Alle otto del mattino successivo la nonna, la mamma ed io eravamo già in ospedale, alla disperata ricerca di qualcuno che potesse darci notizie sul tuo stato di salute.
Qualcuno si limitò ad indicarci il piano dove ti trovavi, non una parola di più, e noi tre, non un battito di ciglia in più, ci dirigemmo come forsennate verso di te. Io ero avanti di una rampa di scale la mamma e la nonna, addolorata e stretta in quel suo vestito di seta a fiori, ma dovetti attenderle proprio fuori dal reparto dove eri ricoverato perché non ce l’avrei fatta mai ad entrare da sola e vederti steso tra anonime lenzuola.
Ed infatti lì, affannata, madida di sudore, le mani che tremavano dal nervosismo, le gambe che quasi non sentivo più, stetti fuori da quella grande porta con i vetri smerigliati che indicava l’ingresso del reparto.
Tentai anche di appoggiare la mano su quella maniglia fredda, volevo bussare, chiedere di poterti vedere, ma e non lo feci e sbagliai, perché in quel frangente avrei dovuto essere io la più forte, non la nonna ormai piegata a metà dal peso di un’assenza di in solo giorno, non la mamma che in tutta la sua vita aveva pensato a te come ad un dio, capace di vincere persino sulla morte, la stessa che mi sembrò di vedere seduta al tuo fianco su quella seggiola con l’anima in ferro e dallo schienale di plastica color verde acqua che vidi, quando l’infermiera di turno ci accompagnò da te.
Non fui io a bussare alla porta, non fui io la prima persona ad affacciarsi in corsia per vedere che aspetto avevi, non fui io a parlare con il medico, non fui io a fare coraggio alla nonna e alla mamma, non fui io a prenderti la mano quando tu ci cercasti con gli occhi, non fui io a porgerti il bicchiere d’acqua che ci indicasti, appena entrate in corsia.
Non feci niente di tutto questo ed ancora oggi ne provo vergogna. Mi limitai a volgere lo sguardo verso la rampa di scale per vedere se arrivavano la nonna e la mamma e spronai quest’ultima, con coraggiosa paura, a bussare e a chiedere di te. Non era orario di visita ma all’accettazione un medico che sapeva del tuo arrivo in ospedale, il giorno precedente, ci aveva invitato ad entrare in reparto per cercarti e chiedere ulteriori informazioni sul tuo conto. Un’ infermiera aprì la porta quel tanto per poter accertarsi chi fosse fuori e poi ci fece strada scusandosi altresì per il disordine che c’era in quel reparto, disordine causato dal fatto che quelle stanze stavano ospitando solo temporaneamente i letti di quel reparto perché altrove erano in corso dei lavori di ristrutturazione. Allora pensai a come fosse tutto transitorio in quel momento.
Mi sembrò di far parte in quel preciso istante, di un gioco sinistro nel quale tutto sembrava attendere una sistemazione definitiva cosicché tutto quello che era presente diventava ancor più velocemente passato, ed il futuro appariva così più vicino.
Percepii me stessa, la mamma, la nonna, ormai scioltasi in un pianto dirotto, come nipote, figlia e moglie solo temporaneamente, lo saremmo state ancora per poco, qualche settimana ancora e tu non ci saresti stato più, non avremmo più potuto pronunciare quelle parole che amavamo tanto: nonno, papà, Pasqualino. Ricordi, la nonna amava chiamarti così, tu non lo disdegnavi quel diminutivo perché così ti aveva chiamato tua madre e così si era rivolta a te la nonna in 50 anni di matrimonio, specie nei momenti di tenerezza. Mentre questi pensieri turbinavano nella mia mente talmente velocemente da farmi mancare le forze, l’infermiera ci fece segno con il braccio teso che ti avremmo potuto trovare lì, dietro l’angolo, nel primo lettino a destra, vicino alla finestra. Cosa c’era dietro quell’angolo di un muro dipinto in fretta di bianco?