Alessandra Fiorilli è il Direttore Responsabile, Proprietario ed Editore della rivista online "EmozionAmici" pubblicata anche sull'omonima pagina Facebook. Laureata in Scienze Politiche, Giornalista iscritta all'Albo dell'Ordine Nazionale, è anche Scrittrice (12 le opere pubblicate tra romanzi, raccolte di racconti e reportage), ed Autrice Teatrale iscritta alla S.I.A.E. (ha scritto e rappresentato 14 sue opere). Dal 2008 al 2017 ha rivestito la carica di Direttore Responsabile del periodico "BCC Nettuno Informa". Dal 2008 è titolare, insieme alla sorella, Psicologa, del Centro di Tutoring Scolastico e Professionale "Atena". Nello stesso anno fonda anche anche l'Associazione Culturale "Araba Fenice", rivestendone la carica di Presidente. Nel settembre 2018 ha superato l'esame del Corso in Teatroterapia organizzato dall'Artedo Srl, ente accreditato dal MIUR ed e specializzato nel campo delle Artiterapie. Nel Gennaio 2019 ha superato brillantemente il Corso di Formazione Tutor DSA organizzato dall'Istituto Galton, Ente accreditato dal MIUR e che opera nel campo dell'editoria, della formazione e della ricerca scientifica su tematiche inerenti la psicologia e le neuroscienze. Nel Febbraio 2019 ha superato il Corso di Formazione ADHD- Valutazione-Diagnosi-Trattamento organizzato dall'Istituto Galton. Sempre nel febbraio 2019 ha superato due Corsi di Formazione "Didattica Metacognitiva e strategie di studio" e "Le Intelligenze Multiple" presso il Centro Studi Erickson
Penso spesso a quel Natale, nonno, l’ultimo trascorso insieme, mangiasti poco quella volta e decidesti persino di anticipare il tradizionale cenone al quale tenevi tanto, all’ora di pranzo. Capii che qualcosa non andava appena la nonna ci comunicò quest’inusuale notizia, io corsi allora giù per le scale, con il cuore in gola, e mi precipitai verso di te: avevi poggiato i gomiti sul grande tavolo della cucina, intrisa di frittura e di cavolfiori messi a lessare, il viso lo tenevi tra il palmo delle mani, lo sguardo fissava il grande pino che dominava da fuori tutto l’ambiente circostante, gli occhi erano umidi e quella giacca da camera bordeaux, che solevi portare in inverno, quella mattina mi sembrò l’abito di un malato.
Spalancai la porta, non mi dicesti, come facevi sempre quando la nonna stava preparando il pranzo: “Chiudila, chiudila in fretta, altrimenti va l’odore del cibo cucinato per tutta casa”.
Ti girasti soltanto verso di me, mi sorridesti come solo tu sapevi fare, con quella dolcezza di un uomo forte e con la profondità di un uomo buono, ed esclamasti: “Bella bambina! Che cosa hai?”.
Io non ce la feci proprio a dire, come avrei voluto fare: “Non morire, ti prego nonno, non morire, ci sono tante cose ancora da fare, tante cose da vedere, non mi lasciare, non farmi mancare quei tuoi occhi con le pagliuzze d’oro, quelle mani grandi che tante volte ho misurato con le mie, quella risata trattenuta appena, mentre porti la mano davanti alla bocca, fammi sentire per cent’anni ancora il tuo passo andare su e giù per la casa, lasciami ammirare la tua inconfondibile camminata e la scrittura da letterato, non mi lasciare, non mi lasciare “.
Non dissi niente di tutto questo perché, se avessi veramente detto quelle parole, avresti sofferto per me, che già mi sentivo dilaniare dal dolore. Spalancai la porta, dunque, e ti dissi: “Bella idea, nonno, anticipare il cenone all’ora di pranzo, almeno abbiamo il tempo di digerire, sai… la sera è meglio star leggeri!”. Ecco cosa fa fare l’amore, fa buttare lì un po’ di sciocchezze ed ovvietà scontate pur di non ferire la persona alla quale si tiene così tanto, ma la cosa buffa è che anche tu mi rispondesti a tono: “L’avessimo fatto anni addietro a consumare il cenone a pranzo!”.
Ed io conclusi questo dialogo con una battuta stiracchiata: “E magari chiamarlo pranzone della vigilia!”. Ne avevo fatte di battute migliori ma, scusami, nonno, quel giorno era l’unica che potesse uscire dalla mia bocca.
Di te e del nostro amore, non consacrato davanti ad un altare con la benedizione di Dio, non regolato dalle leggi civili, ma scandito dai battiti del nostro cuore, incontratisi, per la prima volta, il giorno della mia nascita e suggellato dall’affinità delle nostre anime. Sono stata la tua prima nipote, sono stata l’ultima persona che hai visto prima di lasciare la vita terrena, a me hai stretto la mano baciandola, facendomi promettere che neanche la morte, oramai prossima, ci avrebbe diviso.
La gente mi fermò per strada, appena lessero il tuo nome sui muri della città, chiedendomi: “Era tuo nonno?”.
Io risposi: “È mio nonno”. Patrizio mi disse, per telefono, che la tua assenza su questa terra non avrebbe potuto cancellare mai quel legame così forte, che saresti rimasto mio nonno per sempre, che le anime rimangono unite per l’eternità. Piansi ininterrottamente mentre Patrizio mi diceva tutto ciò, ma fu proprio in quel momento che sentii di essere stata chiamata a gestire un’assenza così pesante come quella che mi avevi lasciato tu, nonno.
Mi vennero in mente tante immagini felici, ricordai le nostre chiacchierate, le lezioni di latino, la correzione dei compiti, le poesie ripetute all’unisono, i libri letti e commentati assieme, ma anche le volte in cui mi portavi con te nell’orto e m’insegnavi i segreti del contadino. Pensai a te, e più le immagini riaffioravano alla mente, più il dolore mi toglieva il fiato. Pensai a te ma non scrissi mai di te.
Oggi, invece, scrivo di te, nonno.
Perché il dolore s’impara a gestirlo, perché il tempo regala un’immagine diversa delle persone che non ci sono più, perché il ricordo non fa più male, anzi, diventa un sollievo per l’anima.
