I giorni successivi alla tua morte sembravano eterni, avvolti in una bambagia di ricordi struggenti, di lacrime calde che, cadendo, non facevano rumore. Non c’era posto dove andare per placare la nostra disperazione ma forse era ancora troppo presto per incontrarti o riconoscerti nella sabbia che mi entrava nelle scarpe, in una mareggiata, nel vento che faceva sbattere le imposte.
Ti cercavo dove non c’eri più ma non ti trovavo in nessun luogo, in nessuna manifestazione della natura, in nessun sorriso, in nessuna pagina che rimaneva bianca, senza che tratto di penna riuscisse a sfiorarla. Il dolore mi aveva stretto con una corda pesante, con nodi strettissimi, impossibili da sciogliere, io tentavo di camminare ma non ce la facevo a slegarmi, io volevo scrivere ma non ne avevo la forza, io volevo sorridere al mondo ma la mia bocca era come sigillata, io volevo liberarmi da questa stretta di dolore e di disperazione ma ero ancora troppo infiacchita per farlo.
Aspettai, dunque, aspettai che il tempo rimarginasse le ferite e sciogliesse quel nodo che mi ha impedito, per anni, di scrivere di te. I mesi successivi alla tua morte furono pieni della tua assenza, il tempo sembrava dilatare le ore oltre misura, quelle stanze apparivano vuote, deserte, attonite anche loro, di fronte alla consapevolezza che non avresti più aperto i cassetti della scrivania, messo ordine tra le tua carte, sistemato gli abiti nell’armadio. Era così strano pensare che non ti avrei più potuto vedere, che, componendo il tuo numero di telefono non avresti più esordito, dall’altra parte della cornetta, con la tua voce squillante: “Pronto, chi parla?”.
Però da quel pomeriggio che trascorsi nel tuo studio, per riordinare i tuoi libri sui quali avevo studiato anch’io, e durante il quale ti riconobbi in quella finestra che un’improvvisa folata di un vento fece sbattere, io cominciai a sentirti e a vederti ovunque: nella perfetta rotondità e nel colore deciso delle prugne, nel verde dei fichi settembrini, in quelle nocciole che, giunte a maturazione, lasciavano sull’albero il loro involucro marroncino e cadevamo giù, sul pavimento della veranda, dandoci così la possibilità di raccoglierle e di conservarle per l’inverno, in quelle splendide giornate autunnali che tanto piacevano ad entrambi, con il cielo terso, pulito, spazzato dalle nubi, con l’aria fresca che carezza la pelle.
Tu eri ormai nelle cose che avevi amato e che continuavano anche senza di te, tu eri nelle cose che avevi vissuto, che avevi posseduto, tu eri nei miei ricordi ma non per questo non saresti stato più il mio futuro.
Perché il futuro, essendo un momento che ancora non c’è, non esiste, e per concretizzarlo davanti ai nostri occhi ha bisogno di una marcia in più, di un sostegno e questo si chiama forza d’animo e di volontà. E chi ce la può dare tutta questa volontà se non le persone che non ci sono più, ma che continuano, passo dopo passo, ad indirizzarci con il loro insegnamenti, con il loro amore? Quindi, giorno dopo giorno, pensai a te come al mezzo attraverso il quale avrei potuto plasmare il mio futuro che proprio tu, non ti stancavi mai di dirmelo, vedevi ricco e pieno di soddisfazioni.