34° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Ti eri subito innamorato di questa terra, nonostante fosse brulla e spoglia, eppure pensasti che sotto le tua mani avrebbe ripreso a vivere, a dare i suoi frutti. Così avvenne. La tua determinazione vinse anche quella volta, cominciasti a prenderti cura di tutti quegli alberi e in breve tempo il pero, il melo, il nespolo, il fico, il pesco, il susino, il ciliegio ma anche la vite e le piantine, che di volta in volta mettevi a dimora a seconda della stagione, sbocciarono come per miracolo, divenendo forti e portando sempre grandi quantità di frutta. Eri riuscito a diventare un loro amico, si erano subito affezionate alle tua mani, alla tua presenza, al tuo modo di raccogliere dai loro rami i frutti. L’amore profuso verso quegli alberi e quelle piante era contenuto negli ortaggi e nei frutti che orgogliosamente portavi a casa ogni giorno.

D’estate andavi via anche alle cinque e mezza del mattino e tornavi intorno alle dieci. Poi tu arrivavi con la tua macchina, acquistata qualche mese prima della mia nascita. Sbucavi dalla stradina a sinistra e ti fermavi sotto casa. Scendevi rosso in viso, con gli stivali di gomma sporchi di terra e la maniche arrotolate della camicia, il cappello di paglia in testa, aprivi il cancello del garage e vi posizionavi sotto dei fermi in legno. Salivi nuovamente nell’auto, inserivi la marcia indietro e sterzando tutto verso sinistra ti inabissavi nel garage. Ogni giorno era una sorpresa: già, perché nel portabagagli c’era sempre qualcosa di nuovo, specie d’estate. La nonna ti veniva a dare una mano nel portare sopra casa le cassette di legno, nelle quali sistemavi i frutti mentre io mi limitavo a sbirciare cosa ci fosse dentro. Sistemati gli attrezzi da lavoro in cantina, salivi anche tu con la nonna in casa e cercavi di mettere quei preziosi doni della campagna nelle fruttiere di vetro. Qualcosa però finiva nel frigorifero, perché sarebbe stato impossibile, per noi, riuscire a mangiare tutta quella frutta. La nonna spesso si lamentava per quella pacifica invasione di pesche e susine, prugne ed albicocche, uva e fichi ma la terra stava dando i suoi frutti e noi certo non potevano lasciarli indietro. Era necessario celebrarla tutta quella ricchezza ed era proprio la nonna la più golosa di quella frutta colorata e saporita. Tu e la campagna: un binomio vincente ma mai scontato, un rapporto vero, forte, tenace, sanguigno: tu, padrone e amico di quegli alberi che non tardavano mai a regalarti, quasi in segno di ringraziamento, quei frutti così saporiti.

33° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Intanto, anche il mese di aprile ci stava lasciando e maggio ti avrebbe regalato le ultime calde giornate di sole, un sole benevolo per quelle piantine dell’orto che stavano rigogliosamente crescendo grazie alle mie cure. Anche il 1° maggio, così come avevo fatto per il mattino di Pasqua e di Pasquetta, decisi di trascorrerlo con te.

Quel giorno ti trovai seduto in cucina, indeciso se mangiare o meno quelle fettine di pane colorite da un sottilissimo velo di marmellata. Non avevi molta voglia di fare colazione, tanto che fui costretta a registrare come la tua perdita di appetito fosse diventata costante e stava, anzi, aumentando ogni giorno di più. Cercai di non farti pesare ciò e ti invitai ad uscire in giardino con me: avremmo ricreato fuori, tra gli alberi e le piante, quell’atmosfera gioiosa che molte persone avrebbero vissuto in quel giorno di sole, seduti sui plaid, stesi sull’erba o in spiaggia in riva al mare.

Noi ci saremmo sistemati sulla nostra panchina e sarei andata a prendere il tavolo pieghevole di legno nel ripostiglio di casa. La tovaglia da stendervi sopra doveva intonarsi con la giornata, nessuna tovaglia di lino ricamato, dunque, né di fiandra, ma una bella colorata, sullo scozzese, come quella che avevo regalato alla nonna qualche anno prima, in occasione del Natale. Sarei andata a comprare delle fave e del buon pecorino romano proprio nel negozio dove abitualmente ti servivi tu. Sarei poi scesa in cantina a prendere una bottiglia di vino, magari invecchiata, perché quel giorno doveva essere speciale.