Oggi scrivo di te, di te e di me, una storia un po’ speciale di un nonno e di una nipote che di notte ancora sogna di incontrarti ma che si sveglia di mattino con le lacrime agli occhi, nella piena consapevolezza che non ci sei più in quella casa, seduto sulla poltrona dello studio o a sonnecchiare sul divano, in cucina a scegliere il riso o in camera a sistemare le cravatte nell’armadio, chinato sulla scrivania dello studio a rilegare un tuo vecchio libro o a riordinare le carte: c’è un’assenza tanto forte quanto forte è stata la tua presenza.
Non sono riuscita ad entrare in cantina per mesi, perché lì c’erano le tue botti e le bottiglie verdi con l’anno scritto da te a mano, in giardino non si sentivano più i tuoi passi, mentre quel suono ritmico delle cesoie si era smorzato per sempre, eppure tutto è rimasto lì, ci sono ancora le calle lungo il viale, mente il petto d’angelo sta mettendo le prime foglie proprio come sta facendo in questi giorni l’ortensia.
Oggi ho capito ciò che volevi dirmi con la carezza regalatami quel giorno d’aprile, quando lessi nei tuoi occhi la consapevolezza che stavi per morire, quando capii, dal tuo sguardo addolorato, che stavi leggendo nel mio, il dolore e la disperazione che di lì a poco avrei provato, lasciandoti per sempre. Mi dicesti: “Se scriverai di noi, allora nulla andrà perduto, ed io sarò felice e riuscirò a farti giungere un mio sorriso, una mia carezza. Mi prometti che farai tutto ciò?”. Io non dissi nulla, mi limitai a scuotere la testa, quasi a scacciare indietro l’idea che tu potessi morire, che non ti avrei più dato il buongiorno, affacciandomi di mattino dalla finestra mentre facevi colazione sulla panchina dalle piccole piastrelle blu, che non ti avrei più raccontato le mie giornate, che non avrei più rivisto i tuoi occhi, sempre pronti a cercare i miei, in qualsiasi occasione. Ingenuamente pensavo che, se non ti avessi fatto quella promessa, tu non saresti morto, oppure avresti aspettato che le facessi, prima di lasciare questa terra.
Ho atteso l’ultimo tuo respiro per rassicurarti che sì, sarei rimasta qui, a prendermi cura di quello che più amavi.
Ho pensato a te, sempre, ma solo oggi scrivo di te, perché voglio mantenere la promessa che un giorno avrei scritto di noi, di te e di me.
La prima Stella Michelin per il Ristorante Carignano arriva nello stesso anno in cui anche l’Hotel dal quale dipende, il Grande Hotel Sitea a Torino, ha visto coronare la sua lunga storia con l’agognata quinta Stella. Il 2018 è, dunque, un anno da ricordare, anche se il riconoscimento giunto al Carignano è solo un punto di partenza, come ci conferma lo Chef de Cuisine Marco Miglioli, fortemente voluto dall’Executive Chef Fabrizio Tesse, con il quale Miglioli ha già lavorato in precedenza.
La giovane promessa del Carignano arriva a Torino dopo una lunga esperienza:”Conseguito il diploma all’Istituto Alberghiero, ho avuto il privilegio di andare a lavorare a Villa Crespi , dello Chef Antonino Cannavaciuolo, per 2 anni, per passare poi al ristorante Trussardi di Milano, per un anno”. Mignoli vola poi anche a Londra, a Montecarlo e a Dubai. Nonostante tutte le brillanti esperienze all’estero, il suo cuore e la sua anima appartengono a quei ricordi da bambino, che ancora oggi sono la sua “Stella Polare” in cucina: “Provengo da un famiglia in cui il buon cibo, possibilmente a km 0, è stato sempre l’elemento più importante. Non è un caso che al mattino, la spesa l’andiamo a fare al mercato giornaliero a Porta Palazzo, a Torino, preferendo anche prodotti di nicchia.” Marco Miglioli, l’aria della cucina l’ha respirata sin da adolescente: “Avevo 13 anni e aiutavo la nonna al bar nel preparare i caffè”.
Il giovane chef è poi riuscito a volare in alto “Non solo grazie alla passione, ma anche ad un pizzico di fortuna e al fatto di essere, come si suol dire, al posto giusto nel momento giusto”.
Presso il Ristorante Carignano, che ha appena cinque tavoli ed è aperto a cena, la parola d’ordine è:” Tradizione e innovazione. Rispettiamo, infatti, le tecniche basilari delle nostra migliori tradizioni, cercando di aggiungere, ovviamente, qualcosa di noi”.
La prima Stella Michelin:“Viene assegnata sulla base di un insieme di elementi, quali la location, la cantina, il servizio. Questo ambito riconoscimento ci ha cambiato mentalmente perché si riparte verso nuovi traguardi. Questa stella è solo una partenza”.
Sino al 19 gennaio 2019 è possibile regalarsi una visita a quello che, ormai, è diventato non solo l’appuntamento “simbolo” del Natale torinese, ma un vero e proprio “Museo d’Arte all’aperto”. Quest’anno Luci d’Artista ha raggiunto il traguardo dei 20 anni, durante i quali sono cambiati i vertici amministrativi della città, ma ciò che è sempre rimasta fedele a se stessa è l’essenza dell’evento, un “biglietto da visita” della regale Torino. Impreziosite dalle luci artistiche non solo le piazze e le vie del centro storico, ma anche le circoscrizioni e le zone più lontane dagli eleganti palazzi e luoghi che parlano della lunga storia italiana. Cosa è cambiato durante gli anni e cosa è rimasto lo stesso in quest’ evento, ce lo dice l’Assessore alla Cultura del Comune di Torino, Francesca Paola Leon, la quale, gentilmente, ci ha dedicato un po’ del suo tempo per realizzare quest’ intervista.
