Quando i libri diventano strumenti di inclusione: il grande successo della mostra “Vietato Non Sfogliare” organizzata da Area onlus presso l’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova

In un mondo dove il cartaceo sembra perdere il suo fascino, specie per i più giovani, scrivere di iniziative come la mostra “Vietato Non Sfogliare”, organizzata dall’associazione Area onlus di Torino (www.areato.org) e che si è tenuta presso l’Ospedale Gaslini di Genova, fa ben sperare.

L’aspetto più importante di questa mostra itinerante, che dal 2011 sta girando sia per le scuole e le biblioteche piemontesi sia fuori regione, è stato quello di evidenziare quanto possano fare concretamente i libri per i bambini affetti da varie forme di disabilità. “Vietato Non Sfogliare– dichiara Elena Corniglia, referente del suddetto progetto- è un percorso espositivo all’interno del quale sono ospitati circa 120  volumi, nazionali ed internazionali. I testi, con i quali sono entrati in contatto i piccoli degenti e i visitatori della mostra, sono accomunati dal fatto di essere accessibili anche per chi ha bisogni di lettura speciali, poiché sono volumi multicodice. Si tratta di libri tattili, libri in simboli (CAA), libri in Lingua dei Segni Italiana, audiolibri, libri digitali e libri ad alta leggibilità, libri senza parole, quindi testi che presentano una pluralità di linguaggi, fruibili con tutti i cinque sensi. La mostra itinerante, che viene aggiornata di anno in anno, ha preso parte anche al Salone del Libro di Torino, in cui è presente dal 2013”

Le caratteristiche casette della mostra itinerante “Vietato Non Sfogliare” (per gentile concessione di Area onlus di Torino)

Rossella Bo, psicoterapeuta e Consigliere Delegato di Area Onlus, sottolinea la grande importanza che ad accogliere la loro mostra sia stato un Ospedale Pediatrico come il GasliniLa trasferta genovese di Vietato Non Sfogliare è stata realizzata grazie al sostegno di YARPA Investimenti, che ancora ringraziamo  per aver fortemente voluto l’incontro tra la nostra Associazione e il Gaslini, due realtà che hanno  dimensioni ben diverse, ma che sono accomunate dall’intento di prendersi cura a 360 gradi e con la massima professionalità del benessere dei bambini. Con grande soddisfazione abbiamo realizzato questo primo passo, in verità un grande traguardo per noi, ovvero quello di portare in un centro di eccellenza medica libri che garantiscano a tutti i piccoli lettori, nessuno escluso, il diritto alla lettura e all’immaginazione, certi del valore, anche terapeutico, che le storie possono avere per loro. Da notare che alla mostra itinerante è collegato un catalogo online (https://dito.areato.org/ricerca_libri/) in cui si possono  trovare indicazioni e caratteristiche di oltre 600 libri pensati e realizzati per bambini con disabilità e con  difficoltà di apprendimento”.

Un angolo di una precedente mostra (foto per gentile concessione di Area onlus di Torino)

I libri della mostra sono contenuti in espositori a forma di casette, a simboleggiare l’accoglienza verso i piccoli lettori, cui sono offerte, attraverso linguaggi differenti, esperienze concrete di scambio e di inclusione.

Il Dottor Paolo Moretti, primario dell’UOC Medicina Fisica e Riabilitazione dell’Ospedale Gaslini, così si espresso in merito alla mia domanda su cosa abbia rappresentato l’evento  per i bambini che vi hanno preso parte: “La mostra “Vietato non sfogliare” per la cui presenza al Gaslini ringraziamo l’Associazione Area di Torino ed in particolare la presidente Gianna Recchi e la dott.ssa Rossella Bo, ha rappresentato per i bambini che hanno avuto l’opportunità di partecipare, una straordinaria occasione per comprendere come i libri e la “lettura” possano trasformarsi in esperienze diverse da vivere veramente con tutti i sensi e in tutti i sensi.  Leggere, sfogliare, giocare, apprendere, comunicare, esplorare, interagire con le parole, con i simboli, con il tatto, con le immagini liberamente o accompagnati dai laboratori e dalle attività organizzate: tutto ciò  ha coinvolto i bambini ed i loro accompagnatori che si sono sentiti accolti e guidati attraverso le casette raccoglitori in un percorso pieno di sorprese”

La mostra “Vietato Non Sfogliare” allestita all’Ospedale Gaslini di Genova ( per gentile concessione del Laboratorio Fotografico del Gaslini di Genova)

La  mostra è stata  fruibile anche dai visitatori esterni, come sottolinea il Dottor Moretti “ La presenza di visitatori esterni è stata costante anche se non preponderante. Bimbi e famiglie in visita o in ospedale solo per poche ore per brevi accertamenti   hanno avuto l’opportunità di incontrare bimbi “ospedalizzati” e conoscere e confrontarsi con la disabilità e con situazioni difficili così diverse dal loro mondo di tutti i giorni. Insegnanti ed operatori hanno apprezzato la possibilità di avere un quadro ben organizzato e completo dell’editoria accessibile per l’infanzia e trarre così spunti per le loro attività con i bambini”

 

 

 

Le casette della mostra al Gaslini (per gentile concessione del Laboratorio Fotografico del Gaslini di Gemova)

