Dopo aver pronunciato con grande difficoltà quelle poche parole, cariche però di un profondo significato, tu mi chiedesti se potevo massaggiarti un po’ le gambe e le ginocchia, perché ti dolevano molto. Al primo contatto che ebbi con le tue gambe, mi venne spontaneo ritrarre la mia mano, poi però la poggiai subito nuovamente su di te, perché non avrei più dovuto o potuto sfuggire davanti al dolore e alla tua malattia.
Allora cominciai a far scorrere dolcemente, attenta a non far nessuna pressione, la mia mano destra sulla tua gamba e fu così che provasti sollievo per quello che non fu un massaggio, ma solo una carezza. Era da poco passata l’ora di pranzo, l’orologio segnava le due e mezza, l’ora nel quale per tanti anni rincasavi trionfante e sorridente con la tua divisa. Fu estremamente doloroso per me riconoscerti in quella tua debolezza, in quel tuo dolore ma eri tu: il mio forte, coraggioso e saggio nonno.
Poi arrivò il medico: ti visitò e quando uscì dalla tua camera aveva gli occhi abbassati in terra, quasi a voler sfuggire i nostri sguardi smarriti che andavano alla disperata ricerca di una parola di conforto, di una rassicurazione che, però, non arrivò.
Fummo costretti ad ascoltare parole pesantissime, ad assistere impotenti ad una sentenza inappellabile: era certo, ormai, dato il tuo quadro clinico, che di lì a qualche giorno saresti morto.
Ecco, tutte le mie speranze, il mio desiderio di vedere miglioramenti anche dove oggettivamente non ve ne erano, la mia tenacia nel volerti trattenere con me, la mia incapacità nell’accettare l’inevitabile, tutto, ma proprio tutto era lì, davanti a me, era davanti ai miei occhi e stava lentamente crollando… non potevo fare altro che farmi forza.
Nessuno parlò dopo il medico, né io, inebetita dal dolore lancinante che mi spezzava il respiro, né la mamma, né la nonna che fu talmente colpita da quelle parole che non riuscì nemmeno a dar sfogo alla sua disperazione ed andò in cucina a preparare la cena. Dopo aver accompagnato il medico sin fuori casa, rientrai dalla nonna: era tranquilla, sembrava quasi non avesse compreso pienamente la gravità di quelle parole. Infatti quando si girò verso di me, disse che non saresti morto, che non avresti mai potuto abbandonarci.
Fu apparentemente incomprensibile la sua reazione, sembrava non rispondere a nessuna logica, poi riflettei a lungo su quanto stava accadendo e pensai di aver trovato la risposta ad un quesito così pesante: sino a quando c’era stata una flebile speranza di guarigione, lei aveva permesso al dolore di andare via, di farsi lavare dalle lacrime, poi però quando non si poteva più sperare, tutta la disperazione aveva indossato la maschera della tranquillità e dell’apparente serenità, perché il dolore della nonna era talmente grande in quel momento che non sarebbero bastati anni di lacrime a trascinar con sé il profondo senso di smarrimento che stava prendendo il sopravvento su di lei. Lei, così fortemente dipendente da te, lei, che dopo 50 anni di matrimonio lavava ancora a mano i tuoi indumenti, lei che ti serviva sempre per primo anche se a tavola c’era l’ospite di riguardo, lei che sapeva, allungando la mano di notte, di trovare la tua, grande, forte, lei che da sola non avrebbe neanche più apparecchiato la tavola né cucinato perché tutto il senso della sua vita era condensato in te, in te che ci stavi per lasciare.