“Luci d’Artista continua ad essere un esempio virtuoso di intervento artistico-culturale nello spazio pubblico, fuori dalle tradizionali sedi espositive.Il progetto, alla sua XXI^ edizione, nasce come “museo a cielo aperto” circoscritto al Centro Storico, con l’obiettivo di diffondere – attraverso le opere luminose realizzate da artisti di fama internazionale – i linguaggi dell’arte contemporanea e di valorizzare il patrimonio dei beni artistici e storici della Città.
Questo progetto – imitato in Italia e all’estero – ha consentito la massima accessibilità e fruibilità ai cittadini ed è diventato un elemento forte attrazione turistica.
Questa Amministrazione dal 2017 – in occasione del ventennale di Luci d’Artista – ha voluto portare le Luci anche sul resto del territorio urbano, prevedendo l’istallazione di almeno un’opera per ogni Circoscrizione. Si, ogni anno, attraverso la collocazione delle opere temporanee in luoghi diversi e significativi della Città (almeno una per circoscrizione), ci si prefigge l’obiettivo di valorizzarle, di farle conoscere ad un pubblico più ampio e di creare altresì attesa e curiosità: un modo per rendere più accessibili i linguaggi dell’arte contemporanea.
Alle finalità consolidate negli anni, si è aggiunto quindi l’obiettivo di offrire anche ai residenti in altri contesti urbani – ad di fuori del centro storico – la possibilità di fruire delle opere del patrimonio di Luci, valorizzando altri luoghi ritenuti significativi, attraverso un percorso partecipato che ha condotto alla individuazione dei luoghi dove collocare le Luci d’Artista.
La Città quest’anno ha anche avviato, in una delle circoscrizioni che ospita un’opera di Luci, una sperimentazione: un’azione che è stata realizzata con la partecipazione attiva dei cittadini e delle realtà pubbliche e private operanti nel quartiere (scuole, associazioni, enti,…; realizzando, attorno all’installazione dell’opera, alcuni progetti educativi rivolti a studenti ed insegnati delle scuole dell’obbligo.
Oltre alle 23 Luci d’Artista “storiche”, vi sono altre opere luminose realizzate da associazioni, privati ed enti, che arricchiscono l’offerta al pubblico”.
L’inaugurazione di “Luci d’Artista” 2018 è avvenuta il 31 ottobre scorso nel cortile della Scuola Elementare Carlo Collodi e sono state recitate fiabe e filastrocche di Gianni Rodari. L’evento è diventato così, nel corso degli anni, davvero di tutti: dai bambini agli artisti internazionali, dai cittadini di Torino ai turisti, così come ci conferma l’Assessore Leon
“Certo, Luci d’Artista è un evento di “tutti e per tutti”.
Dando seguito ad uno dei punti qualificanti del Programma di questa Amministrazione, l’Assessorato alla Cultura ha ritenuto indispensabile che la scelta dei luoghi, in cui posizionare le opere, fosse condivisa con i cittadini e con tutti i rappresentanti delle Circoscrizioni.
Successivamente, al fine di far conoscere in modo stimolante le opere di Luci d’Artista e altre opere d’arte contemporanea presenti nel territorio urbano, che costituiscono parte significativa del suo patrimonio artistico e culturale, la Città con la Circoscrizione 8 – per la prima volta – ha sperimentato in collaborazione con il Dipartimento Educazione della GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e il PAV – Parco Arte Vivente il progetto educativo-artistico-culturale “Incontri illuminanti con l’arte contemporanea” rivolto a insegnanti, studenti e famiglie, coinvolgendo più di 30 classi”.
Ormai Luci d’Artista non è solo il modo in cui la prima capitale d’Italia festeggia le festività natalizie, ma anche una cartolina del tutto particolare che ciascuno può portarsi via con sé, dopo essere stato accolto, abbracciato, coccolato da questo spettacolo di luci e di magia. Chiedo all’Assessore Leon quante siano state le persone accorse lo scorso anno:
“ Luci d’Artista, che inaugura il mese dell’arte contemporanea nella nostra città, fa parte dell’offerta culturale in un momento in cui gli eventi cittadini ruotano attorno ai grandi eventi legati all’arte contemporanea e alle Fiere, tra le quali la prestigiosa Artissima contornata dalle fiere satellite come FlashBack, The Others, Paratissima, Dama, solo per citarne alcune. da Non siamo in possesso di dati certi. Da Turismo Torino e Provincia sappiamo però che nell’edizione 2017-2018 hanno partecipato 7.500 persone allo Special Tour Luci d’Artista da loro organizzato”.
Luci d’Artista non sono soltanto luminarie natalizie, dunque, ma molto di più :”
“Luci d’Artista è una manifestazione apprezzata in Italia e all’estero e, per questo, diventata elemento caratterizzante dell’offerta culturale della Città. Offre a cittadini e turisti scenari artistici inediti nello spazio pubblico. E’ inoltre un’occasione per rendere più accessibile l’arte contemporanea e i suoi linguaggi ai cittadini (delle diverse età) nei luoghi della vita quotidiana. Le luci d’Artista sono a disposizione di tutti i cittadini e dei turisti. I dati sulle presenze nel mese di novembre ci dicono di un incremento dell’8,7% di turisti rispetto allo stesso mese nel 2017”.
Torino rimane sempre la prima capitale d’Italia: regale, di una bellezza che incute un timore reverenziale. E’ per questo motivo che, rispetto ad altre città, le luci installate sono comunque di classe e meno appariscenti?
“Non sono d’accordo, nel giudicarle “meno appariscenti” di altre. Basti pensare ad esempio a “Vento solare di Luigi Nervo” o a “Piccoli Spiriti Blu” di Rebecca Horn …
Il nostro evento è semplicemente diverso dagli altri, perché le opere sono ideate da artisti di fama internazionale scelti dai direttori artistici di due musei d’arte contemporanea di eccellenza come la GAM e il Castello di Rivoli: non sono solo significative dal punto di vista estetico, dietro alla loro creazione vi è sempre una corrente artistica, un concetto, un messaggio che l’artista consegna alla Città.
La scelta del progetto Luci d’Artista di Torino privilegia alla dimensione “evento temporaneo appariscente” la capacità delle opere luminose di essere fruibili in un tempo più lungo e di diventare così parte caratterizzante del paesaggio urbano”.