Il ricovero in ospedale è sempre un momento molto delicato, ancor più se il degente è un bambino, quindi iniziative come “Vietato Non Sfogliare” rivestono sicuramente un alto valore simbolico come conferma il Dottor Moretti : Il soggiorno in ospedale per un bambino rappresenta spesso un momento di apprensione, di disagio, di paure e per i familiari un momento di ansia e difficoltà. Iniziative come queste all’interno dell’ospedale rappresentano un’occasione di scambio ed incontro, incontro con altri bimbi e famiglie che stanno vivendo un’esperienza di malattia, di difficoltà. In particolare un’iniziativa di questo tipo li può aiutare a raccontare, immaginare costruire storie, storie di altri, la propria storia ed ad esprimere, liberare così sentimenti ed emozioni. Per altri bimbi ricoverati può rappresentare anche una semplice occasione di svago ed intrattenimento. Comunque l’iniziativa ha avuto un grande successo e abbiamo già richieste dalle famiglie e dagli operatori perché possa diventare un appuntamento fisso da replicare”

Alessandra Fiorilli

Maurizio Marinella ci racconta la storia della sua famiglia e di quel marchio noto in tutto il mondo. Dalla Riviera di Chiaia, dove tutto è iniziato nel 1914, al MOMA di New York che ha celebrato la loro celebre cravatta.

 

Intervistare Maurizio Marinella, erede e titolare dell’omonima ditta napoletana nota in tutto il mondo per le sue cravatte, è stato per me un onore e un momento di grande arricchimento, perché non è poi così scontato trovare un GRANDE uomo dietro ad un GRANDE nome che ha fatto la storia di Napoli e dell’Italia, per arrivare in tutto il mondo, MOMA di New York compreso.

Maurizio Marinella (Foto per gentile concessione della ditta E.Marinella)

Maurizio racconta la storia della sua famiglia: Nonno Eugenio nel 1914 decise di andare in Inghilterra, patria dell’eleganza maschile, come la Francia lo era per quella femminile. E dal Regno Unito cominciò ad importare grandi marche ma, accanto a queste, affiancò anche una bottega artigianale dalla quale nacque la prima cravatta Marinella, simbolo della maestria artigiana. In questa nostra avventura fummo fortunati perché avevamo grandi tagliatrici e grandi stiratrici. Non dimentichiamo che a quel tempo le camicie, con i loro colli e polsini inamidati, dovevano essere stirate quasi da bagnate per evitare l’irrigidimento del tessuto”.

Alcune delle famose cravatte Marinella (Foto per gentile concessione della ditta E. Marinella)

La famiglia Marinella, che ha attraversato più di un secolo di storia, usa ancora solo sete inglesi: Sete a 36 once, quindi particolarmente consistenti, sete stampate in Inghilterra a Mansfield, vicino Manchester, e della cui stamperia la mia famiglia ha poi acquistato una quota. La stampa viene realizzata a mano, non in digitale, in modo da offrire colori caldi e riposanti”, dichiara Maurizio Marinella al quale chiedo come nasca la loro famosissima cravatta Marinella: “E’ realizzata a mano su misura, e questo ci ha permesso di crearne di diverse: da quella per Magic Johnson per il quale abbiamo usato la quantità di seta che occorre per tre cravatte, a quella per Kohl e per Eltsin per il quale ne abbiamo realizzata una di 35 cm, vista la sua altezza”.

Una fase della lavorazione a mano di una cravatta Marinella (Foto per gentile concessione della ditta E. Marinella)

Campioni dello sport, uomini politici, Sarkozy, Chirac, Gorbaciov, Carlo d’Inghilterra, per il quale sua moglie   Camilla, due  anni fa, è venuta personalmente a sceglie cravatte per lui”, ma anche Tutti i Presidenti degli Stati Uniti d’America, da Kennedy in poi e tutti i Capi di Stato italiani hanno indossato una cravatta Marinella” e il successo e il riconoscimento mondiale avrebbe inorgoglito nonno Eugenio, il quale affermava: “La vera moda è l’accessorio, non l’abito”.

L’ex Presidente della Repubblica Italiana, Francesco Cossiga, in visita alla storica bottega sulla Riviera di Chiaia, dove ad accoglierlo c’è Maurizio Marinella, a sinistra nella foto (Foto per gentile concessione della ditta E.Marinella)

Da un secolo l’ambita cravatta Marinella segue le stessi fasi: “Il taglio e la preparazione, che può essere semplice, sfoderata a cinque o a sette pieghe, così da venire incontro alle diverse esigenze del cliente”.

Un altro momento della lavorazione di una cravatta (Foto per gentile concessione della ditta E. Marinella)

E il cliente è importante per i Marinella, come svela Maurizio: “La nostra maggiore soddisfazione è di esaudire le sue richieste, a noi piace accoglierlo, coccolarlo, perché dopo aver indossato una nostra cravatta si deve star bene, la si deve riconoscere: ed è per questo che ogni cravatta nasce da esigenze ben precise”.

Questa “filosofia” è alla base di una scelta, quasi controcorrente ai tempi di oggi: di non vendere online i propri prodotti: “Siamo felicemente poco tecnologicidichiara Maurizio, il quale aggiunge– non ci entusiasma che si possa premere un pulsantino, fare un click e poi attendere che la cravatta arrivi a casa… noi ci dobbiamo emozionare…”.

