Sì, ci regalammo un pezzo della mia infanzia, quel mattino, quando tornammo indietro con la mente a quel 5 maggio 1984…ricordi, nonno, io, dopo essere rientrata da scuola, mi precipitai nel tuo studio dicendoti che avrei dovuto imparare a memoria, per il giorno successivo, l’intera poesia del Manzoni, accompagnata anche da una serie di considerazioni personali.
Continuavo a camminare nervosamente per l’elegante studio con a terra i marmi rosa e bianchi. Tu mi seguivi con lo sguardo sino a quando mi invitasti a tornare giù da te e dalla nonna per mangiare le fettuccine con i ceci che tanto mi piacevano, poi, dopo pranzo, ci saremmo messi a studiare insieme la poesia nello studio dominato da quel bellissimo arbusto che ancora arricchisce di verde e di fiori candidi le mie giornate di scrittura.
Così feci, ma anche quel prelibato primo piatto preparato dalla nonna sembrava privo di sapore perché la mia mente era lì, adagiata su quei fogli di quaderno zeppi di parole da imparare a memoria. Quel giorno fu veramente un giorno particolare perché, per placare la mia preoccupazione di bambina, rinunciasti persino al tuo sonnellino pomeridiano. Non mangiammo neanche il secondo io e te, ma ci precipitammo nello studio ad aprire quel quaderno minaccioso.
Tu mi invitasti a leggere la poesia per intero, facendo attenzione ad ogni singola parola e dando la giusta intonazione. Feci quello che mi dicesti di fare, senza polemiche o senza dubbi, perché i tuoi consigli avevano sempre dato buoni frutti, a noi tutti bastava seguirli e tutte le paure, tutte le preoccupazioni, sembravano svanire di fronte a quella sicurezza che tu riuscivi ad infondere nell’animo di tutti. Cominciai a leggere ad alta voce, le parole che uscivano dalla mia bocca stavano prendendo forma e, mentre la lettura della poesia procedeva, la mia fantasia costruiva un percorso parallelo, fatto di immagini mute che accompagnavano quelle parole scritte con la penna blu. Sembrava di vederlo Napoleone, prima vittorioso e spavaldo, poi solo e disperato nell’Isola di Sant’Elena, in esilio.
La poesia mi stava piacendo, sembrava essere un’altra ode rispetto a quella che avevamo letto in classe, tra le proteste dei miei compagni e l’irremovibilità della maestra, la quale continuava a ripetere che il giorno successivo avrebbe interrogato tutti, non ammettendo nessuna giustificazione. Io alzavo di tanto in tanto la testa da quel quaderno e ti vedevo assorto, talvolta chiudevi gli occhi per assaporare ogni singola parola, eri un uomo eccezionale, nonno, capace di provare un’emozione anche di fronte ad una poesia che tu sapevi a memoria. In questo sta la grandezza di una persona, solevi ripetermi spesso: nella capacità di essere leali di fronte ai bisogni del proprio animo, coerenti e fedeli verso ciò di cui la nostra mente ha bisogno per sentirsi viva, libera e felice. Scontato emozionarsi di fronte ad un paesaggio mozzafiato, ad un’opera d’arte che si ammira per la prima volta, difficile far rivivere quell’emozione ogni qualvolta si guardi quel paesaggio o quel quadro. In questo risiede la vera felicità, quella che ci rapisce e ci porta lontano, al di sopra della meschinità, della falsità, della retorica, delle frasi dette e non pensate, dei pensieri pensati e non detti. Questo significa amare, ma amare per davvero, senza infingimenti o condizioni di comodo, senza secondi fini, senza pensare che una nostra azione debba necessariamente essere seguita da un’altra simile, compiuta dalla persona alla quale l’abbiamo donata liberamente e con gioia. Ecco, tu eri così, nonno: il tuo animo era puro, talmente puro da emozionarsi all’ascolto di una poesia che conoscevi sin dai tempi delle elementari.