La notte non passò mai, ti confesso, nonno, che quella è stata l’unica notte in cui non ho realmente chiuso occhio. Sono rimasta distesa, immobile sul letto, con l’orologio sul comodino in attesa che arrivassero le otto del mattino.
Non pensavo più ormai che dopo qualche giorno saresti morto, quello che contava era di portarti cosciente a casa.
Non pensai a come sarebbe stata la mia vita senza di te, alle stanze senza i tuoi passi, alle feste con la tua sedia vuota, ai tuoi sandali di cuoio riposti tra le altre scarpe, ai tuoi vestiti che non avrebbero più fatto compagnia alle tue giornate, ai tuoi libri, alle tue piante, alle tue cesoie, ai tuoi guanti da giardino, ai tuoi cappelli, alla tua presenza che non avrebbe più colmato le nostre esistenze. Tutte le mie forze erano ormai concentrate sul mattino successivo che fu più difficile da gestire di quanto potessi credere.
Arrivò l’alba di quel giorno, e non potei trattenermi dallo spalancare le finestre appena la prima luce del sole entrò tra le imposte della mia finestra. In 28 anni, nonno, non ho mai osservato il sorgere del sole come quel tuo ultimo mattino in ospedale. Non avevo mai avuto occasione di svegliarmi così presto, solo le volte in cui dovevo sostenere un esame all’università, ma in quei momenti ero tesa e non avevo il tempo sufficiente per ammirare attorno a me quello che succedeva alla natura al suo primo risvegliarsi dopo la notte.
Ma quel mattino…quel mattino decisi di vedere con attenzione quello che avevi visto tu per quasi 80 anni: gli uccellini cinguettavano allegramente passando da un ramo all’altro degli alberi del giardino, si rincorrevano, svolazzavano, poi scendevano in terra e andavano a rubare qualche mollica di pane fuggita via da qualche tovaglia scossa, le foglie brillavano di rugiada, il prato era leggermente bagnato, i gatti acciambellati gli uni sugli altri, le strade deserte.
Era come mi avevi sempre detto tu, nonno: gli unici suoni delle prime ore del mattino ce li regala solo la natura, l’aria è fresca, si posa delicatamente sulla pelle scoperta e pensando alle ore successive, al caldo soffocante, allo smog, al vociare delle persone, vorremmo rimanere lì, a goderci lo spettacolo della natura. Quel mattino ti sentii forte dentro di me, e quelle stesse cose che tu amavi tanto fare, già le stavo facendo io per te, attraverso te, grazie a te e a quello che mi avevi insegnato nei nostri 28 anni di vita vissuta assieme.
Lo spettacolo del volo degli uccelli, della rugiada sulle foglie e sul prato, stava continuando a far bella mostra di sé nel nostro giardino ed io avvertii quasi che le tue piante, gli alberi mi incitavano ad andare, a correre da te, perché saresti uscito dall’ospedale: la lunga prigionia, come la chiamasti poi tu, era finita e con essa la mia speranza di salvarti e di tenerti ancora un po’ con me.
Gli ignari uccellini continuarono a volare da un ramo all’altro, di lì a poco il rumore sarebbe tornato con le auto, le persone che si apprestavano a recarsi al lavoro: tutto sarebbe stato come sempre, ma non per me. Mi vestii, non di fretta, ma accuratamente, evitando di indossare i colori che non ti piaceva vedermi addosso, vivacizzai i ricci con la gelatina, misi gli orecchini, e presi la borsa. Ero talmente triste, infelice, addolorata, straziata, avvilita, che mi sembrò di star bene e mi apparvero del tutto normali quelle azioni compiute con leggerezza, come se fossi dovuta uscire per una passeggiata. Invece stavo venendo da te, così impaziente di andar via da quelle corsie, così impaziente di tornare nella tua casa.