Ti ubriacai di parole, di sorrisi, di progetti, d’ottimismo e tu, di fronte al mio entusiasmo, non riuscisti a tirarti indietro. Allora rimanesti lì, seduto sulla nostra panchina, ad assistere al mio buffo andirivieni con il tavolino, la tovaglia, i piatti, i bicchieri, le fave, il formaggio, il pane fresco, il vino, il tuo vino. Invitammo anche gli altri a partecipare alla nostra celebrazione del 1° maggio ma rifiutarono l’invito perché vollero regalarci una giornata solo per noi.

Mi assentai per mezz’ora, giusto il tempo necessario per andare a comprare la pagnotta di pane cotto a legna, fragrante e profumata, il pecorino saporito, le fave fresche di campo. Apparecchiammo il nostro tavolino che prese un po’ di colore e vivacità grazie a quella tovaglia a quadri e vi sistemammo sopra i piatti, le forchette, i coltelli, il mio bicchiere, la tua fedele brocca in vetro. Cominciammo a prendere dalla busta di plastica color carta da zucchero, le fave e mentre le sgusciavi portandone alla bocca i semi, un velo di tristezza transitò per qualche secondo nei tuoi occhi: guardare questi ortaggi e pensare che la tua campagna era rimasta lì, da sola, senza che nessuno si prendesse più cura di lei, ti dispiaceva molto. Allora fu invitabile che il discorso scivolò su quella distesa di terra che ti aveva visto, per 20 anni, suo amico fedele.

32° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Quella sera, prima di cena, scesi di nuovo giù da te: la nonna mi aveva avvertito che ti eri svegliato. Lungo le scale mi fermai a pensare che un sonno pomeridiano così lungo non lo ricordavo, ti eri sempre allungato un po’ sul letto dopo pranzo, lo avevi fatto sempre, anche da giovane, ma quel pisolino, quel breve lasso di tempo che dedicavi solo a te e alle tue lenzuola di lino ricamate, durava al massimo tre quarti d’ora.

Lo ricordo bene, nonno, quel rito al quale ci avevi abituate.

La scena era sempre la stessa ma capace, comunque, di non scivolare mai nella solita, noiosa routine.

Dunque, tu ti alzavi da tavola mentre la nonna preparava il caffè con la crema allo zucchero, la mamma sparecchiava e, dopo aver ringraziato Dio, il quale ci aveva regalato un altro giorno da passare insieme riuniti attorno alla tavola, salutavi una ad una le tue donne, come amavi chiamarci, alla nonna stringevi sempre il naso, come si fa con i bambini, e lo celebravi sempre ammettendo che quel delizioso nasino e gli occhi verdi erano state le cose che più ti erano piaciute di lei, alla mamma mettevi una mano in testa carezzandole i capelli castani e a me stringevi la mano, talvolta mi regalavi il saluto militare ed io ti rispondevo portando la mano tesa davanti la fronte.

Poi ti recavi in bagno e alla tua uscita, lungo il corridoio si poteva sentire il profumo inconfondibile del tuo dentifricio alla menta, che era ormai diventato un tuo odore caratteristico, attraverso il quale ti avrei riconosciuto tra mille, anche ad occhi chiusi. Chiudevi la porta della camera da letto e sistemavi il cuscino, ma non ho mai saputo se indossavi il pigiama o ti coricavi solo sulle coperte, è un segreto, questo che è rimasto tale. Questo rito si compiva introno alle due e mezza del pomeriggio, ma solo da quando eri andato in pensione perché a quell’ora, quando prestavi servizio come maresciallo presso la caserma, rientravi a casa brandendo nell’aria il tuo cappello e salutavi me, la mamma e la nonna che eravamo rimaste a tavola ad aspettarti, nonostante avessimo già finito di mangiare.

