolo qua!”, richiudevi l’elegante anta di vetro molato della libreria e ti sedevi dietro la scrivania fatta a mano, quella che avevi regalato alla mamma in occasione del suo primo giorno di scuola alle elementari. Sistemavi poi il tappeto giallo sotto i tuoi piedi perché e, una volta scelta la giusta inclinazione di luce, cominciavi a spiegarmi l’annosa faccenda gesticolando con le tua mani come solo tu eri solito fare.
Ce l’ho ancora stampate davanti agli occhi, credo che non riuscirò a dimenticarle mai quelle mani grandi mentre, durante la spiegazione, le univi spingendo le dita della mano sinistra contro quelle della mano destra facendole poi dondolare in su ed in giù. Io ero rapita dalla tua voce, dal tuo sorriso, dalla tua cultura, dalla tua eleganza. Dopo ore trascorse nello studio tu mi chiedevi se quella volta sarebbe stata l’ultima, se avevo effettivamente capito, ogni anno dicevo sempre di sì ma ricordo ancora quella volta nella quale tu mi costringesti a spiegare quello che avevi concluso appena di dirmi. Tentennai, presi tempo, poi scoppiammo tutte e due in una sonora risata perché avevi capito che, anche quell’anno, avevo trovato la scusa di starti vicino, di ascoltare la voce, senza comprendere poi molto di quella spiegazione.