4° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Fu quello l’ultimo nostro Natale, io ti regalai quel piccolo cuscino di lana grigia e bianca che profuma ancora di te.

Fu lo stesso cuscino che portasti con te in ospedale, perché, come dicesti ritornando a casa: “In quell’ambiente freddo, che sollievo poggiare il capo sul cuscino che mi hai regalato tu, mi sembrava di stare nella nostra stanza, vicino alla mia bella bambina”.

Non portasti con te solo il mio regalo ma anche un libro di lettura delle elementari, con tutte quelle storie che toccavano il cuore, che parlavano di difficoltà e di gioie, di giorni tristi e d’estati al mare, io ti dissi che mi sarebbe piaciuto tanto riuscire a scrivere come quegli autori, semplicemente ma tenacemente, tanto da rapire la gente nell’anima e tu mi rispondesti che avrei scritto anch’io così, ci sarei riuscita se solo avessi ascoltato il cuore mentre mi dettava, con la forza dell’amore e la tenacia del ricordo, parole emozionanti, forti e dolci allo stesso momento.

È quello che sto facendo ora, non so se il risultato sarà quello sperato, so soltanto che è il mio cuore a parlare di te, è la mia anima a tirar fuori, come da un vecchio baule pieno di cose care, i ricordi che ho vivi di te, nonno.

Dopo Natale arrivò il 50° anniversario di matrimonio, regalammo a te e alla nonna quel vaso di cristallo e d’argento che tanto ti piacque, mai, però, come il biglietto d’auguri che ti scrissi io di mio pugno e che gelosamente conservasti tra le carte più importanti. Ti piaceva tanto circondarti d’oggetti belli, ricordo, in modo particolare, quel giorno in cui, al rientro dalla passeggiata pomeridiana con la nonna, ci invitasti a scendere giù da te per ammirare la scultura che ritraeva due innamorati scampati ad un naufragio, i quali erano riusciti a togliere in salvo solo se stessi: in mare avevano perso tutto, ed ora erano impauriti ma quell’abbraccio era più forte di qualsiasi privazione da sopportare, quello sguardo che si scambiavano vicendevolmente regalava più calore del fuoco, quelle mani unite e strette l’una nell’altra davano loro il coraggio necessario ad affrontare quella situazione d’emergenza.

Mi sono sentita come un naufrago, nonno, dopo la tua morte, non avevo più nulla con cui coprirmi, i miei piedi erano scalzi, attorno a me disperazione e dolore, poi, però, mi è venuta in mente quella scultura dei due innamorati che ho messo sul tavolo del mio soggiorno, in modo da poterla ammirare sempre e, all’improvviso, mi sono sentita ritornare le forze perché, anche se non potevo stringerti, abbracciarti, percepivo quell’amore che non mi faceva poi sentire tanto sola. Furono un traguardo importante, per te e la nonna quelle nozze d’oro, dicesti che eravamo noi, il miglior regalo che la vita ti avesse fatto, non ci sarebbero stati altresì festeggiamenti o bomboniere con i confetti d’oro, nessuna celebrazione, dunque, ti dichiarasti felice alla sola idea di avere costruito qualcosa e di aver rinsaldato gli affetti più cari, lasciando ad un ognuno di noi una parte di te.

 

3° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Ci trovammo così, quel 24 dicembre del 2000, riuniti all’una a mezza intorno alla tavola apparecchiata, tutto sembrava essere uguale all’anno prima e a quello prima ancora: la nonna aveva preparato gli spaghetti con le vongole, scelte da te come sempre, la frittura era stata acquistata nella pescheria di fiducia, il capitone era quello fresco, di quelli che si vedono arrotolarsi dentro le grandi vasche di plastica, in attesa di esser presi con il retino, ma non poteva certo mancare il baccalà in umido con un sugo leggero di capperi ed olive.

Lo dicevi ogni Natale, sempre, non lo scordavi mai, che il baccalà era preparato per la mamma, ghiotta di questo piatto. E poi, ancora, nel ricco menù, cavolfiori, insalata mista, vino della casa e, immancabile, lo spumante che versavi nei bicchieri di tutti… ricordi nonno, poi ne lasciavi un po’ per noi, lo facevi scivolare giù nel mio e poi nel tuo bicchiere, e guardandoci negli occhi dicevi: “Quello che rimane, lo conserviamo per domani a pranzo”. Dunque, tornando a quel Natale del 2000, tutto sembrava essere uguale a quelli passati, ma sentii qualcosa dentro di me quando mi sedetti, come facevo da anni ormai, vicino a te: un freddo dentro, un brivido lungo la schiena e mentre ti vedevo intento nell’eseguire il rituale dell’assegnazione dei posti, nel presentare le portate ad una ad una, mi sembravi già più lontano, come se la morte cominciasse a prendere un po’ di te.