Ma noi non ci saremmo perse per niente al mondo lo spettacolo di quando sollevavi il piatto piano da quello fondo che la nonna aveva messo per non far raffreddare la pasta, di quando tentavi di dare una forma a quegli spaghetti, che, complice il vapore acqueo, erano diventati un blocco unico. Allora chiedevi alla nonna di ripassarli nella padella, magari con un po’ di burro e in attesa che gli spaghetti riprendessero forma, sbirciavi nel piatto riservato al secondo il contenuto dello stesso. Poteva ospitare la fetta di carne arrostita con la lattuga, la mozzarella di bufala con l’insalata mista, il pesce con le patate ma mai il pollo perché non riuscivi proprio a mangiarlo. Mentre attendevi che la pasta ti fosse messa davanti, io, te e la mamma parlavamo un po’ della mezza giornata trascorsa, poi terminavi il pranzo con l’immancabile arancia, se d’inverno, o le pesche giallone se d’estate.

31° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Il sole era particolarmente caldo quel giorno di Pasquetta del 2001, allora ti invitai ad uscire fuori, in veranda, per accomodarci attorno al tavolo dalle piastrelline arancioni, sotto l’albero del cachi e del nocciolo che proprio in quei giorni stavano mettendo le giovani e verdi foglie alla loro chioma e così, per non scontentarmi, accettasti il mio invito e appoggiandoti a me, scendemmo i gradini del balcone.

Poi, quella richiesta…quella richiesta che non avresti mai fatto se non avessi sentito vicino la tua fine: chiamare qualcuno per far portare via le reti richiudibili che per decenni avevi conservato in cantina. Sì, proprio quelle reti… le stesse che per anni avevano accolto il bisnonno, gli zii, i vostri parenti. Le avevi conservate per così tanto tempo che sembravano far parte di te, della tua vita, della nostra storia.

Le tenesti giù in cantina per anni, tra le botti e le bottiglie, perché la vita è anche questo sperare che qualcuno ti venga a trovare, è anche questa disponibilità verso gli altri, questa ospitalità che sapeva di brande pieghevoli e di pranzi preparati dalla nonna, di sonnellini e di caffè pomeridiani, di pizza napoletana mangiata insieme in veranda, sotto un cielo stellato.

Quel giorno, invece, capisti che la morte avrebbe trascinato tutto con sé, come fa un’alluvione, e prima ancora che qualcuno si prendesse il disturbo di buttare quelle reti, lo facesti tu, chiedendo a me di cercare qualcuno per portarle via, tanto, dicesti, non sarebbero servite più a nessuno. Non ti saresti mai disfatto di quelle reti se solo avessi avuto il minimo sentore di poter continuare a vivere, non avresti mai negato la possibilità a qualche parente di stare un po’ con te e con la nonna, anch’ella meravigliata da questa inaspettata richiesta.

Cercammo, così, quell’uomo che guidava un vecchio camioncino con il quale andava a svuotare le cantine di oggetti, di cose di cui la gente voleva disfarsi. Venne da noi un pomeriggio di primavera, entrammo nel locale sottostante la casa per prelevarne una ad una come fossero state prigioniere di un speranza, ma erano incastrate tra loro e non volevano saperne di lasciare per sempre la tua cantina. Erano malconce ma sembravano essere felici, felici di averti reso lieto per tutti quegli anni. Ora, però era il momento dell’addio, tu eri poggiato con le braccia sulla balaustra del balcone di casa, la cantina era proprio lì sotto e stavi aspettando di vedere uscire da lì quelle brande.

Tu le guardasti una ad una quasi a riconoscerle, quasi a volerle salutare amorevolmente. Se per molti erano solo delle reti di ferro malandate, per te rappresentavano la vita che ti stava lasciando, la vita che avevi trascorso con tua moglie, le estati della tua età matura quando davi ospitalità ai bisnonni, e poi agli zii. Prima di dirigermi verso il camioncino che non aspettava altro che di caricare le brande, mi girai verso di te come a chiederti se volevi ancora che si compisse quel gesto, quasi a sperare che ti fosti pentito nell’affidare le tue reti a quell’uomo.

