E’ stata definita la “malattia del lungo addio” e il suo nome, quando viene sentito per la prima volta dai familiari di un malato, disorienta, impaurisce, crea disperazione. Sembra, in un solo istante, che quei pezzi di vita che si dissolveranno, piano piano nel tempo nel cervello del paziente, travolgano, invece, da subito, i congiunti della persona alla quale è stato diagnosticato l’Alzheimer.
Di questa malattia neurodegenerativa ne parliamo con uno dei massimi esperti internazionali, il Professor Giovanni Battista Frisoni, il quale, nonostante i suoi numerosi impegni, mi ha dedicato del tempo per realizzare l’intervista che andrete a leggere.
Giovanni Battista Frisoni incarna alla perfezione la determinazione, la volontà, l’impegno, la passione per il proprio lavoro. Avvicinatosi, dopo la maturità scientifica, alla medicina, dopo averne conseguito la laurea con 110 e lode all’Università di Brescia, si specializza in Neurologia e, proprio da specializzando, si avvicina alla malattia dell’Alzheimer: “Stavo cercando un campo su cui studiare, non volevo fare il medico solo praticante ma dedicarmi alla ricerca scientifica, e così è stato. Non mi sono mai pentito di questa scelta, perché è un campo pieno di sfide e a me le sfide anche se mi intimoriscono, mi piacciono e mi attirano”, svela il Professor Frisoni, Direttore del Centro della Memoria all’Ospedale Universitario di Ginevra e già direttore scientifico dell’IRCCS Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia.
Proprio durante gli anni della specializzazione in Neurologia: ” A Brescia, stava per avere inizio una grande avventura: l’apertura del primo reparto per i malati di Alzheimer presso l’ospedale Fatebenefratelli. Era il 1991 e il Professor Marco Trabucchi mi propone di essere uno dei quattro medici dello staff. Ero il più giovane e accettai con grande entusiasmo. E qui ho cominciato a studiare la neuroimmagine, ovvero una dettagliata rappresentazione del cervello ottenuta con tecniche di risonanza magnetica, che, oggi, sono molto più accurate e sofisticate rispetto al passato e ci permettono di avere delle valutazioni quantitative del danno. Fummo finanziati per 6 anni dalla Regione Lombardia, poi, dopo 10 anni divenimmo Istituto di Cura a carattere scientifico”.
Purtroppo, come evidenzia il Professor Frisoni: “Intorno alla malattia dell’ Alzheimer c’è una condivisione di un sentimento sociale che porta, talvolta, a sottovalutare anche i primi sintomi, perché molti pensano che disturbi della memoria siano sempre normali con il passare degli anni. Purtroppo le famiglie si rendono conto della gravità della malattia solo quando sono direttamente colpite, specie nella fase avanzata, quando hanno problemi di gestione del proprio congiunto”.
La malattia di Alzheimer prende il nome dal medico che per primo, nel 1906, studiò il cervello di un suo paziente: “Dalle immagini del cervello al microscopio, vide dei grumi strani che chiamò placche senili e aggregati neurofibrillari. Fu questa la base di partenza per la studio e la ricerca che ha condotto la medicina a scoprire come le placche senili scoperte dal dottor Alzheimer siano composte di una proteina detta amiloide e che riusciamo a visualizzare con la PET(tomografia ad emissioni di positroni) e gli aggregati neurofibrillari, invece sono formati da proteina Tau”.
Come per tutte le altre patologie, anche per l’Alzheimer esistono dei sintomi: “Le dimenticanze accadono a molti, ma quello che dobbiamo chiarire è che ci sono delle amnesie non preoccupanti, le cosiddette anomie, legate a dimenticanze di nomi e luoghi e che sono sempre più frequenti con il passare degli anni, a partire già dai 50-60 anni, e quelle preoccupanti, le cosiddette amnesie episodiche, ovvero legate alla dimenticanza di interi episodi di vita, quali una vacanza, un film, dei quali ci si scorda di tutto ciò che ha circondato l’evento. In quest’ultimo caso siamo di fronte ad un vero e proprio “buco nero” della memoria passata”.
Un solo episodio non è necessariamente imputabile all’Alzheimer, perché, come ci conferma il Professor Frisoni: “Può succedere a tutti di dimenticare episodi singoli, quello che deve far riflettere è la frequenza con la quale tali dimenticanze si presentano. Se ci si accorge che sono frequenti e che si stanno verificando da 6 mesi o più, allora è il momento di chiedere un consulto”.
