E partimmo una mattina con la neve che piegava i rami del secolare abete al lato del casolare.
La nonna non ci accompagnò sino alla nostra macchina ma rimase in cucina e, come quel pomeriggio di febbraio quando fui costretta a rimanere a casa per quella fastidiosissima varicella, anche lei alitando sul vetro della finestra scrisse:
“Non è giusto”.
No, non era giusto separare una nonna e una nipote come noi due, non era giusto allontanare Mila e Pila e mettere tra loro un oceano.
Partimmo ugualmente.
E mentre ero in aereo, mi vennero alla memoria le foto di quegli emigrati costretti a lasciare l’Italia per andare alla ricerca di fortuna in America.
Viaggiavano su bastimenti carichi, erano stanchi del viaggio ma gridavano la loro gioia quando vedevano, da lontano, la Statua della Libertà.
“America, America!”
Sembrava di sentirli, erano tristi, disperati ma poi, diventavano all’improvviso felici per la nuova vita che li aspettava.
Noi tre, mio padre, mia madre ed io, non eravamo partiti per cercare fortuna ma perché qualcuno aveva deciso di offrire un prestigioso incarico ai miei genitori, tra i migliori al mondo nel campo della ricerca farmaceutica.
Ma ero triste anch’io e, contrariamente agli emigrati d’inizio ‘900, non esultai quando sbarcammo negli Stati Uniti.
Dell’arrivo a Chicago mi ricordo il freddo e della prima telefonata alla nonna mi ricordo che le chiesi:
“Signora Mila, come sta?”.
E capii dalla risposta della nonna che Mila e Pila sarebbero rimaste per sempre lì, in quel casolare, in attesa di un mio ritorno.
La nonna disse:
“Signora Pila non vedo l’ora di vederla, le devo raccontare tante cose”.
E così, da quel giorno del mio arrivo a Chicago, Mila e Pila, attendevano di potersi incontrare di nuovo, per raccontarsi, attraverso racconti fantastici, il significato profondo della vita e della vera felicità.