Lui era lì, ad aspettare e, vista la mia titubanza, non ci pensò su due volte a venirmi incontro per levarmi di mano le reti. Le addossò una all’altra, malamente, le legò strette con una corda di fortuna, si accertò che non cadessero lungo il tragitto, chiese i soldi e se ne andò. E noi rimanemmo lì, tu, affacciato al balcone, io, fuori il cancello a vedere il vecchio camioncino che si stava allontanando dalla nostra casa, portando via, per sempre, quelle reti che sembravano salutarci. La rete più piccola, quella a una piazza, aveva persino tentato di rimanere in cantina, essendosi incastrata più volte tra il torchio ed una botte, forse pensava che se avesse opposto resistenza, avremmo deciso di ospitarla ancora per un po’ nel locale sottostante la casa.

Credevamo entrambi, nonno, che anche le cose avessero un’anima, che sentissero, che percepissero le nostre emozioni. Lo credo ancora oggi.

30° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La notte successiva a quella lezione sugli alberi da te impartitami con grande amore, fu lunga, interminabile… e così, senza fare rumore, andai in soggiorno e presi dai cassetti tutti gli album delle nostre foto: dal matrimonio della mamma sino alle ultime, scattate nei tradizionali giorni di festa.

Mi soffermai a lungo sulle immagini che ritraevano noi due, o te e la nonna, o tutti insieme, e mi ricordai delle volte in cui chiedevi a qualche passante di scattare una fotografia per noi. Ti avvicinavi in maniera cortese al signore di passaggio, gli porgevi la macchinetta fotografica, gli spiegavi quale pulsante era da premere e ti stringevi forte a noi, alle nostre spalle, alle nostre mani, sorridendo con infinita gioia.

Noi eravamo così, capaci di celebrare anche una semplice passeggiata sul lungomare mentre io mangiavo la pizza calda fumante con la mozzarella filante e tu mi dicevi di stare attenta a non sporcare il prezioso capotto di lana marrone con gli alamari nocciola, capaci di venirci incontro in piazza come se non ci vedevano da anni, anche se ci eravamo separati dieci minuti prima. Dopo lo scatto della foto, anche se ci ritraeva in momenti quotidiani, scontati per gli altri, tu esprimevi sempre il timore che non uscisse bene, neanche se avessimo fotografato chissà quale parte sperduta della terra. Invece era una foto semplice, potevate esserci tu e la nonna davanti le balaustre del lungomare, tu e la mamma in giardino, io e te seduti sulla panchina dalle piccole piastrelle blu.

Scene di vita quotidiana, arricchite dall’amore, profondo e sincero che ci ha sempre unito. Continuai a sfogliare l’album delle foto, la prima immagine che mi venne incontro fu quella del matrimonio della mamma: eravate ritratti voi due fuori al cancello verde di ferro battuto, tu eri elegantissimo e visibilmente emozionato. Sin da bambina non ero mai abbastanza sazia di quelle immagini, di quel sorriso della mamma alla quale amavo dire che se la felicità avesse avuto un volto, avrebbe avuto il suo, il giorno delle nozze. Mi piaceva guardarvi prima che nascessi io, non so per quale recondito motivo, adoravo poi confrontare quelle foto con quelle successive alla mia nascita. Forse per vedere sui vostri volti, su dei miei genitori, su quello della nonna e sul tuo, quello sprazzo di gioia in più, una volta fatta la mia conoscenza.

29° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Mi limitai a scendere giù per le scale tra il trillo degli uccelli che svolazzavano felici tra i rami degli alberi in giardino, inconsapevoli di quanto stava accadendo dietro i vetri di quella persiana che tante volte avevano lambito durante i loro voli radenti.

La porta-finestra era socchiusa, già potevo intravedere la tua ombra proiettata, dalla luce dell’abat-jour, sul muro, vicino l’armadio. Non eri più a letto ma adagiato sulla poltrona e, per nascondere alla mia vista la magrezza delle tue gambe, te le copristi abilmente con quel plaid marrone.

Mi facesti segno di accomodarmi sul letto, era ancora caldo, questo vuol dire che avevi lasciato coperte e lenzuola solo per me, solo per parlare con me.

Facesti, come era nel tuo stile, un breve preambolo, riassumesti quanto avevamo fatto nell’orto, non senza esserti complimentato con me per l’ottimo lavoro svolto tra piantine e vanghe.