Torino, dunque, si presenta così: ricca di luci che ti fanno camminare a testa in su per non perderti lo spettacolo di queste opere d’arte. Illuminate lo sono non soltanto le magnifiche piazze, i corsi centrali, la Mole, ma anche il grattacielo. Chiedo all’Assessore Leon se questa scelta sia un modo per far capire che Torino è sia storia che modernità.
“L’arte contemporanea, come tutte le arti e correnti artistiche, ha le sue radici nella storia: l’Opera di Maurizio Nannucci, sulla facciata della GAM “All art has been contemporary” esprime un concetto fondamentale: tutte le arti del passato sono state arti contemporanee nel momento della loro espressione. E’ interessante che anche soggetti privati come Intesa-San Paolo vogliano concorrere ad ampliare l’offerta del patrimonio di Luci d’Artista della Città arricchendo la manifestazione cittadina con nuove opere artistiche luminose come “α-cromative” di Migliore+Servetto Architects sul grattacielo progettato da Renzo Piano.
ARTE, dunque: due consonanti e due vocali che sembrano essere diventate essenziali per l’organizzazione, ogni anno, di Luci d’Artista, come ci conferma l’Assessore Leon: “Luci d’Artista è un museo d’arte all’aperto, ma non certo esaustivo: perché l’arte come le altre forme espressive può essere comunicata in innumerevoli modalità, tante quante sono gli artisti che possono essere invitati a collaborare a questo o ad altri progetti.
Un lavoro, dunque, quello che conduce la città di Torino a Natale, che inizia molto tempo prima e che richiede un grande impegno, come ci conferma l’Assessore alla Cultura: “Per visionare, valutare e selezionare con competenza gli artisti più idonei a produrre nuove opere volte ad arricchire il patrimonio di Luci d’Artista è indispensabile avere un’approfondita conoscenza dell’arte contemporanea a livello internazionale. Per questo motivo nell’eventualità di nuovi allestimenti di nuove opere, da inserire nel patrimonio permanente di Luci d’Artista, la selezione dell’artista e del progetto viene effettuata dalla Direzione del Castello di Rivoli e dalla Direzione della GAM della Fondazione Torino Musei, di concerto con la Città di Torino. Una scelta confermata da una valutazione di fattibilità da parte dei consolidati partner tecnici del progetto Luci: IREN e Fondazione Teatro Regio Torino.
Ogni artista, con la sua opera esprime “unicità”, utilizzando la luce, interpreta in modo personale la realtà collegandosi con i diversi linguaggi del contemporaneo”
Luci d’Artista: è arte e cos’altro per Torino?
“Pensando a questo evento lo si associa all’arte, al turismo e alla promozione della Città: per la sua inaugurazione a fine ottobre come evento di avvio del programma dello Speciale Autunno ContemporaryArt Torino+Piemnte e nel periodo nelle feste natalizie), però è diventato anche un momento per promuovere partecipazione comunitaria, coinvolgendo dei cittadini e dei soggetti pubblici e privati dei diversi territori e anche strumento per promuovere percorsi educativi-artistici-culturali, di avvicinamento ai linguaggi e alle produzioni dell’artecontemporanea.”
In ogni angolo della regale Torino, dunque, si possono ammirare queste opere d’arte di luce: a piazza Carignano ad attenderci sono le Cosmometrie, opera di Mario Airò, ispirati da quarantadue disegni di Giordano Bruno, proiettati sulla pavimentazione della piazza stessa. In Via Giulia di Barolo ci attende “Ancora una volta”,opera di Valerio Berruti, ispirata alla tecnica di video animazione: infatti i 10 fotogrammi dell’opera luminosa si relazionano con lo spazio sottostante. A Piazza Palazzo di Città si cammina sotto un pergolato di luci, opera di Daniel Buren. Anche le Gallerie della città, Umberto I e San Federico sono impreziosite, rispettivamente, da creazioni di Marco Gastini e Piero Gilardi. Mentre in via Carlo Alberto si cammina leggendo una poesia scritta da Giudo Quarzo, che si compone, passo dopo passo, in colori diversi tante sono le strofe che la compongono, grazie alla maestra di Luigi Mainolfi. Il simbolo di Torino, la Mole Antonelliana, è illuminata da “Il volo dei numeri”: una lunga sequenza in cui ogni cifra è la somma delle due precedenti: è la serie di Fibonacci, rivista in chiave artistica da Mario Merz.
Napoli è così: sospesa, come lei sa fare, tra “sacro” e profano” e questa fusione tra due facce della stessa medaglia, è visibile ovunque poggi lo sguardo. E così, in uno dei tanti vicoli, puoi trovare la statua della Madonnina, oggetto di devozione “sacra”, gelosamente custodita in un’edicola ornata di fiori, e poi, qualche metro più in là, decine e decine di persone con i numeri da giocare, per la devozione “profana” che il popolo di Napoli ha per il lotto. E poi c’è il “sacro” rito del pranzo domenicale, con il famoso “rrau’ ch’adda ppippià”, e il “profano” strett-food che coinvolge tutti: bambini, adolescenti, giovani, anziani…perché mangiare in strada il famoso “cuopp” di terra o di mare, la pizza a portafoglio, la sfogliatella, non è placare lo stomaco, ma fare un regalo all’ anima.
E poi, ancora, c’è il “sacro” delle vie dello shopping elegante e della movida, e il “profano” dei “vasci” nei Quartieri Spagnoli…
In questa perfetta mistura s’inserisce anche la storia singolare del “Chiaja Hotel de Charme”, situato nell’omonima via di Napoli. E così, in un “sacro” palazzo nobiliare del 1700, il palazzo Giroux, l’intero primo piano ha visto fondersi un appartamento appartenuto al Marchese Lecaldano Sasso la Terza con il “profano” di una ex casa di tolleranza chiusa con la legge Merlin. Ma entriamo insieme in questo stabile: ad accoglierci c’è un maestoso portone che, di sera, viene chiuso e il cui accesso è consentito da una porticina ricavata all’interno del portone stesso. Nel cortile d’ingresso c’è ancora il portinaio nella sua stanzetta e, dopo essere saliti sulla scala in stile vanvitelliano, si accede nell’ albergo, nato nel 2001 proprio da una commistione, appunto, di “sacro” e di “profano”.
