Ma ora, silenzio: il vecchio orologio a cucù ci ha detto che sono arrivate le cinque, ecco che la nonna scompare e quando torna in cucina, ha con sé quell’inconfondibile retina rossa nella quale è solita conservare le castagne che gli alberi dietro il casolare regalano ogni anno.
Non sono molto grandi, ma hanno un sapore inconfondibile, non ne ho mai mangiate di così buone.
Un’altra tradizione della nostra famiglia è di cuocere le castagne nel camino per mangiarle calde, mentre si gioca a carte, il pomeriggio del 26 dicembre.
Quest’anno niente carte ma tante castagne!
Sino a quando sono vissuta qui, con la nonna, era una festa raccoglierle e privarle del riccio, alcuni dei quali li conservavo per portarli a scuola.
Nell’istante stesso in cui la nonna mette le castagne sul fuoco, una grande malinconia mi assale e penso ai nostri autunni, all’autunno in collina, che si fa annunciare dalle foglie rosse dell’albero del cachi trascinate dal vento e dal castagneto che regala, felice, i suoi frutti.
E penso all’incomparabile bellezza della natura che lì a Chicago non c’è.
Allora allungo il braccio destro sul tavolo e vi poggio sopra la testa mentre osservo la nonna.
“Credo che mi mancherà sempre questo casolare. Non riuscirò ad accettare il fatto di essere dovuta andar via da qua, nonna” le dico mentre lei fa finta di non sentire.
“Nonna, perché non mi dici niente?” insisto io.
“Che cosa vuoi che ti risponda, Ludovica? Che è terribilmente triste stare lontana da te, che quando entro nella tua stanza sento un nodo in gola, che quando è l’orario del tuo ritorno da scuola, non posso fare a meno di mettermi davanti alla finestra e di aspettare qualcuno che non verrà più?”, risponde la nonna, con la voce rotta dal pianto.
Certo che sono proprio una bella guastafeste, sino a qualche minuto prima era così felice e adesso l’ho rattristata con le mie domande.
Ma per nostra fortuna, in aiuto arriva la signora Pila, nella quale mi trasformo.