La mamma, nello stesso momento in cui mi stavo crogiolando nella piega di un dolore mai provato sino ad allora, stava offrendo un bicchiere d’acqua fresca alla nonna, tremante ed in lacrime.
Quel modo della mamma di porgere il bicchiere alla nonna, ti fece rivivere per un breve istante in quella cucina: tu non c’eri in quella casa eppure non solo tutto parlava di te ma anche un semplice gesto portava impressa una tua abitudine, una tua consuetudine.
Tu eri ancora vivo, nonno, ma quella casa ti stava piangendo come se già non lo fossi più. Erano trascorsi appena dieci minuti da quel suono della sirena dell’ambulanza, erano solo dieci minuti che non ti vedevamo e già ci sembrava di impazzire. Ci recammo in ospedale e qui aspettammo per un tempo che sembrò lunghissimo… poi una porta si spalancò, si spalancò sulle nostre paure, sulla nostra disperazione. Ci chiesero se eravamo noi i tuoi congiunti.
Ti confesso, nonno, che il tuo cognome, da tutti e da sempre pronunciato con rispetto ed ammirazione, sembrava risuonare, in quelle tristi stanze di un ospedale, come un qualcosa di vuoto, senza significato, cinque sillabe legate tra loro che celavano dietro di sé tutta la gloriosa storia dei tuoi antenati. Il bollettino medico che scaturì da quella visita non sembrava aver risolto molto degli iniziali dubbi, poiché il quadro generale era molto nebuloso ma un ricovero era quanto mai necessario.
Tutto finì lì quel pomeriggio di giugno, non ci fu concesso il vederti. Nonostante il consulto fosse finito già da qualche minuto, noi rimanemmo immobili, quasi inebetite da quelle parole che non avevano sciolto né i dubbi né le nostre lacrime, compresse nei nostri occhi, quasi a voler scacciare la realtà di una situazione che da sola avrebbe giustificato tutte le lacrime che un uomo può piangere nel corso della propria esistenza. In questo dolorosissimo limbo i nostri passi divennero pesanti, il respiro sembrava di piombo, fu una sensazione strana quella che provai di ritorno dall’ospedale, mi sentii, di colpo, come allinearmi a te, al tuo stato di salute, alla tua debolezza, alla tua difficoltà di tenere gli occhi aperti. Le nostre anime, compagne e complici, stavano collimando anche in quel momento di profondo dolore e mentre la nostra macchina passò proprio davanti alla caserma, dove avevi prestato servizio per così tanti anni, pensai alla forza dell’amore ma anche alla sua grande impotenza.
L’amore vince tutto e su tutto anche sulla morte, è vero, ma non sul momento che la precede: l’amore non può vincere sulla sofferenza, né sul decadimento fisico…qui l’amore deve abbassare il capo, anzi diventa una cassa d’amplificazione del dolore, perché più ami e più soffri nel vedere la persona, oggetto di così tanto amore, costretta a giacere in un letto. Avrei voluto piangere quel pomeriggio, di ritorno dall’ospedale ma non potevo farlo davanti alla nonna e alla mamma, avrei avuto bisogno di piangere perché tu eri in quel reparto d’ospedale senza le tue lenzuola, senza i tuoi sandali di cuoio, fedeli compagni di tante passeggiate, ma non era quello il momento di lasciarsi andare, perché le forze richiedevano di essere concertate e concentrate su di te che avevi bisogno di me, in quei tristi giorni, forse più di quanto io ne avessi di te.