Gli ospiti di quest’albergo possono, così, trovarsi immersi in due atmosfere completamente diverse tra loro ma che i proprietari hanno saputo fondere. Alcune camere si trovano, infatti, nell’antica Casa Lecaldano Sasso la Terza, che fu abitata tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 proprio dal Marchese Nicola, altre, invece, sono ubicate nello storico “Casino di Salita S. Anna di Palazzo”, chiuso nel 1958 dalla legge Merlin. Come è avvenuta questa fusione tra il “sacro” e “profano”, ce lo svela direttamente Pietro Fusella, pronipote del Marchese Lecaldano, nonché Direttore del Chiaja Hotel de Charme. “Era l’anno 2001 e Napoli non viveva un momento felice e non si presentava come oggi, con la grande area pedonale di via Chiaia e via Toledo. C’era, inoltre, una crisi degli alloggi e la proprietà immobiliare della nostra famiglia si stava degradando, così venne l’idea di procedere ad una ristrutturazione e di adibire l’appartamento al primo piano di palazzo Giroux ad uso ufficio, ma io proposi di farne un albergo, in un momento dove le strutture recettive di Napoli si trovavano solo sul lungomare Caracciolo e nei pressi della stazione ferroviaria. La ristrutturazione non riguardò solo l’appartamento, ma anche quei mobili e quelle suppellettili che sono attualmente ospitate nell’ingresso con il camino e nelle varie stanze. In tutto furono ricavate 14 camere: il nostro albergo era una vera bomboniera: piccolo e molto curato negli ambienti e con l’atmosfera di una casa nobiliare di fine 1800. Le cose andarono talmente bene che, dopo appena un anno di attività, decidemmo di ingrandire la struttura, acquistando un appartamento adiacente al nostro, che ci avrebbe consentito di occupare l’intero primo piano di Palazzo Giroux.Solo quando entrammo ci accorgemmo che si trattava, in realtà, di una casa di tolleranza chiusa dalla legge Merlin del 1958, il cui ingresso non era su via Chaia, ma sulla traversa accanto, strategicamente posta nel vicolo Sant’Anna di Palazzo. Così come avevamo fatto per l’appartamento del nostro avo, procedemmo alla ristrutturazione, puntando su tappezzerie dai colori carichi, mantenendo intatta la bellissima vetrata liberty, lasciando altresì, in bella vista, il tariffario dell’epoca”.
Chiedo a Pietro Fusella in che modo fu accolta questa fusione: “Con grande e vivo interesse, nonché con curiosità. Alcune signore emiliane, ad esempio, ci chiedono, espressamente, al momento della prenotazione della stanza, che la stessa sia ubicata nell’ex casa di tolleranza. Moltissimi sono incuriositi dai vecchi oggetti originali esposti nel corridoio. Resistenza fiera solo da una coppia di giovani francesi che, trovatisi di fronte a questa novità, si rifiutarono categoricamente di soggiornare in una di quelle stanze e chiesero, quindi, di essere trasferiti nella parte della casa del Marchese Lecaldano”. Oltre a questa inusuale commistione, un’altra particolarità del Chiaja Hotel de Charme è che ogni stanza ha un nome proprio: nell’appartamento del Marchese ci sono, tra le altre, la stanza “e don Nicola”, la stanza “e Zi Checchina”, mentre nel vecchio casino, si trova quella intitolata a Anastasia ‘a Friulana, Mimì do’ Vesuvio, Dorina da Sorrento. Questa struttura alberghiera al centro di Napoli è strettamente legata anche alla vita culturale della città, come ci dice il Direttore Pietro Fusella: “Un giorno di tanti ani fa, in una Napoli che ancora sonnecchiava, incontrai un amico, al quale chiesi: “Che vogliamo fare?”. E così nacque l’idea di organizzare, nel mio albergo, qualche incontro di poesia. Da allora non è mai venuto meno l’interesse per questa che è diventata una manifestazione patrocinata dal Comune di Napoli. Quest’anno abbiamo festeggiato i 10 anni di “Poetè”, questo il nome dell’evento, e da novembre ad aprile abbiamo un fitto calendario di eventi, tanto che alcune sere sono previste le presentazioni di due libri”.
Una tappa fisiologica di ogni donna, un passaggio dalla vita fertile a quella nonfertile, un momento che, superata la quarantina, sembra attenderci dietro l’angolo, con tutto il suo carico, non solo di cambiamenti del corpo e dell’umore, ma anche di profonda valenza psicologica. “Per menopausa -dichiara la Dottoressa Francesca Sagnella, Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Dottore di Ricerca in Fisiopatologia della Riproduzione Umana- s’intende la fine del ciclo mestruale e dell’attività ormonale ovarica. L’età media in cui le donne italiane entrano in questa fase è intorno ai 50 anni, infatti la menopausa fisiologica copre un arco che va dai 45 ai 55 anni. Quando una donna entra in questa fase prima dei 40 anni, parliamo di menopausa precoce; se accade tra i 40 e i 45 anni parliamo di menopausa prematura”.
Pertanto, in considerazione dell’aumento progressivo dell’età media alla quale arriva il primo figlio, sarebbe opportuno per le donne conoscere, anche se in maniera approssimativa, l’età in cui potrebbe terminare il periodo di fertilità:“L’instaurarsi della menopausa è legato a fattori genetici: ogni donna dovrebbe chiedere alla mamma e alla nonna l’età alla quale sono entrate in menopausa, essendoci una forte familiarità. L’entrata in menopausa può inoltre essere influenzata da fattori ambientali, terapie chirurgiche (interventi sulle ovaie), farmacologiche (chemioterapie) o fisiche (radioterapia), ma anche dallo stile di vita e dalle cattive abitudini. Sappiamo infatti che le donne fumatrici possono entrare in menopausa due anni prima delle non fumatrici”.