Mangiai per tutto il tempo con la mano appoggiata sulla tua… percepii quasi che quello sarebbe stato l’ultimo Natale e quella, l’ultima volta che mi avresti detto: “Alessandra, la mia bella bambina, seduta qui, vicino a me, vicino al nonno”.

I posti li assegnavi tu, degli anni rimanevano invariati, degli anni cambiavano, io, te lo dico solo adesso, ogni festa comandata che Dio ci ha fatto trascorrere assieme, speravo sempre che tu mi dicessi che il mio posto era alla tua destra, nell’angolo della cucina, vicino alla finestra, era quello più scomodo, certo, ma vicino a me c’eri tu ed il resto non contava niente, non importava se dovevo stare seduta per l’intero pranzo con una gamba attorno ad un tavolo e con l’altra attorno a quello di riserva, più alto di quello lungo che da anni troneggiava in cucina. Se ricordi bene, nonno, mentre tutti entravano nella stanza e chiedevano dove potersi mettere a sedere, io aspettavo che tu decidessi dove volevi che mi mettessi seduta io e rimanevo fuori dalla porta, con le braccia incrociate, la testa reclinata in attesa che tu, come un principe azzurro, allargassi le braccia, mi sorridessi, e mi dicessi che, anche quella volta, mi volevi vicino a te.

 

2° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Penso spesso a quel Natale, nonno, l’ultimo trascorso insieme, mangiasti poco quella volta e decidesti persino di anticipare il tradizionale cenone al quale tenevi tanto, all’ora di pranzo. Capii che qualcosa non andava appena la nonna ci comunicò quest’inusuale notizia, io corsi allora giù per le scale, con il cuore in gola, e mi precipitai verso di te: avevi poggiato i gomiti sul grande tavolo della cucina, intrisa di frittura e di cavolfiori messi a lessare, il viso lo tenevi tra il palmo delle mani, lo sguardo fissava il grande pino che dominava da fuori tutto l’ambiente circostante, gli occhi erano umidi e quella giacca da camera bordeaux, che solevi portare in inverno, quella mattina mi sembrò l’abito di un malato.

Spalancai la porta, non mi dicesti, come facevi sempre quando la nonna stava preparando il pranzo: “Chiudila, chiudila in fretta, altrimenti va l’odore del cibo cucinato per tutta casa”.

Ti girasti soltanto verso di me, mi sorridesti come solo tu sapevi fare, con quella dolcezza di un uomo forte e con la profondità di un uomo buono, ed esclamasti: “Bella bambina! Che cosa hai?”.

Io non ce la feci proprio a dire, come avrei voluto fare: “Non morire, ti prego nonno, non morire, ci sono tante cose ancora da fare, tante cose da vedere, non mi lasciare, non farmi mancare quei tuoi occhi con le pagliuzze d’oro, quelle mani grandi che tante volte ho misurato con le mie, quella risata trattenuta appena, mentre porti la mano davanti alla bocca, fammi sentire per cent’anni ancora il tuo passo andare su e giù per la casa, lasciami ammirare la tua inconfondibile camminata e la scrittura da letterato, non mi lasciare, non mi lasciare “.

Non dissi niente di tutto questo perché, se avessi veramente detto quelle parole, avresti sofferto per me, che già mi sentivo dilaniare dal dolore. Spalancai la porta, dunque, e ti dissi: “Bella idea, nonno, anticipare il cenone all’ora di pranzo, almeno abbiamo il tempo di digerire, sai… la sera è meglio star leggeri!”. Ecco cosa fa fare l’amore, fa buttare lì un po’ di sciocchezze ed ovvietà scontate pur di non ferire la persona alla quale si tiene così tanto, ma la cosa buffa è che anche tu mi rispondesti a tono: “L’avessimo fatto anni addietro a consumare il cenone a pranzo!”.

Ed io conclusi questo dialogo con una battuta stiracchiata: “E magari chiamarlo pranzone della vigilia!”. Ne avevo fatte di battute migliori ma, scusami, nonno, quel giorno era l’unica che potesse uscire dalla mia bocca.

