E quando arriva settembre, nonno, respiro nell’aria l’avvicinarsi di quei momenti vissuti con te in cantina, riesco persino a sentire, se chiudo gli occhi, i tipici suoni rumori di quei macchinari che trasformavano i grappoli in vino, lo stesso che poi avrebbe accompagnato con discrezione i nostri pasti, i nostri giorni di festa, percepisco quel miracolo della natura che si può compiere solo attraverso la mano di un uomo, vedo quelle damigiane di vetro con il tappo di sughero ed il rivestimento esterno di plastica a trame grosse e poi quelle bottiglie, impazienti di ricevere in dono quel vino ambrato.
E mentre assisto allo svolgersi, nei miei ricordi, di tutte queste scene, mi sembra di rivedere anche quel contadino che ogni anno ti portava l’uva, perché le piante della campagna erano ancora troppo giovani per farlo… il contadino che scendeva dal suo trattore e ti diceva: “Cavaliere, ecco la vostra uva, quest’anno è proprio eccezionale e la più bella l’ho riservata a voi!”.
Quell’onorificenza pronunciata lì, su quel marciapiede, che si riempiva all’improvviso di bigonci in plastica che attendevano un po’ per entrare in cantina, non stonava con quell’atmosfera che sapeva di antichi tradizioni, di campagna, di terra, di lavoro pesante. Tu eri così, capace di trasformare tutto con la tua sola presenza, capace di rendere gli abiti da lavoro preziosi come quelli di pura lana o di lino che tenevi nell’armadio, quegli stivali di gomma eleganti come le tua scarpe lucide, quella cantina invasa da un ordinato disordine di uva e macchinari, accogliente come la tua camera da pranzo, con i mobili antichi ed il lampadario di cristallo a gocce.
Dove c’eri tu, qualsiasi cosa era nobilitata dalla tua classe, dal tuo inconfondibile stile. Avrei voluto, in quegli istanti, invitare tutto il mondo lì, fuori di quella cantina, per far ammirare alle persone tristi, scoraggiate, insoddisfatte, la felicità che esprimevi tu in quei momenti, quando eri intento nella preparazione del vino, quando ti muovevi con assoluta precisione tra quegli attrezzi, e poi… e poi… e poi quando uscivi dalla cantina e profumavi d’uva, ed avevi i vestiti schizzati dal succo di quei grappoli dorati. Se ti avessero potuto vedere gli altri, avrebbero capito il segreto per vivere felici, l’alchimia che ciascuno di noi può fare ogni giorno per rendere la nostra esistenza un’esistenza piena, vera, ricca di cose da insegnare e di cose da imparare. Ma io rimanevo sempre l’unica privilegiata spettatrice di quello spettacolo che ogni anno, ad autunno appena iniziato, si svolgeva davanti ai miei occhi.
Ricordi, nonno, quando pur rimanendo fuori la cantina, ti ripetevo le poesie che ogni giovedì dovevamo imparare a memoria per il giorno successivo? San Martino del Carducci era la nostra preferita e ci era assegnata per compito proprio durante il periodo della vendemmia. L’avevo imparata a memoria in terza elementare, con te che eri impegnato nel lavoro con l’uva, e non l’ho dimenticata più. La ripetevamo all’unisono, guardandoci negli occhi, sorridendo, e poi ci regalavamo vicendevolmente un applauso.