Si può anche avere un’indicazione massima sulla propria riserva ovarica e quindi, indirettamente, sull’età in cui arriverà la menopausa, sottoponendosi a dei semplici esami clinici: “ Per conoscere la propria riserva ovarica, esistono dei parametri ormonali quali il dosaggio dell’FSH, da fare al terzo giorno del ciclo e l’ormone antimullierano, da associare alla conta dei follicoli antrali che si esegue mediante un’ecografia transvaginale la quale consente di contare i piccoli follicoli ancora presenti nelle ovaie”. Ogni giovane donna potrebbe, quindi, con degli esami non invasivi, individuare il periodo della vita nel quale è possibile pensare ad una gravidanza, salvo ovviamente altre problematiche non inerenti alla riserva ovarica: “Purtroppo in questo campo c’è poca informazione -dichiara la Dottoressa Sagnella- dovremmo consigliare alle giovani donne di informarsi circa la propria predisposizione genetica alla menopausa precoce, anche perché è importante sapere che la qualità e il numero degli ovociti cominciano a ridursi sensibilmente già 10 anni prima della menopausa; chi andrà in menopausa a 40-45 anni, pertanto, sarà già molto meno fertile a 30-35 anni, rispetto a donne coetanee che andranno in menopausa a 50 anni”.
La menopausa generalmente non arriva senza segnali, i più rilevanti sono: “Irregolarità del ciclo, che può essere più ravvicinato ed abbondante, comparsa di tachicardia, aumento di peso (tra i 4 e i 5 chili), perdita dei capelli, secchezza della pelle e delle mucose, disturbi del sonno e dolori articolari, che interessano 1 donna su 4”.
Tra le conseguenze di cui si parla molto e che è un vero spauracchio, c’èl’osteoporosi, ossia la perdita di massa ossea causata dal crollo degli ormoni (estrogeni). Di fronte a questo quadro, abbiamo delle armi vincenti: “Svolgere regolarmente attività fisica , seguire una corretta alimentazione e integrarla con calcio e vitamina D, non fumare e, quando possibile, instaurare una terapia ormonale sostitutiva. Ovviamente, in casi di osteoporosi severa, sono disponibili molti farmaci che possono ridurre molto il rischio di fratture ossee. E’ importante sapere, infatti, che il 40% delle donne dopo la menopausa subisce una frattura.
Tra i sintomi ben noti della menopausa ricordiamo anche la secchezza vaginale e il calo del desiderio e le “famose” vampate: “In molti dei sintomi menopausali è coinvolto l’ipotalamo, una regione del cervello molto sensibile ai livelli di estrogeni che, tra le varie funzioni, regola la fame, il caldo-freddo e l’umore. Non a caso molte donne, in questa fase della vita, possono soffrire di alterazioni del tono dell’umore, fino alla depressione”.
L’età media delle donne è aumentata quindi, anche una volta andate in menopausa, gli anni davanti sono ancora molti, “La medicina ha pensato bene di migliorare la qualità della vita attraverso terapie molto personalizzate. C’è da considerare, infatti, che la menopausa non è solo la fine del periodo fertile, ma anche di una diminuzione drastica degli estrogeni che proteggono dalle malattie cardiovascolari. Non è un caso che in menopausa il colesterolo, i trigliceridi e la glicemia tendono ad aumentare.E qui la terapia ormonale offre un grande aiuto, proprio quella che da anni è stata demonizzata, specie a seguito di studi scientifici condotti negli Stati Uniti d’America, su donne sottoposte a terapia ormonale sostitutiva ma non ben selezionate. Questi studi avevano infatti coinvolto donne obese, in menopausa da 10 anni, e comunque non donne sane. I risultati a cui sono pervenuti sono stati, quindi, fuorvianti. E’ di fondamentale importanza, infatti, la selezione delle pazienti candidate alla terapia ormonale: un attento esame clinico, con la precisa valutazione dei sintomi, dei fattori di rischio che possono emergere dalla storia della paziente e dagli esami di laboratorio, consentono allo specialista di valutare il rapporto rischio/beneficio”. Chiedo alla Dottoressa Sagnella se tutte le donne possono sottoporsi a tale terapia :” E’ da escludere, ad esempio, in donne che hanno avuto un tumore all’ovaio, al seno, o che sono state colpite da ictus, tromboflebiti o soffrono di malattie autoimmuni come il lupus. Donne sintomatiche che non presentano fattori di rischio possono, invece, trarre enorme beneficio dalla terapia ormonale, purché iniziata entro i 5 anni dall’entrata in menopausa. Purtroppo, a causa di una propaganda negativa ed allarmistica, sono ancora pochissime le donne in Italia che godono dei benefici di questo trattamento farmacologico (circa il 4%, contro il 51% in altri Paesi europei). Concludendo, possiamo dire che oggi non è più necessario sopportare i disturbi menopausali. Con l’aiuto del medico è infatti quasi sempre possibile trovare la giusta strategia per alleviare i sintomi e vivere meglio una nuova fase della vita.”
Uno di quegli incontri casuali in una splendida giornata autunnale dal sapore estivo…e mentre mi sto incamminando verso i vicoli del delizioso borgo, una musica mi rapisce e mi spinge sin nella piazza dove è allestito un piccolo palco. E su questo palco, una figura al tempo stessa eterea ma forte, sta facendo la sua performance. Lui è energia pura, passione per la danza, lui ti coinvolge, ti rapisce, ti ipnotizza. Indossa una baschetto bianco alla francese, che, come svelerà lo stesso Maestro nel corso dell’intervista:” Ho riconosciuto, un giorno, come una parte di me, qualcosa che mi apparteneva da sempre”.
Lui è il Maestro Giorgio Rivari, al quale, terminata la performance dimostrativa, mi sono avvicinata per conoscerlo, perché il mio fiuto da giornalista mi suggeriva che lui aveva qualcosa di bello da raccontare.
E di ciò ho avuto conferma durante l’intervista che gentilmente mi ha concesso.
Muggia, un piccolo centro a 12 chilometri da Trieste: è qui che nasce Giorgio Rivari nel 1960.
