Quella sera, prima di cena, scesi di nuovo giù da te: la nonna mi aveva avvertito che ti eri svegliato. Lungo le scale mi fermai a pensare che un sonno pomeridiano così lungo non lo ricordavo, ti eri sempre allungato un po’ sul letto dopo pranzo, lo avevi fatto sempre, anche da giovane, ma quel pisolino, quel breve lasso di tempo che dedicavi solo a te e alle tue lenzuola di lino ricamate, durava al massimo tre quarti d’ora.
Lo ricordo bene, nonno, quel rito al quale ci avevi abituate.
La scena era sempre la stessa ma capace, comunque, di non scivolare mai nella solita, noiosa routine.
Dunque, tu ti alzavi da tavola mentre la nonna preparava il caffè con la crema allo zucchero, la mamma sparecchiava e, dopo aver ringraziato Dio, il quale ci aveva regalato un altro giorno da passare insieme riuniti attorno alla tavola, salutavi una ad una le tue donne, come amavi chiamarci, alla nonna stringevi sempre il naso, come si fa con i bambini, e lo celebravi sempre ammettendo che quel delizioso nasino e gli occhi verdi erano state le cose che più ti erano piaciute di lei, alla mamma mettevi una mano in testa carezzandole i capelli castani e a me stringevi la mano, talvolta mi regalavi il saluto militare ed io ti rispondevo portando la mano tesa davanti la fronte.
Poi ti recavi in bagno e alla tua uscita, lungo il corridoio si poteva sentire il profumo inconfondibile del tuo dentifricio alla menta, che era ormai diventato un tuo odore caratteristico, attraverso il quale ti avrei riconosciuto tra mille, anche ad occhi chiusi. Chiudevi la porta della camera da letto e sistemavi il cuscino, ma non ho mai saputo se indossavi il pigiama o ti coricavi solo sulle coperte, è un segreto, questo che è rimasto tale. Questo rito si compiva introno alle due e mezza del pomeriggio, ma solo da quando eri andato in pensione perché a quell’ora, quando prestavi servizio come maresciallo presso la caserma, rientravi a casa brandendo nell’aria il tuo cappello e salutavi me, la mamma e la nonna che eravamo rimaste a tavola ad aspettarti, nonostante avessimo già finito di mangiare.
Ma noi non ci saremmo perse per niente al mondo lo spettacolo di quando sollevavi il piatto piano da quello fondo che la nonna aveva messo per non far raffreddare la pasta, di quando tentavi di dare una forma a quegli spaghetti, che, complice il vapore acqueo, erano diventati un blocco unico. Allora chiedevi alla nonna di ripassarli nella padella, magari con un po’ di burro e in attesa che gli spaghetti riprendessero forma, sbirciavi nel piatto riservato al secondo il contenuto dello stesso. Poteva ospitare la fetta di carne arrostita con la lattuga, la mozzarella di bufala con l’insalata mista, il pesce con le patate ma mai il pollo perché non riuscivi proprio a mangiarlo. Mentre attendevi che la pasta ti fosse messa davanti, io, te e la mamma parlavamo un po’ della mezza giornata trascorsa, poi terminavi il pranzo con l’immancabile arancia, se d’inverno, o le pesche giallone se d’estate.