“Un istante, un solo istante e la vita vira, modifica la sua rotta. Tutto cambia…specie per chi rimane e deve continuare. E così diventai, un mattino di settembre, orfana di padre a causa di un incidente sul lavoro. Mia madre dovette andare a servizio e mi ritrovai a dover accudire i miei due fratelli più piccoli. Io ero la più grande…ma avevo appena dieci anni…dieci anni ed ero diventata la capofamiglia: pulivo casa, preparavo il pranzo e la cena, lavavo i panni di tutti”.
Ancora tanto il dolore nelle parole di Franca, oggi donna di 50 anni, madre di tre figli e prossima a diventare nonna.
Quello che è successo durante la sua infanzia, ce lo racconta lei stessa, davanti ad un ottimo ciambellone.
“Frequentavo la quinta elementare quando mio padre morì e, oltre al dolore, allo sconcerto, arrivarono anche le difficoltà economiche. I miei genitori stavano costruendo una casetta in campagna, dove ci saremmo trasferiti l’anno successivo ma, con la scomparsa di papà, dovemmo bloccare tutto. Fummo persino costretti a lasciare l’appartamento dove eravamo in affitto per andare in un sottoscala umido e dal quale vedevamo soltanto le scarpe delle persone che passavano in strada”.
Non furono le privazioni e le restrizioni ad abbattere Franca, quanto quello che dovette sopportare a scuola.
“Cominciarono a farmi pesare le mie scarpe vecchie, il fatto che non avevo più un diario, perché tutto, in quel momento, anche pochi spicci, facevano la differenza tra mangiare o restare digiuni. Meno che mai potevo acquistare gli album delle figurine che tanto andavano di moda in quegli anni. E la mia merenda non era più il pezzo di pizza rossa acquistata al forno vicino scuola, ma una fettina di pane con un formaggino. Fu così che i miei compagni di classe cominciarono a farmi sentire diversa, a prendermi di mira, a chiamarmi “la pezzentella”. Nessuno più voleva venire a casa mia, anche se io, di tempo da dedicare alle compagne di classe, ne avevo sempre pochissimo”.
Quando un giorno l’insegnante formò i gruppi per la consegna di un cartellone di geografia, nessuno la volle nel proprio, adducendo il fatto che i suoi abiti puzzassero di chiuso.
“Nessuno voleva sedersi accanto a me al banco, nonostante l’amorevole intervento della maestra la quale decise, un giorno, di farmi mettere vicino alla cattedra con banchetto singolo, ma questo non migliorò la situazione, tanto che i miei compagni si divertivano, appena l’insegnante si voltava per scrivere alla lavagna, a lanciarmi, con la biro di plastica, dei pezzetti di carta. Fu un anno durissimo, e di questo non potevo ovviamente parlare con mia madre, già oberata di lavori pesanti e sfiancanti”.
Poi le cose lentamente migliorarono quando i nonni materni decisero, l’anno successivo all’incidente, di trasferirsi da loro, riuscendo a finire anche i lavori di quella casa tanto agognata; nel frattempo, la madre ottenne un lavoro fisso da operaia in fabbrica.
“Eppure, ancora oggi sento addosso quel disprezzo che mi vomitavano addosso tutti i giorni i miei compagni di classe. Era bullismo… anche se all’epoca non aveva questo nome. E quando oggi leggo storie di bambini vittime dei bulli mi sento impotente e triste, perché sono cose che rimangono impresse a fuoco nell’anima, per sempre”.
Franca ha parlato per tutto il tempo con la voce rotta da dolore antico eppur presente, stringendo le mani, una nell’altra, in maniera ritmica. E, nonostante oggi la sua casa sia piena di luce, con un bel terrazzo pieno di piante che cura lei personalmente, e nonostante i tre figli e il nipotino che arriverà tra breve, dentro di sé quelle ferite, di quando per gli altri era “la pezzentella”, urlano ancora nella notte dei ricordi con la loro voce stridula, sgradevole, perché dal bullismo non si guarisce mai completamente, perché il passato torna, anche se a chiamarlo è un minuscolo, impercettibile dettaglio.
Alessandra Fiorilli