Nonostante la mia ferrea volontà di regalarti un giorno di festa, nonno, quel 1° maggio fallii miseramente nel mio tentativo. Tutto terminò con quel pane fragrante spezzato e lasciato lì, sulla tovaglia che sembrava, all’improvviso, aver perso tutti i suoi colori.
Ti accompagnai in casa, e tu, mestamente, ti dirigesti verso la tua camera. Andai in cucina e sfogliai il calendario e sapevo, ormai, che in un giorno qualsiasi mi avresti lasciato. Era certa solo di una cosa, nonno: ti avevo amato moltissimo, sin da bambina, e continuavo a farlo, ecco perché il mio dolore, quel 1° maggio 2001, sembrava essere un abisso nel quale mi trovavo, senza più aria, senza più luce, senza più speranza.
Tu riuscisti a leggere nei miei pensieri e proprio in quel momento mi dicesti che avrei dovuto continuare a scrivere, sempre, che non avrei mai dovuto smettere di farlo. Ma scrivere con il cuore, scrivere parole vere, scrivere di sentimenti e di sorrisi, di risate e di dolore, di inquietudine e di gioia, di pienezza e di solitudine. Capii che non ti riferivi al mio lavoro da giornalista ma non riuscii a comprendere quello che tu intendevi. Solo adesso, nonno, solo ora che sto seduta davanti al computer e racconto di noi e parlo di te, solo nel momento in cui sul terminale appare quella lineetta nera che lampeggia ad intermittenza, invitandomi a far scorrere le mie dita sui tasti, capisco cosa significa scrivere. Non l’ho mai fatto prima d’ora, con quella intensità che solo l’anima può regalare, con quella forza che solo i sentimenti veri sanno offrire, con quel desiderio di far partecipe gli altri della nostra storia, del nostro amore, che non è andato via e che sento ancora sulla mia pelle, che leggo nei miei occhi, soprattutto quando, seppur orami molto raramente, mi sento abbandonata dalla speranza, quella stessa speranza che tu mi hai intimato, sino all’ultimo, di non perdere mai, perché la vita stessa è speranza.