Delusa dalla sua risposta, mi rimisi alla finestra ad assistere alla gioia delle altre bambine, libere di correre e di gettarsi addosso coloratissimi coriandoli.
Ma nonna Angela non si perse d’animo e tornò, dopo qualche minuto, con una buffa borsa nera lucida, delle scarpe con il tacco, indossate però con dei pesanti calzini di lana grigia e uno scialle che emanava il tipico odore della naftalina.
“Signora, buonasera, io sono Mila, si ricorda di me?”
La guardai senza sapere bene cosa rispondere e rimasi in silenzio, in attesa che continuasse quella che mi sembrava essere solo una sciocca recita improvvisata lì, tanto per farmi scordare che era giovedì grasso e che non sarei potuta uscire in maschera neanche l’ultimo giorno di carnevale, martedì grasso, perché il medico era stato chiaro:
“A casa per altri dieci giorni”.
La nonna continuava a stare lì e m’incalzava:
“Signora Pila ma come fa a non riconoscermi?”.
“Si sta sbagliando persona”, risposi con voce spenta.
“Signora Pila come fa a non ricordarsi di quel giorno in cui ci conoscemmo al mercato settimanale e ci mettemmo a battibeccare perché volevano entrambe quelle splendide castagne che ogni venerdì d’ottobre Giuseppe portava al suo banco?”
Nonna Angela per nessun motivo avrebbe mollato, sarebbe stata capace di rimanere lì, con quella buffa borsa e con quelle scarpe dal tacco alto che quasi sembrava si spezzasse, per l’intero pomeriggio, in attesa che io le rispondessi a tono.
Mila e Pila erano nate un pomeriggio di febbraio di tanti anni fa, quando io, costretta a letto da una varicella che mi stava dando il tormento, mi misi a piangere perché quel bellissimo vestito da Fata Primavera che la nonna mi aveva cucito per la festa in paese del giovedì grasso, sarebbe rimasto chiuso nell’armadio, forse per sempre, perché io stavo crescendo e quell’abito giallo e bianco, forse, non avrei potuto indossarlo l’anno successivo.
Dalla finestra della cucina potevo vedere, in lontananza, tutte le mie compagne di scuola avviarsi festose verso la piazza del nostro paese mentre io sarei rimasta a casa, tormentata da quelle vescicole che si stavano aprendo e che m’impedivano persino di potermi coricare nel mio letto.
Ero lì, con le mani attaccate al vetro e con il mio alito che stava formando un alone, dove scrissi:
“Non è giusto”.
Poi passai all’altro vetro e anche lì, dopo aver respirato contro la finestra, scrissi:
“Non è giusto”.
La nonna mi guardò e mi rispose alitando contro l’ultimo spicchio di vetro lasciato vuoto dalla mia disperata considerazione che, appunto, non era giusto rimanere a casa il giovedì grasso mentre un bellissimo vestito di carnevale da Fata Primavera intristiva nel mio armadio.
Nonna Angela scrisse sul vetro:
“Potrebbe essere più divertente di quanto tu possa sperare”.
Allorché io incuriosita le chiesi:
“Cosa, nonna, cosa potrebbe essere più divertente di quanto io possa sperare?”
E lei, guardandomi con il suo sguardo dolce, più dolce delle castagnole che stava impastando solo per me, mi rispose:
“Potremmo inventarci due personaggi, ai quali assegnare un nome e poi costruirci attorno una storia”.
No, non stupitevi per questo mio nome così bizzarro: sulla carta d’identità, sul passaporto e su tutti i documenti ufficiali che mi riguardano, c’è scritto che io sono Ludovica.
Vi chiederete allora perché inizio a raccontarvi questa storia dicendovi che mi chiamo Pila.
Perché io sono Pila e lo sarò per sempre, così come mia nonna, che all’anagrafe è registrata con il nome di Angela, è stata, è, e sarà per sempre Mila.
Mila e Pila: una nonna e una nipote legati da un amore viscerale, grandissimo, indissolubile, che riesce a superare, ogni giorno, le immense distese d’acqua salata che ci separano.
Se avete del tempo, ve ne prego, leggete la mia storia e se proprio vi sembra di non potervi fermare neanche per un istante, per favore, trovate un paio di ore da dedicare a Mila, a Pila e ai nostri racconti.
Dunque, nasco in un paese di provincia, uno di quei paesi che da lontano, mentre si percorre la strada per arrivarci, sembra mollemente adagiato sui fianchi di una collina, quasi che quella vallata di pini secolari e sempreverdi, lo culli tra le sue braccia.