C’era un’ultima cosa che dovevo sapere: quando far potare gli alberi. Capii, solo in quel momento, che la tua morte era ormai sempre più vicina, più vicina ancora di quanto il tuo stato di salute potesse far presagire. Gli alberi, in 50 anni, avevano conosciuto solo la tua mano, a me permettevi, d’estate, di annaffiarli, e sempre sotto la tua super-visione.

Quante volte mi hai ripetuto, da bambina, che gli alberi sono come le persone: bisogna rispettarli, averne cura, conoscere le loro necessità per permettere una crescita sana e vigorosa.

Ricordi, nonno, quel caldo pomeriggio d’agosto, quando tu e la nonna andaste, come era vostra abitudine fare, a prendere il pesce di paranza al porto e al tuo ritorno mi vedesti che stavo bagnando, con il tubo di plastica, le foglie del limone in giardino?

Mi rimproverasti per aver procurato all’albero un fastidio che avrei potuto comprendere appieno solo se qualcuno si fosse comportato con me come io stavo facendo con il limone. Cosa avrei potuto mai provare se, dopo tante ore trascorse sotto il sole, qualcuno fosse venuto da me per bagnarmi con dell’acqua fredda? Non avrei avuto un sussulto, non avrei provato un profondo senso di fastidio? Allora perché, mi chiedesti, avevo inflitto tutto ciò al povero albero di limone? Lasciai cadere il tubo dell’acqua e ti chiesi scusa per la disattenzione e per non averti aspettato.

Ecco, l’unico intervento permesso sugli alberi del giardino era l’annaffiatura sotto stretta sorveglianza, come scherzosamente dicevo io, e nulla di più.

Adesso tu, invece, stavi insegnando a me quando intervenire su loro rami, consapevole com’eri che non sarebbe stata più la tua mano a potarli a fine stagione. Ebbi la sensazione netta di scappare, ma cosa mai sarei stata davanti ai tuoi occhi? Una codarda, una persona priva di coraggio, incapace di accettare la realtà. Tu prendesti fiato, io accavallai le gambe ma il nervosismo le stava facendo tremare eccessivamente, allora decisi di metterle giù.

Non fu solo una lezione di giardinaggio, quella che mi stava aspettando, ma un sunto della tua vita da bambino, un insegnamento su come il futuro esige la nostra volontà ed il nostro coraggio per diventare realtà. Dietro una terra ben arata, un orto ben coltivato, c’è sempre tanta fatica.

È una continua lotta, quella che l’uomo intraprende con la natura aspra e selvaggia, sempre pronta ad infestare di erbacce un campo coltivato, ma la soddisfazione di un bel raccolto lo ripaga di tutte quelle ore trascorse con la schiena piegata.

Eri uomo di cultura, indubbiamente, imbattibile in greco e in latino, insuperabile in storia, ineguagliabile in letteratura, ma avevi saputo conoscere anche la terra e le sue esigenze. La tua curiosità ti aveva sempre spinto oltre: oltre il dolore, la solitudine, la guerra, le privazioni, e questo tuo innato ottimismo ti aveva sempre ripagato. Quando portavi dalla campagna gli ortaggi invernali o la deliziosa frutta estiva, i fichi settembrini come l’uva, ringraziavi sempre Dio per averti concesso, anche quell’anno, la possibilità di poter condividere i frutti del tuo lavoro con la tua famiglia. Pur amando profondamente la vita non davi mai nulla per scontato, alla mattina come alla sera, ringraziavi il Signore che ti aveva donato un’altra giornata.

Terminasti a fatica la lezione sulla potatura degli alberi: io avevo compreso gli aspetti essenziali ma sarebbe stata poi la pratica a confermarmi se la comprensione era stata adeguata.

28° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La giornata continuò ad essere calda ed invitante e subito dopo pranzo, mentre eravamo affacciati al balcone della cucina, sfilarono tante persone, quasi tutte indossavano magliette colorate con le maniche corte, jeans rivoltati alla caviglia, scarpe leggere, a testimoniare che la primavera era veramente arrivata quel giorno di Pasqua del 2001.

