Nel momento stesso in cui l’aereo tocca la terra italica, non riesco proprio a trattenermi, e come gli immigrati che tante volte ho visto sui libri di storia, gridavano, alla vista della Statua della Libertà:
“America, America”, anch’io urlo la mia felicità per quello che sembra essere l’inizio di una nuova vita:
“Italia, Italia, nonna Angela, Signora Mila!!!”.
Mentre grido queste parole, sto scendendo le scalette dell’aereo e tutti si girano incuriositi verso di me e mi guardano in modo strano.
Nessuno di loro può sapere che ho fatto il conto alla rovescia, in attesa che arrivasse questo giorno, dal mese di ottobre e nessuno può nemmeno immaginare la felicità che sento nel cuore al pensiero di riabbracciare mia nonna.
“Ma cosa fai, Ludovica, ti sembra questo il modo di comportarti in pubblico?” mi chiede mio padre, usando un tono che sa di rimprovero.
“Papà sono solo felice, tutto qua!” gli rispondo con una voce troppo alta, ben oltre la norma consentita dai miei genitori.
“Le persone educate sono in grado di mantenere sempre un atteggiamento equilibrato e corretto. Il segreto è di bilanciare la nostra parte emotiva con quella razionale, proprio come si fa nelle reazioni chimiche”.
Stavolta non replico nulla, anche perché sarebbe del tutto inutile: mio padre si è brillantemente laureato in chimica farmaceutica e lavora da tantissimo tempo come ricercatore presso la più importante multinazionale del mondo, il suo lavoro ha influenzato molto, forse troppo, anche il modo di gestire le emozioni.
La nostra conversazione finisce lì, in aeroporto, non parliamo più, né mentre siamo in attesa in fila di salire sul taxi, né nell’auto guidata da un simpaticissimo uomo sulla sessantina che si mette a parlare della sua passione per la cucina, dolci in particolare.
Papà sembra non ascoltarlo proprio e guarda fuori dal finestrino.
Anch’io guardo fuori dal finestrino e alitando, com’è mio solito fare, sul vetro, scrivo sull’alone che si è formato:
“Pila non ha più le sue scarpe, né la sua sciarpa”.
Ma cancello subito quello che ho scritto perché mi accorgo che mio padre sta tentando di leggere quello parole.
“Pila? Ma chi è Pila?” mi chiede papà mentre gira nervosamente la fede con l’altra mano, segno, questo, di stanchezza e di nervosismo.
“Niente papà, Pila è un nome così…tanto per scrivere qualcosa sul vetro…” rispondo io nella speranza che il discorso finisca qui.
“Comunque Ludovica, te lo dico una volta per tutte, smettila di scrivere frasi sui vetri. Ormai sei arrivato a farlo dappertutto, persino sulle vetrine dei prestigiosi negozi al centro di Chicago. Ancora ricordo l’occhiataccia che ti ha lanciato la commessa lo scorso sabato, non ho provato mai una vergogna così grande. Ma che poi si può sapere cosa avevi scritto?” chiede papà.
Non rispondo, lo abbraccio soltanto e anche lui mi abbraccia.