Mia madre e mio padre sono due ricercatori farmaceutici.
Nei ricordi di bambina me li ricordo sempre trafelati, con una valigia che non veniva più neanche messa a posto nell’armadio, ma veniva lasciata sempre lì, sulla poltrona della loro camera, in attesa di essere riempita del necessario per la trasferta internazionale.
Sono molto bravi nel loro lavoro, i migliori, dicono in azienda, dove hanno trascorso gran parte della propria vita.
E così, io rimanevo a casa con nonna Angela, la madre di mio padre, in quel casolare in pietra che tanto ho amato da bambina.
Nei lunghi pomeriggi d’inverno, quando il vento faceva sentire la sua voce attraverso la canna fumaria del camino e quando gli alberi gli rispondevano facendo ondeggiare vorticosamente le loro folte chiome, io, Ludovica, diventavo, quasi per magia Pila e nonna Angela si trasformava in Mila.
Dopo che io avevo svolto i miei compiti e dopo che la nonna aveva terminato le pulizie domestiche, nell’istante stesso in cui la pizza, impastata da nonna Angela, crepitava nel forno della grande cucina, ecco che ci guardavamo negli occhi noi due e dicevano all’unisono:
Un ringraziamento a tutti i lettori di EmozionAmici che stanno mostrando di apprezzare la pubblicazione a puntate di romanzi e libri. Da domani troverete “I Racconti di Mila e Pila”, un libro al quale sono molto legata perché le protagoniste immaginarie sono state inventate da me e da mia madre un pomeriggio della mia infanzia. L’importanza del leggere e del condividere insieme ai propri figli racconti e fiabe è stata sottolineata dalla Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologanella prefazione del libro che di seguito è riportata.
“L’abitudine di raccontare storie ai propri figli o nipoti si è andata perdendo con gli anni, sia per la vita sempre più frenetica che conducono gli adulti, sia per lo sviluppo della tecnologia che regala ai bambini giochi elettronici e computerizzati che li lasciano soli davanti ad uno schermo.
Eppure condividere la lettura di un racconto o di una fiaba, produce effetti positivi su entrambi, adulti e bambini.
Prima di tutto leggere insieme un racconto aiuta lo sviluppo di un linguaggio comune e facilita la costruzione di un rapporto affettivo profondo; inoltre si creano momenti di comunione tra genitori e figli: il bambino si “perde” nella storia aumentando la sua capacità d’immaginazione e la sua creatività, e l’adulto riesce a non pensare, per il periodo della lettura, ai suoi problemi e preoccupazioni.
Per il bambino ascoltare racconti è utile per suscitare in lui il piacere della lettura e diversi studi hanno dimostrato che leggere ad alta voce ai bambini stimola l’apprendimento e il ragionamento e, nei bambini che si trovano in età prescolare, ha effetti positivi sullo sviluppo del linguaggio e sul futuro apprendimento della lettura.
L’ascolto di racconti ha, inoltre, notevoli risvolti psicologici positivi per i bambini, i quali si identificano con i protagonisti della storia proiettando su di essi i propri sentimenti, le proprie speranze, le proprie paure; attraverso le peripezie che vivono i vari personaggi (che essi siano persone, animali o oggetti parlanti) i bambini riescono a capire meglio le proprie emozioni e a sperimentarne di nuove. Tutto ciò contribuisce a costruire il proprio mondo interiore e a risolvere eventuali conflitti interiori.
Le fiabe comunicano dei messaggi educativi; trasmettono sentimenti, ideali, valori. Esse, inoltre, tramite il modo in cui i protagonisti vivono e risolvono determinate situazioni, hanno la capacità di suggerire soluzioni ai problemi che si possono incontrare più o meno spesso nel corso della vita, ma non prescrivono come comportarsi davanti ad un problema. Esse lasciano libero chi legge e chi ascolta di “fare propria” la storia permettendo diverse chiavi di lettura, lasciando libero il lettore di adattarla alla propria situazione personale.
Nei racconti, inoltre, i personaggi possono vivere situazioni problematiche o comunque non semplici da gestire, ma che comunque riescono ad essere superate; ciò fa capire al bambino che anche nella vita reale potrà trovarsi di fronte a situazioni non facili ma che comunque potranno essere affrontate in maniera positiva grazie alla propria forza di volontà, al proprio coraggio e all’aiuto di particolari persone.