E Maurizio si emoziona, si emoziona quando, puntuale, senza nemmeno un minuto di ritardo, va ad aprire il suo negozio sulla Riviera di Chiaia a Napoli :“Alle 6.30 del mattino, tutti i giorni, Qualcuno mi dice “ma che to fà fa” (ma chi te lo fa fare n.d.r.) …invece a “farmelo fare” è quella correttezza per il cliente che da 105 anni ci trova sempre pronto ad accoglierlo, sin dalle prime luci del mattino, offrendogli, magari, anche un buon caffè e una sfogliatella napoletana”.

L’ingresso della storica bottega sulla Riviera di Chiaia (Foto per gentile concessione della ditta E. Marinella)

L’aspetto che più mi colpisce, parlando con Maurizio Marinella, è questo suo legame viscerale, unico, che ha proprio con la sua città, non è un caso come, nonostante abbia punti vendita a anche a Roma, a Milano e persino a  Tokio, quella bottega artigianale di appena 20 metri quadri: “Che così è rimasta e non può essere in alcun modo ingrandita perché siamo sotto la tutela dei Beni Culturali, rappresenta mio nonno, mio padre, due guerre mondiali, i sacrifici, la fame, il dolore di quando Napoli ha trasmesso immagini di quella spazzatura  che hanno azzerato turismo e commercio”.

Napoli è dove tutto ha avuto inizio, Napoli sono gli affetti, è il cuore che batte dalla gioia, ogni mattino, Napoli è quell’esplosione di emozioni che non provo in altri posti, nonostante siano stati realizzati a immagine e somiglianza della bottega sulla Riviera di Chiaia”

M’incanto nel sentire parlare Maurizio, il quale mi conferma quello che si avverte in ogni sua singola parola: “In un secolo non è cambiato nulla, l’emozione e l’entusiasmo sono sempre gli stessi, a cambiare, invece, sono state le persone: ora sanno meno quello che vogliono, perché si ci affida, purtroppo e sempre più spesso, ad altri, anche se poi non hanno le competenze giuste per esprimere un parere. E poi, in determinate occasioni, l’eleganza è d’obbligo: non si può andare al Teatro “San Carlo” con il jeans strappato…”

E così Maurizio presenta al suo cliente la cravatta, anche se: “Non deve esserci la vendita a tutti i costi…dico sempre che non sono un commerciante nel senso stretto della parola, perché, se non sono convinto io, se a me non piace, se non mi emoziono, non riesco a consigliare, e questo perché vivo di passione”.

La stessa passione che fa del negozio Marinella uno scrigno prezioso di alto artigianato e sartoria che produce ogni giorno, in media 150 cravatte, le quali  riportano sulla cimosa “EXPRESSED PRINTED FOR MARINELLA”.

Il marchio che viene apposto sulla cravatta realizzata a mano (Foto per gentile concessione della ditta E. Marinella)

E nonostante Marinella non sia solo cravatte, “Ma anche sciarpe, foulard,  maglioni, gemelli, pullover, cinture, pelletteria”, come dichiara Maurizio, è per questo accessorio che sono arrivati, due anni fa, fino al MOMA di New York:Un’emozione incredibile– ci racconta Maurizio- Siamo stati scelti, unica azienda italiana, a rappresentare, con la nostra cravatta, i 100 oggetti di moda maggiormente rappresentativi degli ultimi 100 anni. Un grandissimo orgoglio”.

Da sinistra: Alessandro, quarta generazione dei Marinella e suo padre Maurizio (Foto per gentile concessione della ditta E. Marinella)

Un successo mondiale, dunque, “Indubbiamente una grande emozione, ma mai come quella di far parlare di una bella Napoli. Ricordo che, quando mio nonno morì, mio padre mi disse che avremmo dovuto far capire come le cose si sarebbero potute fare bene partendo da Napoli, ma soprattutto restando a Napoli”.

E così è stato, perché i Marinella hanno portato il nome della loro città in tutto il mondo, anche se il loro mondo è sempre Napoli, in particolare Piazza Vittoria: “Quando mi chiedono se sono nato a Napoli, io rispondo che sono nato a Piazza Vittoria. Da qui è partito tutto e da qui mi piacerebbe che partisse un messaggio di positività. Sentiamo sempre più spesso, purtroppo, parlare alla tv di crisi, di difficoltà, di un Sud massacrato e senza lavoro, di ragazzi intristiti e demoralizzati…invece io voglio trasmettere positività, ci tengo a dire che l’ impegno non è una croce, ma un investimento sulla persona. Una voce di speranza:  anche a Napoli si può fare”.

Un altro cliente d’eccezione: il Principe Alberto di Monaco e, a sinistra nella foto, Maurizio Marinella (Foto per gentile concessione della ditta E.Marinella)

Terminata l’ intervista,  ho gli occhi umidi dall’emozione perché Maurizio Marinella non è solo un imprenditore di successo, ma è un uomo di cuore, di slanci vitali, è il simbolo di una bella Italia, di una bella Napoli, tutta cuore, passione, entusiasmo, emozioni, amore per le proprie radici e per le tradizioni di una famiglia volitiva, che ha fatto dell’impegno quotidiano il suo biglietto da visita esportato in tutto il mondo.