I bambini erano sistemati nei passeggini ed i ragazzini più grandi sfrecciavano lungo la strada con le biciclette, le mamme richiamavano ad alta voce i propri figli, le macchine passavano, gli uccelli cantavano: ognuno continuava la propria esistenza e non nascondo che provai un senso d’invidia per loro, per quelle persone felici, inconsapevoli del mio dolore, del dolore di una nipote che stava per perdere il proprio nonno.

Ricordo quello che leggemmo un giorno nella Lettera sulla felicità di Epicuro che ti avevo regalato. In poche e semplici parole, Epicuro affermava che non dobbiamo avere paura della morte perché quando non c’è lei ci siamo noi e quando c’è lei siamo noi a non esserci più. Ci salutasti, terminato il pranzo, ringraziandoci uno ad uno come mai avevi fatto sino ad allora, per esserti stati vicino, poi andasti via nella tua camera da letto mentre la nonna era intenta a sistemare la lasagna che non avevi consumato in un piccolo contenitore d’alluminio, nella speranza che poi, la sera, l’avresti mangiata.

La nonna ragionava ancora basandosi sul passato, su quello che era stato ma non sarebbe stato più. Tutto stava tragicamente cambiando attorno a noi, a noi, che rimanemmo inebetiti da cotanto straziante spettacolo di un uomo di buona forchetta costretto dalla malattia a giocherellare mestamente con le posate e a far rimanere, per un tempo eccessivamente lungo, la deliziosa lasagna sui rebbi della forchetta.

Mi complimentai con la nonna per quell’ottimo pranzo, la strinsi a me e mi accorsi, così facendo, che stava tremando. Era impaurita, intimorita perché la vita senza di te le sarebbe sembrata troppo vuota ed inutile. Salutai tutti i commensali e corsi su nella mia camera dove rimasi a leggere per un po’ qualche passo di un libro preso a caso.

Solo più tardi salii in terrazzo ad ammirare il tramonto mozzafiato che quella tristissima giornata mi stava, in ogni caso, regalando. Il cielo passava senza soluzione di continuità dall’arancione al rosso vivo mentre gli uccelli sembravano rincorrersi e trillavano felici e liberi.

Tu invece eri ancora nel letto e non avevi ancora lasciato quelle lenzuola. Avevo persino pensato di non scendere da te quella sera, per lasciarti riposare ma, proprio mentre stavo riflettendo su ciò, la nonna venne a chiamarmi: tu volevi parlare con me.

Quel giorno avrei ascoltato senza fiatare, perché avevo terminato tutte le parole ed i pensieri che pure sino ad allora mi avevano, a tratto, fatto compagnia. Non immaginavo neanche cosa volessi dirmi, dopo una giornata così faticosamente trascorsa tra le nostre speranze e la cruda realtà, tra le nostre paure ed il tuo stato di salute sempre più malfermo.

27° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La mattina di Pasqua scesi di corsa le scale per venirti a dare il buongiorno: eri già seduto sulla poltrona della camera, in attesa che fosse trasmessa la Santa Messa.

Con dolore ammettesti che quella era la prima volta che non assistevi di persona alla messa di Pasqua e quanto ti piaceva farlo, con tutti i preparativi che concerneva! La nonna si lasciò sfuggire un: “Sarà per l’anno prossimo”.

Io e te ci guardammo, poi ognuno girò la testa verso la parte opposta a quella dell’altro, come a dire che non ci sarebbe stata nessuna altra volta, nessuna altra Pasqua.

La giornata era splendida, il sole caldissimo, era una di quella mattine che tanto ci piacevano, con il cielo spazzato da ogni nuvola, con gli uccelli che, vibrando a mezz’aria, sfrecciavano davanti le finestre di casa per andarsi poi ad appoggiare sugli alberi del giardino. Ma preferii, nonostante l’invitante giornata, rimanere in casa con te, per assistere alla Santa Messa in tua compagnia, mi misi seduta sul tappeto, vicino ai tuoi piedi e per tutto il tempo ti strinsi la mano.