“All’età di 6-7 anni, papà mi iscrive ad una squadra di calcio, ma io ero gracile: la parola “malaticcio” rende bene l’idea. I medici parlavano di una TBC ossea…avevo spesso le gambe ingessate, entravo ed uscivo dagli ospedali, dove non mi opponevo mai alle cure dolorose che mi attendevano perché più forte di tutte era la speranza, o meglio la certezza, che un giorno sarei riuscito a vincere io la battaglia contro questa patologia che avrebbe compromesso una crescita normale”.
Nel frattempo il piccolo Giorgio si avvicina alla danza, all’insaputa del padre che scoprì questa sua passione il giorno in cui lo seguì e lo vide entrare in una Scuola di Muggia. Dopo un primo tentennamento, i genitori lasciano Giorgio libero di scegliere e lui sceglie la danza, uno, due, mille volte. “Ho frequentato tutti i corsi possibili e facevo molti spettacoli nella mia zona e in quelle limitrofe. Nel frattempo, mi avvicino anche alla Kick Boxing disciplina della quale sono sesto dan e alle Arti Marziali, delle quali sono terzo dan”.
L’agonismo in queste due discipline gli permette l’incontro che gli aprirà scenari nuovi e inaspettati: “Ho l’opportunità di volare a Portland, nell’Oregon, dove faccio la conoscenza con il Nia, Azione Integrativa Neuromuscolare, ovvero una danza che combina il movimento del corpo, basandosi su 52 movimenti principali e che ha, come fine, quello del piacere di muovere il corpo”.
Dopo il ritorno in Italia: “Dove ho portato questa disciplina in molti Centri insegnandola, oltre alla danza contemporanea, in Scuole di Trieste , Gorizia, Udine e Slovenia, sento un giorno di poter e di voler dare qualcosa di più, di essere pronto a creare un metodo tutto mio per trasmettere qualcosa di più intimo: ed è , così, nata l’HDT, la Human Dance Technique, una danza di sviluppo personale e di tecniche corporee che vede ogni parte del corpo dotata di una propria coscienza ed anima. Se ci pensiamo bene, il nostro corpo è abituato a sentire musica, sin dal battito cardiaco, e a muoversi sin da quando siamo nell’utero materno, quindi la danza non è una condizione, quanto piuttosto proprio una necessità umana”.
Gli chiedo di descrivere come è articolata una sua lezione di HDT: “La mia masterclass dura un’ora e mezza, un po’ di più della classiche lezioni, perché durante i primi trenta minuti ci concentriamo in silenzio sul prendere contatto con il corpo. Iniziamo dalle estremità e cominciamo con dei movimenti che poi, naturalmente, diventano sempre più ampi. La parte centrale della lezione, quindi, è un insieme di movimenti coreografici attraverso i quali il corpo riesce a star bene con se stesso. E questo è il fine della HDT: ci muoviamo per stare bene, per sciogliere le tensioni, per diminuire lo stress che talvolta ci paralizza, ma non siamo competitivi tra noi quando siamo a lezione. La danza diventa un supporto psicologico attraverso gli sblocchi emotiviCiascuno dà tutto sé stesso, ma senza fare paragoni con gli altri”.
Il Maestro Rivari è molto di più di ciò che racconta, tant’è che le parole non sono sufficienti o in grado di esprimere pienamente davvero la grande carica umana e professionale di Giorgio che incanta, sempre. “Ho gioia nel muovermi, sì…e credo fermamente in quello che disse un giorno il grande ballerino russo Nurejev: balla con me cinque minuti e ti racconterò la tua vita. E davvero noi siamo il nostro corpo strettamente legato al cuore, all’anima. E la HDT riesce a coinvolgere corpo, mente, spirito”.
Il Maestro Rivari da otto anni svolge anche la propria attività all’interno del progetto promosso dall’azienda sanitaria HPH per prevenire il burn out e che, successivamente, è stato aperto anche al pubblico. Nell’ambito di questo progetto Giorgio è coadiuvato anche da psicologi, insegnanti di educazione fisica e artisti.
Spinto sempre dal grande desiderio di conoscere e di perfezionarsi nel suo campo, è partito alla volta della Spagna, dove haimparato il Ballet Fit, un nuovo metodo di ballo legato alla danza classica e, proprio di questa disciplina, è certificatore unico in Italia.
Quindi Giorgio Rivari, ce l’ha fatta: “Quando da bambino entravo e uscivo negli ospedali, non ho mia avuto esitazioni. I miei genitori erano preoccupati ma io sapevo che ce l’avrei fatta grazie alla danza, della quale io mi percepisco come un veicolo e quando sono a lezione mi dico che meno ci sono io più c’è lei”.
Ma è impossibile non accorgersi del Maestro Rivari quando insegna, quando si muove, fluido e flessibile, coinvolgente e appassionato, con il suo inseparabile baschetto alla francese.
Annoverato tra i più bei borghi d’italia, Vipiteno-Sterzing, in provincia di Bolzano e nel fantastico e magico Sudtirol, ha un fascino che ti cattura appena cominci ad incamminarti verso il Corso principale, tutto inghirlandato di palazzi dipinti con colori pastello e di finestre tipiche della zona.
E quando sei lì, con lo sguardo che non sa dove posarsi, e che volge ora verso i monti, ora verso gli abbaini, sembra di essere in uno di quei paesi descritti nelle favole per bambini.
Lungo il Corso, dove si aprono i caratteristici portici, svetta il simbolo del paese: la Torre dei Dodici, che divide la città vecchia dalla città nuova.
La catena delle Dolomiti che abbraccia Vipiteno, regala ai turisti un’aria cristallina, pura.
E quando sei lì non puoi fare a meno di pensare a quanto possa essere affascinante d’inverno, specie durante il periodo natalizio, quando vengono allestiti i tradizionali Mercatini di Natale nel Sudtirol, che si trovano anche a Bolzano, Merano, Bressanone, Brunico. E ti immagini anche la neve quando poi percorri la strada nel senso contrario, e prometti a te stessa che il saluto tributato a Vipiteno, è solo un “Arrivederci”
Nella precedente intervista, la Dottoressa Francesca Sagnella, Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Dottore di Ricerca in Fisiopatologia della Riproduzione Umana, ci ha parlato dell’infertilità e di quanto possa essere devastante, per una coppia, una tale diagnosi. Fortunatamente, la medicina può molto in questa campo. Oggi vediamo, infatti, quali sono i metodi per consentire ad una coppia la realizzazione del sogno di diventare genitori.