Alessandra Fiorilli

 

 

“Di nuovo, la mia vita…”: la testimonianza di Chiara

 

Mi ha contattato: “Buongiorno, sono Chiara. Vorrei raccontare la mia esperienza…o meglio le mie emozioni…quello che si prova dopo che ci si riappropria della vita, dopo che arriva quell’esito negativo tanto sperato…dopo che si riprende tutto con una nuova carica di entusiasmo”.

Un’Immagine simbolo di quello che Chiara non ha apprezzato per tanto tempo: una splendida giornata di sole, quella che tante volte lei non aveva apprezzato ( Foto di Lorenza Fiorilli)

E così ho ascoltato la storia di Chiara, la quale mi ha chiesto di scriverla come un breve racconto: è quello che ho fatto.

Chiara: una vita tra famiglia e lavoro, impegni quotidiani, il traffico in città, qualche chilo di troppo che fa tirare i jeans sulla pancia, la ruga ai lati della bocca e quel colorito che non è più quello dei venti anni…

E poi un giorno, un giorno come tanti…e Chiara che, invece di recarsi al lavoro, va dal medico: un controllo di routine.

Entra nella stanza dello specialista, spiega il motivo del controllo:” Nessun sintomo e nessuna familiarità”.

Fa quello che il medico le dice di fare nella semioscurità della stanza.

Quel gel freddo procura a Chiara quasi una vertigine…

Il medico è in silenzio, non dice nulla, è lei che chiede se va tutto bene.

“C’è un nodulo…non è molto grande…le dico tutto terminata l’ecografia”.

Chiara è lì, sdraiata sul lettino e mentre sta fissando il soffitto di quella stanza, ripensa ai giorni precedenti: ai jeans che tiravano sulla pancia, alla scoperta di quella ruga ai lati della bocca, al colorito che non è più quello dei venti anni…ma pensa anche ai viaggi mancati, a tutto quello che non appezzava da troppo tempo, come quel sole splendente che l’aveva accompagnata sino allo studio medico, quel mattino, e che l’avrebbe accolta quando sarebbe uscita da lì.

 

“Può rivestirsi”, le dice il medico e quella camicia bianca le sembra già l’abito di un malato.

Lo specialista le spiega tutto in maniera accurata tutto e fissa un appuntamento per un ago aspirato “Solo questo potrà dirci se il nodulo è maligno o benigno. Purtroppo ha delle caratteristiche che non ne escludono la malignità, anche se ce ne sono altre che potrebbero suggerire la benignità”.

Intanto il marito la chiama per telefono: “Chiara, tutto bene?”

“Ne parliamo a casa” risponde lei…lei che intanto si rimette nel traffico…lei che piange per tutto quello che non ha visto in quegli anni, che ha dato per scontato.

La notte non dormirà, la notte sarà affollata di interrogativi…

Il giorno dopo, al lavoro, non è più lei: non parla con nessuno e avrebbe solo voglia di piangere, quello che farà nei giorni successivi, sino a quell’ago aspirato, quando, sdraiata sul lettino dell’ambulatorio, le sembrerà che quell’ago le stia aspirando anche un po’ di sé, e di quella vita che non ha apprezzato a sufficienza.

I giorni che la separano dalla risposta del referto sembrano procedere così lenti, così lenti, così lenti…

Poi quella risposta e la vita cambia, di nuovo, forse per sempre: “Negativo”.

Il sole che splende sul mare: il simbolo della rinascita di Chiara (Foto di Lorenza Fiorilli)

Chiara esce dall’ambulatorio sventolando quel referto in aria, con  i jeans che le tirano sulla pancia, con la ruga ai lati della bocca, con quel colorito che, però,  oggi è diverso, perché Chiara è rinata: non ha più 39 anni oggi, ne ha 13, al massimo 14…e una vita, nuova, davanti.

Alessandra Fiorilli

Quando il bullismo non aveva questo nome: la storia di Franca

 

“Un istante, un solo istante e la vita vira, modifica la sua rotta. Tutto cambia…specie per chi rimane e deve continuare. E così diventai, un mattino di settembre, orfana di padre a causa di un incidente sul lavoro. Mia madre dovette andare a servizio e mi ritrovai a dover accudire i miei due fratelli più piccoli. Io ero la più grande…ma avevo appena dieci anni…dieci anni ed ero diventata la capofamiglia: pulivo casa, preparavo il pranzo e la cena, lavavo i panni di tutti”.

Ancora tanto il dolore nelle parole di Franca, oggi donna di 50 anni, madre di tre figli e prossima a diventare nonna.

Quello che è successo durante la sua infanzia, ce lo racconta lei stessa, davanti ad un ottimo ciambellone.

Frequentavo la quinta elementare quando mio padre morì e, oltre al dolore, allo sconcerto, arrivarono anche le difficoltà economiche. I miei genitori stavano costruendo una casetta in campagna, dove ci saremmo trasferiti l’anno successivo ma, con la scomparsa di papà, dovemmo bloccare tutto. Fummo persino costretti a lasciare l’appartamento dove eravamo in affitto per andare in un sottoscala umido e dal quale vedevamo soltanto le scarpe delle persone che passavano in strada”.