Sembravi sereno, meno addolorato del solito, sentivi caldo, tanto che ti levasti anche il gilet e rimanesti in camicia e calzoni: questo tuo privarti degli abiti superflui offrì al mio sguardo il tuo corpo magro. Nel frattempo erano rientrati tutti dalla messa e dalla passeggiata sul lungomare: ebbero la gradevole sorpresa di vederci uno accanto all’altra, intenti nell’apparecchiare la tavola di Pasqua.

La tovaglia era quella destinata alle occasioni speciali, il servizio era quello di porcellana bianca, immancabile, poi, la bottiglia del vino prodotto da te con l’uva della tua campagna, sistemata al centro della tavola, tra la caraffa dell’acqua ed il cestino del pane che stavo affettando. Eravamo pronti ad andare a tavola quando ci invitasti a disporci in fila lungo il corridoio per celebrare l’usuale rito della benedizione: prendevi una boccettina di vetro trasparente con l’acqua benedetta, un rametto d’olivo distribuito durante la messa della domenica delle Palme e con rapidi gesti della mano cospargevi con quell’acqua, aiutandoti con il rametto d’ulivo, il capo di tua moglie e dei tuoi figli.

A me spettava ricevere quelle gocce di acqua benedetta dalle mani della mamma e di papà, ma esigevo sempre che anche tu, nonno, cospargessi il mio capo. Potevamo, dopo la conclusione del rito, accomodarci a tavola mentre la nonna sistemava nei piatti la prelibata lasagna, della quale tutti chiedevano sempre il bis.

Quella volta gli occhi erano rivolti a te, seguivamo con trepidazione ogni tuo gesto e tu, pur di non deluderci, tentasti di mangiarne un pezzo. Stentavi ad inghiottire quel boccone mentre nervosamente giravi nel vuoto la forchetta che cercava di tagliarne un altro pezzetto. Fu così anche per la pastiera di grano. Tu notasti la nostra preoccupazione ma ci invitasti a godere di questa giornata di festa.

L’uovo di Pasqua fece, al termine della sfilata delle portate, il suo ingresso sulla tavola e proprio in quel preciso istante avrei voluto fuggir via, con le lacrime agli occhi, ad urlare il mio dolore in faccia al mondo che continuava la sua vita, senza sapere nulla di noi, ma rimasi lì, accanto a te, a te che stavi distribuendo a tutti i commensali un pezzo di cioccolata.

26° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Nei giorni precedenti l’ultima Pasqua andammo la nonna ed io a fare la spesa, in ogni negozio nel quale entravamo c’era sempre qualcuno che chiedeva di te, del Cavaliere e così, tra una lode ed un’altra, ti mandavano a salutare. La nonna diventò molto triste e cacciò frettolosamente dalla sua borsa un fazzoletto a quadri bianchi ed arancione. Soffiò energicamente il naso, mentre con l’altra mano si asciugò le lacrime. Mi chiese di riaccompagnarla a casa: la spesa avrei dovuta terminarla io.
Ma cosa ci facevo mai in strada con quel mezzo foglio protocollo a righe sul quale, nonno, eri solito segnare le indicazioni della spesa, cosa avremmo mai dovuto festeggiare? Fui assalita dallo sconforto più profondo, nulla sembrava avere più un significato, poi però, pensai a te, al tuo desiderio di trascorrere una Pasqua in famiglia, tra le persone che più amavi, secondo antichi rituali e allora mi venne il coraggio necessario per entrare nell’alimentari per acquistare il grano e gli ingredienti per la pastiera, oltre alla mozzarella che, strato su strato, avrebbe arricchito la prelibata lasagna.

Rincasai con le buste della spesa che rischiavano di rompersi a causa del peso eccessivo, suonai al citofono e la nonna mi venne incontro.

Era più serena e pensai che fossi stato tu, con le tue solite parole d’incoraggiamento, ad infonderle la necessaria forza per andare avanti.

Tu eri seduto già attorno al tavolo della cucina, respiravi in un modo strano ma tentasti di parlare d’altro, esaltando oltremisura le mie doti improvvisate della “brava massaia” di ritorno dalla spesa. Tirai accuratamente fuori dalle buste di plastica uno ad uno tutto quello che c’era scritto sulla lista. Seguivi con amore ogni mio gesto ed esigevi annusare, toccare, tastare tutto quello che mi avevi chiesto di acquistare per accertarti della qualità, sino a quando mi dicesti che sì, anche quella prova l’avevo egregiamente superata. Fu la volta del grano, delle uova, della farina, della mozzarella per le lasagne.

