E fu così che arrivò il giorno delle tue dimissioni e con esso il tramonto di ogni nostra speranza, nonno. Fui io a comunicarti, una sera, che il giorno dopo saresti tornato nella tua casa e tu, con voce appannata, mi chiedesti di prepararti la valigia.
Ti risposi che mancavano più di dodici ore alle tue dimissioni, ma dovetti piegarmi davanti alla tua insistenza. Ti comportasti come un bambino, nonno, quella volta, credevi che solo se avessi tirato fuori la valigia portandola dall’armadietto, sistemandola poi vicino al letto, saresti uscito. Fu l’unica occasione in cui mi sentii più grande di te, e fu una sensazione che non mi piacque affatto perché eri tu la sola persona della famiglia che poteva riprenderci, segnalarci un errore, spronarci a fare del nostro meglio… tu, sempre e solo tu, come era avvenuto in tutti quegli anni.
Dovevo andare via, l’infermiera ci stava avvisando che l’orario delle visite era terminato ma tu non volevi lasciare andare la mia mano, perché eri impaziente di abbandonare quel letto d’ospedale, forse avresti voluto farlo quella sera stessa ma ciò non era possibile.
Ci salutammo nel nostro modo, tra le lacrime di un’intera corsia che si era commossa davanti alla nostra storia così speciale, a quel legame d’amore fortissimo e viscerale, a quel nonno che sembrava un padre, nei modi di fare e di guardare, a quella nipote che sembrava una figlia nel modo di piangere ma anche di risollevarsi da terra per infonderti coraggio, quando ormai non ce n’era più a sufficienza.
Dunque io ti salutai con la mano augurandoti: “ Buonanotte nonno”.
Tu portasti alla bocca la mano sinistra, due sole dita della mano sinistra, l’indice ed il medio, per lanciarmi il bacio dell’arrivederci. Io poi ti voltai le spalle e mentre correvo giù per le scale per fare più in fretta possibile, per far correre di più il tempo, in modo che venisse subito l’indomani mattina, pregai affinché quell’arrivederci fosse realmente tale, sperai che la notte non lo avrebbe trasformato in un addio.