Non furono le privazioni e le restrizioni ad abbattere Franca, quanto quello che dovette sopportare a scuola.

Cominciarono a farmi pesare le mie scarpe vecchie, il fatto che non avevo più un diario, perché tutto, in quel momento, anche pochi spicci, facevano la differenza tra mangiare o restare digiuni. Meno che mai potevo acquistare gli album delle figurine che tanto andavano di moda in quegli anni. E la mia merenda non era più il pezzo di pizza rossa acquistata al forno vicino scuola, ma una fettina di pane con un formaggino. Fu così che i miei compagni di classe cominciarono a farmi sentire diversa, a prendermi di mira, a chiamarmi “la pezzentella”. Nessuno più voleva venire a casa mia, anche se io, di tempo da dedicare alle compagne di classe, ne avevo sempre pochissimo”.

Un disegno di Franca realizzato in quinta elementare: un albero con choime di fuoco viola, un sole nero, delle nuvole blu, dei lampi e quella casa sbiadita, disegnata e cancellata più volte…

Quando un giorno l’insegnante formò i gruppi per la consegna di un cartellone di geografia, nessuno la volle nel proprio, adducendo il fatto che i suoi abiti puzzassero di chiuso.

“Nessuno voleva sedersi accanto a me al banco, nonostante l’amorevole intervento della maestra la quale decise, un giorno, di  farmi mettere vicino alla cattedra  con banchetto singolo,  ma questo non migliorò la situazione, tanto che i miei compagni si divertivano, appena l’insegnante si voltava per scrivere alla lavagna, a lanciarmi, con la biro di plastica, dei pezzetti di carta. Fu  un anno durissimo, e di questo non potevo ovviamente parlare con mia madre, già oberata di lavori pesanti e sfiancanti”.

Poi le cose lentamente migliorarono quando i nonni materni decisero, l’anno successivo all’incidente, di trasferirsi da loro, riuscendo a finire anche i lavori di quella casa tanto agognata; nel frattempo, la madre ottenne un lavoro fisso da operaia in fabbrica.

“Eppure, ancora oggi sento addosso  quel disprezzo che mi vomitavano addosso tutti i giorni i miei compagni di classe. Era bullismo… anche se all’epoca non aveva questo nome. E quando oggi leggo storie di bambini vittime dei bulli mi sento impotente e triste, perché sono cose che rimangono impresse a fuoco nell’anima, per sempre”.

Franca ha parlato per tutto il tempo con la voce rotta da dolore antico eppur presente, stringendo le mani, una nell’altra, in maniera ritmica. E, nonostante  oggi la sua casa sia piena di luce, con un bel terrazzo pieno di piante che cura lei personalmente, e nonostante i tre figli e il nipotino che arriverà tra breve, dentro di sé quelle ferite, di quando per gli altri era “la pezzentella”,  urlano ancora nella notte dei ricordi con la loro voce stridula, sgradevole, perché dal bullismo non si guarisce mai completamente, perché il passato torna, anche se a chiamarlo è un minuscolo, impercettibile dettaglio.

Alessandra Fiorilli

 

 

La Pasqua in Sicilia: a Ragusa arrivano in tavola le Cassatedde e la Scaccia

 

Senza passato, il futuro è una nebulosa dai contorni sfocati. Senza tradizioni, chi ci ha preceduto nel percorso della vita terrena, scompare nel susseguirsi di giorni privi, ormai, di radici.

E’ per questo che, quando nel corso delle mie interviste, antichi usi e consuetudini, ma anche gesti carichi di una profonda valenza, non solo emergono, ma assumono fattezze di una quotidianità ancora semplice, sono lieta di parlarne.

E’ quello che accade ancora in Sicilia, ad Ispica, in provincia di Ragusa, dove vive la signora Giusy, la quale, insieme alla sua famiglia d’origine e alla sue figlie, onora la Pasqua di Resurrezione preparando rigorosamente in casa, due tipici piatti di questa Festività che accompagna l’inizio della Primavera: le “Cassatedde Ragusane”, o cassatine di ricotta, e la Scaccia.

Le Cassatine di ricotta appena sfornate dalla Signora Giusy

“Le cassatine di ricotta, da noi conosciute con il loro nome tipico di Cassatedde  ragusane– racconta Giusynascono proprio da un’antica tradizione pasquale, anche se oggi possiamo trovarle in ogni periodo dell’anno. Questi dolci noi li prepariamo tra il Giovedì e il Sabato Santo e li portiamo in tavola sia il giorno di Pasqua che quello di Pasquetta. La preparazione è semplice: la pasta viene divisa in panetti che vengono stesi e dai quali si ricavano, con un coppapasta, dei cerchi i cui margini vengono rialzati. All’interno si versa un ripieno a base di ricotta, uova, zucchero, cannella e gocce di cioccolato.   Una volta sfornate, sono una delizia per gli occhi e per il palato”.

Particolare delle famose “Cassatedde Ragusane”

Ciascuna  provincia siciliana ha le proprie Cassatedde: “E se a Ragusa si preparano come dei piccoli cestini di pasta  ripieni di ricotta, a Trapani e a Palermo differiscono per forma e per ripieno. Qui in Sicilia ci sono forti tradizioni locali strettamente legate alla provincia di appartenenza”.