 

 

1° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Oggi scrivo di te.

Di te e del nostro amore, non consacrato davanti ad un altare con la benedizione di Dio, non regolato dalle leggi civili, ma scandito dai battiti del nostro cuore, incontratisi, per la prima volta, il giorno della mia nascita e suggellato dall’affinità delle nostre anime. Sono stata la tua prima nipote, sono stata l’ultima persona che hai visto prima di lasciare la vita terrena, a me hai stretto la mano baciandola, facendomi promettere che neanche la morte, oramai prossima, ci avrebbe diviso.
La gente mi fermò per strada, appena lessero il tuo nome sui muri della città, chiedendomi: “Era tuo nonno?”.

Io risposi: “È mio nonno”. Patrizio mi disse, per telefono, che la tua assenza su questa terra non avrebbe potuto cancellare mai quel legame così forte, che saresti rimasto mio nonno per sempre, che le anime rimangono unite per l’eternità. Piansi ininterrottamente mentre Patrizio mi diceva tutto ciò, ma fu proprio in quel momento che sentii di essere stata chiamata a gestire un’assenza così pesante come quella che mi avevi lasciato tu, nonno.

Mi vennero in mente tante immagini felici, ricordai le nostre chiacchierate, le lezioni di latino, la correzione dei compiti, le poesie ripetute all’unisono, i libri letti e commentati assieme, ma anche le volte in cui mi portavi con te nell’orto e m’insegnavi i segreti del contadino. Pensai a te, e più le immagini riaffioravano alla mente, più il dolore mi toglieva il fiato. Pensai a te ma non scrissi mai di te.

Oggi, invece, scrivo di te, nonno.

Perché il dolore s’impara a gestirlo, perché il tempo regala un’immagine diversa delle persone che non ci sono più, perché il ricordo non fa più male, anzi, diventa un sollievo per l’anima.

Oggi scrivo di te, di te e di me, una storia un po’ speciale di un nonno e di una nipote che di notte ancora sogna di incontrarti ma che si sveglia di mattino con le lacrime agli occhi, nella piena consapevolezza che non ci sei più in quella casa, seduto sulla poltrona dello studio o a sonnecchiare sul divano, in cucina a scegliere il riso o in camera a sistemare le cravatte nell’armadio, chinato sulla scrivania dello studio a rilegare un tuo vecchio libro o a riordinare le carte: c’è un’assenza tanto forte quanto forte è stata la tua presenza.

Non sono riuscita ad entrare in cantina per mesi, perché lì c’erano le tue botti e le bottiglie verdi con l’anno scritto da te a mano, in giardino non si sentivano più i tuoi passi, mentre quel suono ritmico delle cesoie si era smorzato per sempre, eppure tutto è rimasto lì, ci sono ancora le calle lungo il viale, mente il petto d’angelo sta mettendo le prime foglie proprio come sta facendo in questi giorni l’ortensia.

Oggi ho capito ciò che volevi dirmi con la carezza regalatami quel giorno d’aprile, quando lessi nei tuoi occhi la consapevolezza che stavi per morire, quando capii, dal tuo sguardo addolorato, che stavi leggendo nel mio, il dolore e la disperazione che di lì a poco avrei provato, lasciandoti per sempre. Mi dicesti: “Se scriverai di noi, allora nulla andrà perduto, ed io sarò felice e riuscirò a farti giungere un mio sorriso, una mia carezza. Mi prometti che farai tutto ciò?”. Io non dissi nulla, mi limitai a scuotere la testa, quasi a scacciare indietro l’idea che tu potessi morire, che non ti avrei più dato il buongiorno, affacciandomi di mattino dalla finestra mentre facevi colazione sulla panchina dalle piccole piastrelle blu, che non ti avrei più raccontato le mie giornate, che non avrei più rivisto i tuoi occhi, sempre pronti a cercare i miei, in qualsiasi occasione. Ingenuamente pensavo che, se non ti avessi fatto quella promessa, tu non saresti morto, oppure avresti aspettato che le facessi, prima di lasciare questa terra.

Ho atteso l’ultimo tuo respiro per rassicurarti che sì, sarei rimasta qui, a prendermi cura di quello che più amavi.

Ho pensato a te, sempre, ma solo oggi scrivo di te, perché voglio mantenere la promessa che un giorno avrei scritto di noi, di te e di me.