Quando entrai in casa, la nonna era già nello studio, che nei giorni dopo il tuo rientro dall’ospedale, aveva mutato la sua natura di stanza di lettura, sommersa com’era la scrivania, di garze, bende, prescrizioni del medico. In camera da letto, sul comò, il diario giornaliero che l’infermiera aggiornava di volta in volta, riportando i valori della glicemia, della pressione arteriosa e della temperatura corporea, che non scese mai al di sotto dei 37°. Quella febbre, di cui mi aveva informato il medico in ospedale, l’avevi trascinata da quelle corsie bianche facendola entrare nella tua casa, nel tuo letto, tra le tue lenzuola di lino, e proprio non voleva saperne di andare via.
Il 3 luglio, invece, accanto ai valori registrati quotidianamente, non c’era scritto niente: non c’era stato tempo di vedere quanto misurasse la tua pressione o la tua temperatura corporea. Il diario era aperto proprio al 3 luglio e sarebbe rimasto fermo lì, come l’orologio di quel centro dell’Irpinia stravolto dal terremoto dell’80, le cui lancette si bloccarono proprio nell’ora della scossa più violenta.
Il mio dolore era talmente grande, nonno, che avrei voluto fare come quell’orologio e sedermi lì, sulla tua sedia, e restarci delle ore, ad aspettare che un’altra scossa, di più forte intensità, venisse a svegliarmi da quel torpore. Ma la vita doveva andare avanti, anche senza di te, e così, facendomi coraggio e tentando di infonderlo un po’ anche alla nonna, cominciai a fare ordine nella tua stanza da letto. Il materasso di lana spogliato delle sue lenzuola, dei suoi cuscini, delle sue federe, portava ancora la forma del tuo corpo e mi fece grande impressione pensare che sino al giorno precedente, tu eri ancora lì, in quel rettangolo di lana cardata.
Scappai via da quella stanza e mi rifugiai nello studio. Anche lì c’erano i segni della tua malattia ma i tuoi libri mi davano forza e mi riportavano alle nostre letture, ai commenti fatti assieme su di una poesia.
La nonna entrò nella camera da letto dove si aspettava di vedermi, io la sentii e la chiamai, dicendole che avrebbe pensato lei a sistemare la tua camera, io avrei preferito occuparmi della cucina, dove avevamo consumato i nostri sempre festosi pasti.
Fu in quel preciso istane, nonno, che fui attraversata da un brivido gelido che dal collo scese sino alla pianta dei piedi.
Era un freddo, quello che stavo percependo nella tua cucina, che saliva dall’anima, nonno, era quella sensazione di una vita a te cara che ti è tolta e che sembra scivolarti via, dalle braccia, dalle gambe e ti lascia lì, quasi immobilizzata, attonita, senza la capacità di comprendere appieno quello che si sta realmente compiendo.
Rinunciare a te ha significato rinunciare ad un rapporto speciale come è stato il nostro: mi hai trattato da adulta quando ero poco più che una bambina, hai avuto attenzioni per me, da grande, che gli altri nonni riservavano alle nipotine in tenera età. I ruoli, però, con il passar degli anni, si erano ribaltati. Da piccola ero io ad aspettarti affacciata al balcone per vedere se arrivavi dalla caserma, in sella alla tua bicicletta nera e mi preoccupavo se alle 14 e 31 ancora non ti vedevo svoltare l’angolo e scendere giù per la discesa che ti avrebbe condotto a casa, da adulta, invece, eri tu ad aspettarmi in veranda e a preoccuparti se non mi vedevi arrivare all’ora precisa per il rientro.
Così è la vita, dunque, un rincorrersi di tempi non coincidenti, di esigenze uguali e contrarie, di forze che si attirano ma che si contrappongono le une alle altre.