Mentre le “Cassetedde” sono tra i dolci più consumati e graditi, lo scettro del rustico pasquale spetta alla Scaccia ragusana.

La Scaccia preparata dalla Signora  Giusy

La scaccia era rigorosamente preparata in casa, dove, chi aveva la fortuna di possedere un forno a pietra, lo metteva a disposizione anche delle altre famiglie. L’uso del forno serviva durante l’anno anche per  il pane, elemento principe di un’alimentazione comunque povera e legata soprattutto alla terra. Oggi i  tradizionali forni a pietra li si trovano soprattutto nelle case di campagne, ma non pochi, compresa la mia famiglia, continuano la tradizione-racconta Giusy, la quale aggiunge- “La scaccia ragusana è sinonimo di casa, di quando un tempo, prima delle festività, ci si riuniva tra famiglie e se ne preparavano in grande quantità, anche perché sarebbero state le protagoniste della Pasquetta: la Scaccia come torta rustica, le cassatine di ricotta  come dolce e davvero non avevi bisogno più di nulla per la scampagnata del Lunedì in Albis”.

…di nuovo la tipica Scaccia…

La tradizionale Scaccia ragusana è una sorta di pizza-pane preparata con farina di semola di grano duro, lievito di birra e sale. Impastato il tutto e una volta fatta crescere, la si lavora nuovamente aggiungendo dell’olio extra vergine di oliva, la si divide  in tanti panetti che vengono spianati. Poi si comincia a preparare il ripieno: la ricetta vuole che ci sia, al suo interno,  la ricotta, le cipolline, l’uomo sbattuto e il formaggio. Il composto viene poi messo nella sfoglia di pasta e arrotolato sui bordi. Dopo aver passato sulla superficie un po’ d’olio, sono pronte per essere infornate per circa mezz’ora.

…e un suo particolare…

E se anche la Scaccia, così come le cassatine di ricotta,  sempre più di frequente la si prepara e la si trova durante tutto l’anno, quando la si mangia insieme alla propria famiglia, riunita  in occasione della Pasqua, allora sì che ha tutto un altro sapore…

Alessandra Fiorilli

Mariangela De Lucia: modella curvy per un giorno a Milano per affermare un canone di bellezza fuori dai soliti standard

 

“Seguivo già su Instagram due modelle curvy: l’americana Ashley Graham e l’italiana Laura Brioschi. Un giorno, data la mia corporatura, ho deciso di partecipare ad un casting  per modelle curvy,  e così, ho inviato le tre foto richieste: una in primo piano, le altre a mezzobusto e a figura intera. Speravo tanto di poter superare la selezione, ma non credevo di poter arrivare sino a Milano”.

Mariangela De Lucia

Invece Mariangela De Lucia, ragazza di 23 anni, residente a Nettuno (RM), a Piazza Duomo ha realizzato il suo sogno…che poi è un sogno nato da lontano, da quel giorno in cui: “Per difendere una mia compagna di classe delle Superiori da un bullo, ne sono diventata la vittima prescelta. Ho trascorso anni molto difficili, durante i quali ho pensato persino di lasciare gli studi pur di sfuggire a quel bullo che  mi faceva costantemente pesare il fatto di non essere magra”.

A Milano, su 1000 ragazze di tutta Europa che avevano presentato la propria candidatura, ne sono arrivate in 120,  pronte a rimanere in costume nero a due pezzi a Piazza Duomo, in un flash mob per dire che, al di fuori della cerchia dell’omologazione, ci sono giovani donne che vogliono affermare la propria identità.

Per Mariangela l’ esperienza di Milano si è intrecciata con un momento particolare della sua vita: “Ho scoperto, casualmente, di avere un problema alla tiroide.  Tra visite, aghi aspirati e un intervento chirurgico, mi sono trovata, poi, con una cicatrice ben visibile alla base del collo e questo a poche settimane dalla mia partecipazione all’incontro di Milano. Ma questa cicatrice mi ha dato forza e non ho voluto nasconderla. Arrivare a Milano, per me,  è stata dunque una vittoria doppia”.

Le 120 ragazze che hanno partecipato all’evento,  dopo essersi ritrovate a Spazio Cairoli, dove si sono tenuti i servizi fotografici e svolti gli incontri con i giornalisti, hanno camminato a piedi sino a Piazza Duomo, coperte da un cappotto che hanno tolto via,  una volta giunte a destinazione.

Cosa ha provato Mariangela in quel momento, ce lo dice lei stessa Un’esplosione di energia positiva,  un senso di liberazione che mi ha fatto dire “finalmente”…finalmente ce l’ho fatta”.

E nell’istante stesso in cui  il cappotto è caduto, Mariangela si è sentita pervasa :” Da un senso di rivincita personale, non solo contro il bullo, ma anche contro chi vuole forzare l’idea che se non si è magre e standardizzate non si può essere libere, né felici.”

In molti si sono fermati ad ammirare queste 120 ragazze,  scattando foto e apprezzando il loro coraggio e la loro determinazione.