Le fiabe hanno quindi un valore educativo e terapeutico, non solo per i piccoli ma anche per gli adulti che attraverso la lettura di un racconto possono riuscire a capire meglio alcuni tratti della propria personalità e a superare momenti particolari della propria vita”
…eh già, siamo giunti al termine del nostro “Alfabeto dei Ricordi” …oggi celebriamo la Z: Z come ZABAIONE, quella crema che nasceva dopo aver sbattuto nella tazza uova fresche e zucchero…colazione ricca di gusto e di energia che tanto tempo fa potevano permettersi un po’ tutti, perché poi non era tanto difficile trovare, specie nei piccoli paesi, chi avesse nel proprio cortile qualche gallina. E così si girava e girava il cucchiaino nella tazza di porcellana sino a quando le uova e lo zucchero erano perfettamente amalgamate tra di loro…e mentre si gustava questa crema, alla quale gli adulti talvolta aggiungevano anche un goccio di marsala, non si poteva fare a meno di chiudere gli occhi per assaporare il dolce di questo composto che avrebbe salutato soprattutto le colazioni domenicali…spero tanto, carissimi amici di Facebook, che il sapore di questi ricordi che abbiamo condiviso grazie a questo speciale Alfabeto, sia stato per voi dolce, morbido, cremoso e gustoso come lo ZABAIONE di tanti anni fa…
Eccola: è arrivata…si è fatta attendere, essendo la sua lettera la penultima dell’alfabeto, ma è arrivata…è arrivata con le sue voci, i suoi colori, ma anche con la fatica che non la si sentiva mentre ci si trovava tutti lì, nella vigna…è arrivata, è lei la protagonista del nostro “Alfabeto dei Ricordi”: la VENDEMMIA, il cui nome evoca immagini che il cuore fa tornare da un lontano passato e che la mente fa rivivere con il ricordo di quei gesti, di quei suoni inconfondibili, di quei legami che tra i tralci di vite diventavano ancora più forti…perché la famiglia durante la VENDEMMIA diventava comunità e la comunità diventava il paese intero. E al mattino ci si incontrava lungo la strada che portava alle vigne e si era felici per ciò che si andava a raccogliere: quei preziosi grappoli che da soli simboleggiavano l’antico “credo” contadino: nulla era lasciato al caso, nulla arrivava senza fatica, impegno e sacrificio, nulla giungeva a maturazione senza passione ed amore per il proprio lavoro…
Intervistare Maurizio Marinella, erede e titolare dell’omonima ditta napoletana nota in tutto il mondo per le sue cravatte, è stato per me un onore e un momento di grande arricchimento, perché non è poi così scontato trovare un GRANDE uomo dietro ad un GRANDE nome che ha fatto la storia di Napoli e dell’Italia, per arrivare in tutto il mondo, MOMA di New York compreso.
Maurizio racconta la storia della sua famiglia: “Nonno Eugenio nel 1914 decise di andare in Inghilterra, patria dell’eleganza maschile, come la Francia lo era per quella femminile. E dal Regno Unito cominciò ad importare grandi marche ma, accanto a queste, affiancò anche una bottega artigianale dalla quale nacque la prima cravatta Marinella, simbolo della maestria artigiana. In questa nostra avventura fummo fortunati perché avevamo grandi tagliatrici e grandi stiratrici. Non dimentichiamo che a quel tempo le camicie, con i loro colli e polsini inamidati, dovevano essere stirate quasi da bagnate per evitare l’irrigidimento del tessuto”.
La famiglia Marinella, che ha attraversato più di un secolo di storia, usa ancora solo sete inglesi: “Sete a 36 once, quindi particolarmente consistenti, sete stampate in Inghilterra a Mansfield, vicino Manchester, e della cui stamperia la mia famiglia ha poi acquistato una quota. La stampa viene realizzata a mano, non in digitale, in modo da offrire colori caldi e riposanti”, dichiara Maurizio Marinella al quale chiedo come nasca la loro famosissima cravatta Marinella: “E’ realizzata a mano su misura, e questo ci ha permesso di crearne di diverse: da quella per Magic Johnson per il quale abbiamo usato la quantità di seta che occorre per tre cravatte, a quella per Kohl e per Eltsin per il quale ne abbiamo realizzata una di 35 cm, vista la sua altezza”.
