Arrivai in ospedale, entrai nella tua stanza, io presi la tua valigia mentre la mamma era andata a parlare con i medici per le ultime istruzioni da seguire una volta giunti a casa. Io ti strinsi la mano, tu stringesti la mia e poi…e poi piangemmo tutti e due, solo un po’, giusto il tempo per capire che sapevamo ormai entrambi che ci saremmo dovuti salutare per sempre, non ci sarebbero stati buonanotte ed arrivederci, ma solo un addio.
Durò poco il pianto perché era inutile sprecare forze ma necessario, invece, era il convogliarle tutte verso un unico scopo: tornare a casa. Intanto, attorno al tuo letto arrivarono gli altri degenti che ti avevano coccolato con lo sguardo, controllato di notte se il tuo respiro era regolare, o avvertito i medici se qualcosa non andava.
Furono tutti molto solidali con te, partecipi della tua sofferenza, avviliti che una mente così brillante, un animo così grande fosse costretto ad abbandonare per sempre questo mondo.
Tutto era pronto per l’uscita: avremmo potuto trasportarti in ambulanza, ma tu al solo sentire quel nome ti agitasti: desideravi invece regalarti un ultimo viaggio in macchina, saresti passato ancora una volta davanti a quella caserma che serbava i ricordi di una vita lavorativa, saresti sceso lungo quella strada che percorresti per tanti anni con la tua bicicletta… agile, veloce ma soprattutto libero. Innanzi a questa tua ultima richiesta, la mamma si precipitò ad avvertire lo zio che, trafelato, arrivò prestissimo.
Noi lo aspettammo fuori il reparto e lo informammo di tutto, lui con gli occhi velati di lacrime disse che era un atto dovuto l’esaudire questo tuo desiderio, anche se ci sarebbero stati notevoli problemi per il trasporto. ù
Fosti subito messo su di una sedia a rotelle e dopo aver salutato tutti con un gesto della mano, chiedesti la tua valigia, volevi tenerla in seno, trattenerla con le mani sulle ginocchia ma anche quel semplice gesto sembrava essere diventato impossibile. La lasciasti cadere per terra, io la raccolsi mentre vi dirigeste verso l’ascensore.
Le pesanti porte color carta da zucchero si chiusero dietro la tua sedia a rotelle, ad annunciarci che di lì a poco avresti portato con te tutti ricordi, tutte le gioie, tutti i dolori, tutte le speranze di una vita vissuta come credevi che fosse giusto viverla: nell’amore.
E quanto ne hai regalato, nonno, elargendolo a piene mani: ogni tuo semplice gesto, ogni tuo sguardo, ogni tuo sorriso, persino ogni rimprovero, trasudava d’amore. Non c’è gesto da te compiuto che non sia stato carico d’amore, né una parola, né un pensiero. Il tuo amore, nonno, era nella fetta di pane tagliata accostando la pagnotta cotta a legna al tuo ventre, era nel piatto di pasta e ceci che ci porgevi a tavola, era nella bottiglia di vino che regalavi alla mamma, era nell’aprirmi l’ombrello fuori dalla scuola, era nel venirmi incontro per le scale per aiutarmi a portare su la spesa, era nei pomodori che ci offrivi di ritorno dalla campagna, era in una pagina di un libro letto assieme nello studio, era nei compiti di latino che mi correggevi, era in uno sguardo severo di rimprovero, era in quel tuo gesto della buonanotte che ci regalavamo ogni sera. Ma era anche in quel tuo andare via sulla sedia a rotelle quando, poco prima che ti sistemassero su di essa, mi dicesti che mi sarei potuta allontanare da te, se non riuscivo a sopportare quella scena, nonostante tu avessi voluto fortemente che rimanessi accanto a te. Ma io rimasi lì, nonno…rimasi con il cuore straziato, con le lacrime che appannavano i miei occhi…rimasi perché non volevo perdere neanche un istante di te.