Ora Mariangela sta continuando a lottare, monitorando il suo stato di salute, ma oggi è più forte e persino impaziente di partecipare nuovamente ai prossimi cast di modelle curvy:  “Ho smesso di omologarmi alle altre ragazze magre. Certo, quando mi sono visto in foto, non ho potuto fare a meno di notare la mia cellulite e qualche rotolino sui fianchi, ma sono io, io con la mia forza, la mia energia che mi dà la giusta carica per andare avanti e continuare ad essere me stessa, solo me stessa”.

Alessandra Fiorilli

Casatiello, Pizza Chiena, Minestra Maritata e la  Pastiera: ecco la Pasqua in Campania

Ci fu un tempo in cui ci si sentiva pervasi da una gioia vera, profonda, sincera, quando il calendario  avvisava che, di lì a poco, sarebbe arrivata una festività.

Sembra essere tutto così lontano…lontano nel tempo ma vicino nel cuore, perché ciascuno di noi avrà sentito raccontare dai propri nonni o bisnonni storie di famiglie che cullavano nell’animo l’attesa di una vigilia da vivere con il cuore colmo di gioia.

Tra poco sarà Pasqua e ho deciso, così, di dedicare alcuni reportage sulle tradizioni regionali di questo periodo dell’anno. Oggi partiamo dalla Campania.

Lo faremo grazie ai racconti di Maria Umili, una signora casertana che ci racconterà quello che accadeva nelle case tanti anni fa, quando l’attesa della festa rappresentava un grande momento di convivialità da serbare, una volta passata la festa, per sempre nell’animo.

Maria Umili

Maria ha tutto stampato nella mente, ma soprattutto nel cuore, dove albergano i ricordi più cari e, al tempo stesso, è una donna che onora, così come le sue sorelle,  ancora  le antiche tradizioni, preparando Casatiello e Pastiera seguendo il ricettario familiare.

La ricetta della “Pigna di Tarallo”, o Casatiello Dolce, scritta a mano…

“Tanti anni fa , le famiglie si riunivano nelle casa dove c’era il forno  a legna che veniva acceso e del quale si monitorava il momento per mettervi gli impasti preparati, gettando qualche goccia d’acqua nella bocca del forno stesso, per vedere se era arrivato alla giusta temperatura”.

Attraverso le parole di Maria sembra di vederle queste grandi famiglie di una volta, quando,  il Giovedì Santo si riunivano e cominciavano ad impastare: Casatielli dolci e salati, pizza chiena e pastiere”-racconta Maria, la quale aggiunge -“Sulle torte rustiche ciascuna donna incideva un segno per riconoscerle dalle altre, una volta sfornate. Il Casatiello, che qualcuno preferisce preparare nella sue versione meno ricca di ingredienti, quella delle “pepe e ‘nzogna” (pepe e sugna n.d,r) custodisce al suo interno salumi e formaggi e la sua  forma è quella di una ciambella che richiama la corona di Cristo.  In superficie vengono incastonate delle uova  intere, racchiuse tra due striscioline di pasta che vanno a formare tra loro una croce”.

Il Casatiello di Maria

Simbologia cristiana unita ad antiche tradizioni: ecco il significato di una delle torte rustiche più famose del periodi pasquale in terra  campana.

…e quello di Rosa, sorella di Maria

“Il Casatiello aprirà le danze del Pranzo di Pasqua ma se si vuole mangiarlo caldo, appena sformato, si verrà inebriati da una cascata di sapori.  L’uso della sugna , in questa torta rustica, era giustificato dal fatto che non solo lo si gustava a Pasqua, ma era l’alimento “principe” anche della scampagnata del Lunedì in Albis, la Pasquetta, quindi,  la sugna permetteva di mantenerlo morbido per molti giorni”.

Altra torta rustica  caratteristica della Campania è:  “ ‘A pizz chien, al cui interno, fatto di pasta sfoglia, vi si versa la ricotta arricchita di uova, scamorza e salsiccia. Il tutto viene poi ricoperto da altra pasta sfoglia”.  

Dopo ore trascorse in cucina, ecco giungere la Pasqua: è l’ora di pranzo e tutti attendono la prelibata sfilata delle portate: “Si inizia con la Fellata (dal nome fella che nel dialetto campano significa fetta, n.d.r),  trionfo di affettati, formaggi e mozzarella, seguita dall’immancabile Casatiello. Anche se oggi si prepara, come prima portata la lasagna, un tempo in tavola arrivava la  “Minestra Maritata” connubio di verdure di campo, tra i quali spiccava la cicoria, e di tagli di scarto della carne. Il dolce pasquale per eccellenza, è invece sempre lei: la Pastiera, trionfo di ricotta, grano, fiori d’arancio e canditi”.

La Pastiera non è un semplice dolce, la Pastiera è tradizione, è leggenda, non a caso si narra che la Sirena Partenope, che aveva scelto come sua dimora proprio il golfo di Napoli, a primavera usciva dalle acque per salutare gli abitanti della costa. E loro, per ringraziarla di tanta devozione, un giorno le donarono la farina, la ricotta, le uova, il grano bollito nel latte, l’acqua di fiori di arancio, le spezie e lo zucchero, dolce come il suo canto. Partenope portò, poi, questi ingredienti agli dei che, mescolandoli insieme, diedero vita alla Pastiera.