Il primo passo da seguire è quello di andare dal proprio medico di famiglia:” Il quale, nel caso in cui si accorge che potrebbero esserci dei sintomi legati all’Alzheimer , invierà il paziente da uno specialista, che in Italia è il geriatra o il neurologo,( in Inghilterra e in Germania è più spesso lo psichiatra). Lo specialista raccoglie con il paziente e i suoi familiari l’anamnesi, la storia passo passo dei disturbi. Vengono poi effettuati degli esami neuropsicologici composti da semplici test ma rilevatori dello stato del salute del cervello, che possono mettere in luce le difficoltà di memoria. In circa 45-90 minuti al massimo, tutto compreso, ci si rende conto della situazione e lo specialista, di fronte ai risultati così ottenuti, può o rassicurare il paziente, perché il cervello si sa, invecchia anche esso e quindi è fisiologico avere con il passare dei anni elle dimenticanze, oppure continua per avere una diagnosi di certezza prescrivendo altre indagini, una combinazione di 2-3 tra le seguenti: PET, risonanza magnetica, puntura lombare, SPECT. Tali indagini permettono una diagnosi precoce con un elevato livello di certezza”.
Accertata la malattia si inizia il trattamento farmacologico “Disponiamo di soli 4 farmaci, di cui tre sono della stessa famiglia, quindi ne abbiano, in pratica, solo due. L’effetto di tali farmaci, inoltre, è quello di migliorare o stabilizzare i disturbi per al massimo 6-18 mesi. Purtroppo per l’Alzheimer non abbiano farmaci in grado di bloccarne la progressione, ma al massimo di rallentarne il decorso per un po’ di tempo. Faccio un esempio molto semplice: è come se curassimo una polmonite con un bronchiolitico e un’aspirina… passerebbero la tosse e la febbre ma la polmonite continuerebbe il suo decorso, fino alla morte, se non si intervenisse con gli antibiotici. Ecco, purtroppo “l’antibiotico” per l’Alzheimer non l’abbiamo ancora”
E qui si apre il discorso sui finanziamenti alla ricerca sull’Alzheimer: “Purtroppo i finanziamenti sono, attualmente, 10-12 volte minori rispetto a quelli per il campo dell’oncologia, nonostante due fattori che dovrebbero far riflettere le istituzioni: i costi sociali di questa malattia sono doppi rispetto a quelli sostenuti per il cancro, e il numero dei pazienti colpiti è di gran lunga superiore a quello dei pazienti che ogni anno decedono di patologie tumorali maligne”.
Anche per l’Alzheimer è possibile parlare di prevenzione, intesa questa come stile di vita: “Il controllo del peso, dell’ipertensione e della malattie croniche come le dislipidemie possono sicuramente aiutare, così come una adeguata attività fisica.”.
Purtroppo, invece, di fronte all’ereditarietà, la prevenzione ha un ruolo più limitato: “ Avere avuto in famiglia un caso di Alzheimer, soprattutto se fra i 60 e 70 anni, incide molto sul possibile insorgere della patologia. In tal caso il rischio è spesso legato all’apoliproteina E. Il paziente può dunque entrare in un progetto di ricerca, come quelli in corso sia a Brescia che a Ginevra. Sottolineo come qui siamo nel campo della prevenzione e che quando si parla di diagnosi precoce vuol dire che siamo già nella fase dove si hanno deficit oggettivi”.
Spesso, di fronte ad una diagnosi di Alzheimer, che fa perdere progressivamente: “Le proprie coordinate, la proposta biografia, la famiglia è devastata, ha una reazione di disperazione perché vede immediatamente ciò che sarà, invece, la fase terminale della malattia: allettamento del paziente, incontinenza urinaria e fecale, necessità di nutrirsi con il sondino naso-gastrico ed altro. Il mio compito, presso il Centro di Ginevra, è anche e soprattutto quello di incontrare le famiglie dei malati, di parlare con loro di spiegare come questa sia una malattia molto lunga, anche in termini di 10-15 anni e che l’iniziale diagnosi nulla toglie alla qualità dignitosa di una vita. Molte famiglie riescono così a instaurare un dialogo costruttivo con il proprio familiare, mostrando una grande disponibilità d’animo che li porta a comprendere come non tutto in questa malattia è dolore e sofferenza”.
Non posso concludere la mia intervista senza aver ringraziato il Processor Frisoni, eccelso esempio di una medicina che unisce Ricerca e vicinanza al paziente e alle proprie famiglie.
Alessandra Fiorilli