Il sole era particolarmente caldo quel giorno di Pasquetta del 2001, allora ti invitai ad uscire fuori, in veranda, per accomodarci attorno al tavolo dalle piastrelline arancioni, sotto l’albero del cachi e del nocciolo che proprio in quei giorni stavano mettendo le giovani e verdi foglie alla loro chioma e così, per non scontentarmi, accettasti il mio invito e appoggiandoti a me, scendemmo i gradini del balcone.
Poi, quella richiesta…quella richiesta che non avresti mai fatto se non avessi sentito vicino la tua fine: chiamare qualcuno per far portare via le reti richiudibili che per decenni avevi conservato in cantina. Sì, proprio quelle reti… le stesse che per anni avevano accolto il bisnonno, gli zii, i vostri parenti. Le avevi conservate per così tanto tempo che sembravano far parte di te, della tua vita, della nostra storia.
Le tenesti giù in cantina per anni, tra le botti e le bottiglie, perché la vita è anche questo sperare che qualcuno ti venga a trovare, è anche questa disponibilità verso gli altri, questa ospitalità che sapeva di brande pieghevoli e di pranzi preparati dalla nonna, di sonnellini e di caffè pomeridiani, di pizza napoletana mangiata insieme in veranda, sotto un cielo stellato.
Quel giorno, invece, capisti che la morte avrebbe trascinato tutto con sé, come fa un’alluvione, e prima ancora che qualcuno si prendesse il disturbo di buttare quelle reti, lo facesti tu, chiedendo a me di cercare qualcuno per portarle via, tanto, dicesti, non sarebbero servite più a nessuno. Non ti saresti mai disfatto di quelle reti se solo avessi avuto il minimo sentore di poter continuare a vivere, non avresti mai negato la possibilità a qualche parente di stare un po’ con te e con la nonna, anch’ella meravigliata da questa inaspettata richiesta.
Cercammo, così, quell’uomo che guidava un vecchio camioncino con il quale andava a svuotare le cantine di oggetti, di cose di cui la gente voleva disfarsi. Venne da noi un pomeriggio di primavera, entrammo nel locale sottostante la casa per prelevarne una ad una come fossero state prigioniere di un speranza, ma erano incastrate tra loro e non volevano saperne di lasciare per sempre la tua cantina. Erano malconce ma sembravano essere felici, felici di averti reso lieto per tutti quegli anni. Ora, però era il momento dell’addio, tu eri poggiato con le braccia sulla balaustra del balcone di casa, la cantina era proprio lì sotto e stavi aspettando di vedere uscire da lì quelle brande.
Tu le guardasti una ad una quasi a riconoscerle, quasi a volerle salutare amorevolmente. Se per molti erano solo delle reti di ferro malandate, per te rappresentavano la vita che ti stava lasciando, la vita che avevi trascorso con tua moglie, le estati della tua età matura quando davi ospitalità ai bisnonni, e poi agli zii. Prima di dirigermi verso il camioncino che non aspettava altro che di caricare le brande, mi girai verso di te come a chiederti se volevi ancora che si compisse quel gesto, quasi a sperare che ti fosti pentito nell’affidare le tue reti a quell’uomo.
Lui era lì, ad aspettare e, vista la mia titubanza, non ci pensò su due volte a venirmi incontro per levarmi di mano le reti. Le addossò una all’altra, malamente, le legò strette con una corda di fortuna, si accertò che non cadessero lungo il tragitto, chiese i soldi e se ne andò. E noi rimanemmo lì, tu, affacciato al balcone, io, fuori il cancello a vedere il vecchio camioncino che si stava allontanando dalla nostra casa, portando via, per sempre, quelle reti che sembravano salutarci. La rete più piccola, quella a una piazza, aveva persino tentato di rimanere in cantina, essendosi incastrata più volte tra il torchio ed una botte, forse pensava che se avesse opposto resistenza, avremmo deciso di ospitarla ancora per un po’ nel locale sottostante la casa.
Credevamo entrambi, nonno, che anche le cose avessero un’anima, che sentissero, che percepissero le nostre emozioni. Lo credo ancora oggi.