Al termine di questa carrellata gastronomica tu mi regalasti il tuo battito ritmato delle mani mentre accompagnavi il suono con un: “Brava, brava!”. Aiutai la nonna a sistemare il tutto nel frigorifero mentre seguivi ogni mio gesto con sguardo amorevole. La Pasqua ci attendeva.

25° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Dunque, stava per arrivare la Pasqua e mi dicesti che volevi regalarmi un uovo, come quando ero bambina. Mi chiedesti di conservare per sempre il regalo che avrei trovato all’interno, così come conservavo ancora quello del primo uovo che mi avevi regalato. Ero restia ad accontentarti, mi sembrava sciocco ed inutile ricordarmi di te attraverso una banale sorpresa di Pasqua, poi capii tutto all’improvviso: mi ricordai di quell’anno, quando tu, invece del solito uovo, mi desti del denaro che avrei potuto spendere come meglio credevo.

Ci rimasi molto male quella volta, ma avevo 15 anni ormai e pensasti di farmi cosa gradita. Ti rimproverai allora il fatto di essere passata in secondo ordine rispetto a mia sorella più piccola di me, alla quale avevi già comprato l’uovo, tu quella volta non rispondesti e facesti bene, perché era l’accusa di una ragazza sciocca, accecata dalla gelosia.

Ti limitasti a dire che quello era stato l’unico nostro “litigio” e che non sarebbe mancata occasione di farti perdonare. Ecco quello che mi stavi chiedendo di fare, quell’ultima Pasqua della tua vita: stavi cercando il mio perdono per quell’uovo mancato, dirottato in altre mani.

Non c’era bisogno di quel gesto, nonno, ti avevo già perdonato ma tu rispondesti che dovevo assolutamente scegliere per me un uovo che mi piacesse. Girai un po’ tutti i supermercati ma non era mia intenzione farti spendere molti soldi così scelsi uno di medie dimensioni. Lo portai a casa, mancavano cinque giorni alla Pasqua ma ti chiesi se potevo aprirlo subito, tu annuisti ed io, in preda ad una gioia quasi infantile, cominciai a slegare quei laccetti micidiali che non volevano saperne di staccarsi dall’incarto. Andai allora in cucina a prendere delle forbici, riuscii a togliere tutti quei fiocchi e fiocchetti e, finalmente, prelevai l’uovo di cioccolata dal coloratissimo incarto.

Era grande, lucidissimo, emanava un buon odore che anche tu volesti annusare. Con un colpo netto della mano lo aprii, mentre dei pezzettini di cioccolato volarono sul tavolo della cucina: all’interno c’era un pacchettino di plastica che un minuscolo ciondolo d’argento.

Poi mangiammo un po’ di quella cioccolata, a te piaceva molto, nella credenza della cucina non ne mancava mai un pezzo fondente. Adoravi farla scioglierla sotto al palato, dopo il sonnellino pomeridiano che seguiva il pranzo, ma soprattutto amavi offrirla alle persone che più amavi. Era un modo per dire: “ Seguiamo insieme questo rituale…”. Inoltre avevi brevettato anche un sistema per placare paure o per fermare le lacrime delle donne della tua famiglia: se ci vedevi in difficoltà, era sufficiente che ci porgessi un bicchiere d’acqua fresca accompagnata da un pezzetto di cioccolato ed ecco che il momento di difficoltà sembrava dileguarsi magicamente e scivolare via, dietro quelle mani, dietro quel sorriso che ci spronava a riappropriarci della giusta dose di serenità. Il segreto non stava in quello che ci offrivi, ma nel modo in cui ti avvicinavi a noi, ci accarezzavi la testa e dividevi con noi la cioccolata. È sempre stato il tuo amore a sorreggerci e ad incoraggiarci. Ancora oggi facciamo con la mamma un gioco: quando non sappiamo cosa fare, pensiamo a cosa diresti tu in quel momento e torna il sorriso.