Campioni dello sport, uomini politici, “Sarkozy, Chirac, Gorbaciov, Carlo d’Inghilterra, per il quale sua moglie Camilla, due anni fa, è venuta personalmente a sceglie cravatte per lui”, ma anche “Tutti i Presidenti degli Stati Uniti d’America, da Kennedy in poi e tutti i Capi di Stato italiani hanno indossato una cravatta Marinella” e il successo e il riconoscimento mondiale avrebbe inorgoglito nonno Eugenio, il quale affermava: “La vera moda è l’accessorio, non l’abito”.
Da un secolo l’ambita cravatta Marinella segue le stessi fasi: “Il taglio e la preparazione, che può essere semplice, sfoderata a cinque o a sette pieghe, così da venire incontro alle diverse esigenze del cliente”.
E il cliente è importante per i Marinella, come svela Maurizio: “La nostra maggiore soddisfazione è di esaudire le sue richieste, a noi piace accoglierlo, coccolarlo, perché dopo aver indossato una nostra cravatta si deve star bene, la si deve riconoscere: ed è per questo che ogni cravatta nasce da esigenze ben precise”.
Questa “filosofia” è alla base di una scelta, quasi controcorrente ai tempi di oggi: di non vendere online i propri prodotti: “Siamo felicemente poco tecnologici– dichiara Maurizio, il quale aggiunge– non ci entusiasma che si possa premere un pulsantino, fare un click e poi attendere che la cravatta arrivi a casa… noi ci dobbiamo emozionare…”.
E Maurizio si emoziona, si emoziona quando, puntuale, senza nemmeno un minuto di ritardo, va ad aprire il suo negozio sulla Riviera di Chiaia a Napoli :“Alle 6.30 del mattino, tutti i giorni, Qualcuno mi dice “ma che to fà fa” (ma chi te lo fa fare n.d.r.) …invece a “farmelo fare” è quella correttezza per il cliente che da 105 anni ci trova sempre pronto ad accoglierlo, sin dalle prime luci del mattino, offrendogli, magari, anche un buon caffè e una sfogliatella napoletana”.
L’aspetto che più mi colpisce, parlando con Maurizio Marinella, è questo suo legame viscerale, unico, che ha proprio con la sua città, non è un caso come, nonostante abbia punti vendita a anche a Roma, a Milano e persino a Tokio, quella bottega artigianale di appena 20 metri quadri: “Che così è rimasta e non può essere in alcun modo ingrandita perché siamo sotto la tutela dei Beni Culturali, rappresenta mio nonno, mio padre, due guerre mondiali, i sacrifici, la fame, il dolore di quando Napoli ha trasmesso immagini di quella spazzatura che hanno azzerato turismo e commercio”.
Napoli è dove tutto ha avuto inizio, Napoli sono gli affetti, è il cuore che batte dalla gioia, ogni mattino, “Napoli è quell’esplosione di emozioni che non provo in altri posti, nonostante siano stati realizzati a immagine e somiglianza della bottega sulla Riviera di Chiaia”
M’incanto nel sentire parlare Maurizio, il quale mi conferma quello che si avverte in ogni sua singola parola: “In un secolo non è cambiato nulla, l’emozione e l’entusiasmo sono sempre gli stessi, a cambiare, invece, sono state le persone: ora sanno meno quello che vogliono, perché si ci affida, purtroppo e sempre più spesso, ad altri, anche se poi non hanno le competenze giuste per esprimere un parere. E poi, in determinate occasioni, l’eleganza è d’obbligo: non si può andare al Teatro “San Carlo” con il jeans strappato…”
E così Maurizio presenta al suo cliente la cravatta, anche se: “Non deve esserci la vendita a tutti i costi…dico sempre che non sono un commerciante nel senso stretto della parola, perché, se non sono convinto io, se a me non piace, se non mi emoziono, non riesco a consigliare, e questo perché vivo di passione”.
La stessa passione che fa del negozio Marinella uno scrigno prezioso di alto artigianato e sartoria che produce ogni giorno, in media 150 cravatte, le quali riportano sulla cimosa “EXPRESSED PRINTED FOR MARINELLA”.
E nonostante Marinella non sia solo cravatte, “Ma anche sciarpe, foulard, maglioni, gemelli, pullover, cinture, pelletteria”, come dichiara Maurizio, è per questo accessorio che sono arrivati, due anni fa, fino al MOMA di New York: “Un’emozione incredibile– ci racconta Maurizio- Siamo stati scelti, unica azienda italiana, a rappresentare, con la nostra cravatta, i 100 oggetti di moda maggiormente rappresentativi degli ultimi 100 anni. Un grandissimo orgoglio”.