“ Lo studio approfondito della coppia e la comprensione delle possibili cause di infertilità rappresentano la fase più delicata. Il successo del trattamento, infatti, dipende moltissimo dalla personalizzazione delle cure ” dichiara la Dottoressa Sagnella, la quale continua: “Ad esempio, qualora il problema fosse di tipo ormonale con ripercussioni sulla presenza e/o sulla qualità dell’ovulazione, il primo approccio sarebbe quello farmacologico: ovvero si prescrivono farmaci (in compresse o iniezioni sottocutanee) per indurre l’ovulazione. Qualora l’aiuto farmacologico dovesse rivelarsi infruttuoso , oppure in caso di problematiche maschili lievi, o in caso di infertilità inspiegata (ovvero senza cause tangibili), il passo successivo sarebbe quello della inseminazione intrauterina.Questa tecnica consiste nell’introdurre nella cavità uterina, nel giorno di massima fertilità della donna, il seme del partner opportunamente trattato in laboratorio, al fine di selezionare, dal campione raccolto, gli spermatozoi dotati di maggiore motilità. La tecnica avviene in ambulatorio utilizzando un sottile catetere che viene introdotto nella cavità uterina. Non è invasiva e, una volta preparato il seme, richiede pochi minuti per l’esecuzione. Il tasso di successo di questa tecnica si aggira intorno al 18-20% di gravidanza per singolo tentativo”.
Una tecnica più complessa è quella della fecondazione in vitro (FIVET/ICSI), tecnica che ci viene illustrata dalla Dottoressa Sagnella: “Si ricorre a queste tecniche in diversi casi: ad esempio, quando le tube della donna risultino chiuse, perché è proprio nelle tube che avviene il concepimento; quando il fattore maschile risulti particolarmente alterato, oppure in caso di fallimento delle tecniche più semplici. La prima fase di un trattamento di fecondazione assistita prevede una terapia ormonale che ha lo scopo di indurre una ovulazione multipla nella donna (ossia di stimolare le ovaie a produrre più follicoli contemporaneamente). Gli attuali protocolli farmacologici sono molto più sostenibili di una volta: durano circa 10 giorni e sono generalmente ben tollerati dalle donne. Durante questa terapia è fondamentale eseguire diverse ecografie e prelievi del sangue, al fine di fornire al medico le informazioni necessarie a modulare le dosi dei farmaci. Quando si raggiungono dimensioni follicolari adeguate, si procede al prelievo degli ovuli e alla fecondazione in vitro (ossia in ogni ovulo che si vuole fecondare viene introdotto, al microscopio elettronico, uno spermatozoo). Se questa fase va a buon fine, l’ovulo fecondato si dividerà e formerà l’embrione, che verrà poi trasferito nell’utero della donna attraverso un sottile catetere”.
Chiedo alla Dottoressa Sagnella quali siano le tecniche attraverso le quali si prelevano gli ovuli:
“Gli ovuli vengono aspirati dalle ovaie sotto guida ecografica, mediante un ago che viene montato sulla sonda ecografica transvaginale. Si tratta di una tecnica che può essere praticata sia in anestesia locale che generale. Io, personalmente, eseguo molti interventi in anestesia locale. In questa fase il rilassamento è molto importante, per cui cerchiamo di mettere a proprio agio la paziente anche facendole ascoltare della musica. La fecondazione in vitro può raggiungere tassi più elevati di successo, intorno al 35-40% per singolo tentativo.
Un’altra tecnica, sempre più diffusa, è la fecondazione eterologa : “Si usano gameti femminili o maschili prelevati da donatori sani e fertili. Tale tipo di fecondazione è indicata in caso di azoospermia (assenza di spermatozoi nel testicolo), oppure in assenza di riserva ovarica (quando le ovaie hanno esaurito il loro patrimonio ovocitario). Questa condizione è sempre più frequente, per ragioni sociali (età avanzata della donna), farmacologiche (ad es. alcuni chemioterapici) oppure genetiche e ambientali (menopausa precoce). La fecondazione eterologa può raggiungere tassi molto elevati di successo, intorno al 60-65%. Tutte le tecniche, più o meno complesse, andrebbero eseguite sempre tenendo conto della fragilità emotiva di ogni donna in un contesto così delicato. Si tratta infatti di percorsi molto più difficili sul piano emotivo e psicologico di quanto non lo sia l’impatto con i farmaci e con le procedure stesse. Per questa ragione – conclude la Dottoressa Francesca Sagnella– potrebbe essere consigliabile un sostegno psicologico da parte di operatori esperti del settore che, nel centro presso il quale opero, sono sempre a disposizione dei nostri pazienti”.
Bolzano: pregusti una realtà diversa dalle altre già al momento della prenotazione del biglietto ferroviario, quando, tra le varie stazioni, quella di Bolzano balza fuori dalla lista anche con il suo nome in lingua tedesca “Bozen”. Hai imparato sin dalle scuole elementari che il Trentino Alto Adige è una regione a Statuto Speciale dove vige il bilinguismo (italiano e tedesco) e ti accorgi di quanto sia bella questa multicultura in terra italica, appena solo scendi dalla stazione e ti incammini, a piedi, sino a Piazza Walther, cuore e salotto della città altoatesina.
Ti giri più volte su te stessa per ammirare la particolarità dei palazzi con quegli abbaini che fanno capolino dai tetti e noti come l’architettura abbia l’inconfondibile gusto austriaco che ritrovi anche quando volgi lo sguardo verso il Duomo in stile gotico , che con il suo tetto smaltato verde-oro, somiglia molto a quello di Vienna.
E saranno le campane della chiesa a darti il buongiorno… ed è un suono al tempo stesso dolce e potente: dolce come quel monte verdissimo che guarda verso la statua del poeta Walther von der Vogelweide, e potente come il profilo delle Dolomiti che si scorge dai piani più alti dei palazzi che si affacciano sulla piazza, bellissima di giorno e di e incantevole, indimenticabile di sera.