Un successo mondiale, dunque, “Indubbiamente una grande emozione, ma mai come quella di far parlare di una bella Napoli. Ricordo che, quando mio nonno morì, mio padre mi disse che avremmo dovuto far capire come le cose si sarebbero potute fare bene partendo da Napoli, ma soprattutto restando a Napoli”.
E così è stato, perché i Marinella hanno portato il nome della loro città in tutto il mondo, anche se il loro mondo è sempre Napoli, in particolare Piazza Vittoria: “Quando mi chiedono se sono nato a Napoli, io rispondo che sono nato a Piazza Vittoria. Da qui è partito tutto e da qui mi piacerebbe che partisse un messaggio di positività. Sentiamo sempre più spesso, purtroppo, parlare alla tv di crisi, di difficoltà, di un Sud massacrato e senza lavoro, di ragazzi intristiti e demoralizzati…invece io voglio trasmettere positività, ci tengo a dire che l’ impegno non è una croce, ma un investimento sulla persona. Una voce di speranza: anche a Napoli si può fare”.
Terminata l’ intervista, ho gli occhi umidi dall’emozione perché Maurizio Marinella non è solo un imprenditore di successo, ma è un uomo di cuore, di slanci vitali, è il simbolo di una bella Italia, di una bella Napoli, tutta cuore, passione, entusiasmo, emozioni, amore per le proprie radici e per le tradizioni di una famiglia volitiva, che ha fatto dell’impegno quotidiano il suo biglietto da visita esportato in tutto il mondo.
Ecco arrivare, su antichi carretti, la protagonista del nostro “Alfabeto dei Ricordi”, la U: U come UVA. Per chi ha vissuto il periodo della vendemmia, l’UVA per eccellenza è quella da vino, quella che i contadini raccoglievano e sistemavano nelle bigonce, quella che era lavorata nelle cantine, quella che sprigionava tutto intorno quell’odore acre ma tanto gradito a chi guardava a quell’UVA come a un vero miracolo della natura, che segnava il passaggio dall’estate all’autunno, un autunno che aveva i colori degli acini e il sapore del mosto e poi del vino…e oggi, quando si avvicina il mese in cui l’UVA matura sui tralci delle viti, il nostro pensiero vola a quei giorni, a quei giorni in cui i grappoli non chiedevano altro che di essere raccolti per diventare i protagonisti della vendemmia di cui parleremo domani, essendo già arrivati alla lettera V…
E così, nel nostro “Alfabeto dei Ricordi” siamo già arrivati alla T: T come TOVAGLIA. Perché se le cose non cambiano nella loro esteriorità, mutano nella loro essenza ed è proprio questa a dare valore, forma e significato a tutto…perché in un tempo lontano la TOVAGLIA era capace, con il suo leggiadro librare prima di posarsi sulla tavola da apparecchiare, di cancellare tutto: nessun problema, nessun interrogativo, nessun dubbio, nessun’ ombra sarebbe stato invitata a pranzo perché tutto si lasciava fuori la cucina, una cucina dove ci si ritrovava all’ora di pranzo e dove l’unico assente giustificato poteva essere solo il papà ma i nonni, la mamma, i fratelli le sorelle, tutti loro sarebbero stati seduti accanto a noi. E quando poi si sparecchiava la tavola e si ripiegava la tovaglia, le briciole di pane che erano sfuggite, erano granelli di una felicità vera, intensa, una felicità fatta davvero di piccole cose…
Oggi il nostro “Alfabeto dei Ricordi” celebra la S: S come SIGLA…anche se forse sarebbe il caso di parlare delle SIGLE dei vari programmi televisivi e dei cartoni animati che hanno accompagnato la nostra infanzia e che, talvolta, ci troviamo a canticchiare con il sorriso sulle labbra. La SIGLA sembrava dirci: “E’ ora di accomodarti sul divano…” ma delle volte proprio non riuscivamo a stare fermi e allora ci scatenavamo sulle note di “Furia cavallo del west”, “Happy days”, “Sandokan”, “Candy Candy”, “La pantera rosa”…ma la SIGLA per eccellenza sarebbe rimasta quella di “Carosello”, terminata la quale i bimbi erano soliti andare a letto. Ci piacevano davvero tanto quelle SIGLE e non di rado capitava di andare alla ricerca di un 45 giri in vinile con quella melodia che adoravamo…ci piacevamo le sigle ma ancora di più ci piaceva quel clima di gioia che veniva ad abbracciarci il pomeriggio…