Due Pastiere fatte in casa da Rosa e appena sfornate…

Tipico della tradizione campana è anche la versione dolce del casatiello, conosciuto come: Pigna di Tarallo, un gustoso impasto di uova e  zucchero il tutto ricoperto da un glassa decorata con tanti confettini”

E dopo Pasqua, il Lunedì in Albis ci si ritrovava a mare o in campagna “E le donne potevano finalmente riposarsi dopo tutte le ore trascorse in cucina, infatti il giorno di Pasquetta, ieri come oggi, era esente dall’uso dei fornelli ma si portava come pranzo, tra le altre cose, il Casatiello e la Pastiera” che di nuovo avrebbero regalato tutto il loro sapore, un sapore di antiche tradizioni strettamente legate alla simbologia della Resurrezione.

Alessandra Fiorilli

La famiglia Pinto: con le loro ceramiche da Vietri sul Mare in tutto il mondo

Difficile, quasi impossibile andare via da Vietri sul Mare, delizioso borgo della costiera amalfitana  a pochi chilometri da Salerno, senza aver acquistato l’immancabile souvenir in ceramica.

Tra i tanti negozi che si snodano lungo le viuzze del centro storico, c’è né uno che non è solo una semplice rivendita di oggetti realizzati nella tipica ceramica vietrese, ma una fabbrica vera e propria che è riuscita ad attraversare secoli di storia e che parla di ben tre generazioni di un’unica famiglia, quella dei Pinto. Nell’ omonimo palazzo su Corso Umberto a Vietri sul Mare, sono esposte le loro opere su una superficie di 400 metri quadrati, prodotte nei 1000 metri quadri dove nascono le famose piastrelle e tutti i complementi di arredo e l’oggettistica, tutti rigorosamente firmate con la dicitura “V.PINTO-VIETRI” che ne garantisce l’autenticità.

Una foto d’epoca della sede della Ceramica Pinto (Archivio Pinto per gentile concessione)

Entrare all’interno della loro attività è, al tempo stesso, un tuffo del passato e un lancio nel futuro, perché ogni singolo lavoro esposto parla di quest’antica passione per la lavorazione della ceramica che li ha portati ad esportare  i loro prodotti in tutto il mondo.

Un momento della lavorazione delle famose piastrelle vietresi in una foto d’epoca (Archivio Pinto, per gentile concessione)

Oggetti dai più minuti a dei veri e propri capolavori : ecco quello che la famiglia Pinto offre a coloro i quali visitano il Palazzo che sembra esso stesso un’opera d’arte.

Ma iniziamo il racconto da quel lontano 1870 quando, proprio a Vietri sul Mare, Vincenzo Pinto inizia la propria attività nella frazione di Molina di Vietri, dove apre una fabbrica di cotto. Gli affari vanno bene e decide, così, di espandersi: prende in affitto  una fabbrica posta al piano terra del Palazzo Pizzicara, che prenderà poi, dopo l’acquisto della proprietà da parte di Vincenzo, il nome di  Palazzo Pinto.

Uno scorcio di Positano in uno dei pannelli in ceramica (Archivio Pinto, per gentile concessione)

Negli anni ’20 il nome della famiglia arriverà fino in Europa, grazie alla famose piastrelle prodotte dai Pinto, così come ci dice  Giovanni Alessandro, marito di Rosaura Pinto,  rappresentante della terza generazione: “La fabbrica nasce da artigiani che lavorano la ceramica. La produzione più importante è legata, però alla famose piastrelle e ai complementi di arredo. Ovviamente, abbiamo anche una ricca esposizione di oggetti, dai piatti ai complementi di arredo, dalle statue alla piccola oggettistica”.

Un pannello raffigurante uno scorcio da Ravello (Archivio Pinto, per gentile concessione)

Negli anni ’30 un salto di qualità: Vincenzo Pinto chiama a dirigere la fabbrica il Professor Renato Rossi che fonda nella vicina Salerno la Scuola di Ceramica.

Un altro pannello raffigurante scene di vita quotidiana (Archivio Pinto, per gentile concessione)

Gli anni ’50 vedono un altro nome importante affiancare la famiglia Pinto nella produzione di manufatti in ceramica: la direzione artistica viene affidata allo scultore ungherese Amerigo Tot, il quale elabora bozzetti che diventeranno il bassorilievo che decora ancora oggi il fronte della Stazione Termini di Roma.

(Archivio Pinto, per gentile concessione)

Sul finire degli anni ’60 la fabbrica Pinto si amplia con la costruzione di due nuovi edifici. Intanto la fornace a legno viene sostituita con un forno a tunnel a gasolio.

Anche i Miti nei pannelli di Pinto (Archivio Pinto, per gentile concessione)

La fabbrica Pinto è pronta a decollare sulle ali del boom economico degli anni ’60: la produzione delle loro ormai famose mattonelle,  grazie all’innovazione introdotta, aumenta notevolmente e, sempre in quel decennio a Vietri, presso Palazzo Pinto, arriva Giovannino Carraro, importante artista vietrese del 1900, che realizza il pannello che ricopre il Palazzo.

La loro capacità di attraversare secoli di storia risiede: “Nel saper  tener fede a ciò che siamo e al nostro lavoro che non è legato ad un singolo artigiano, ma è un grande lavoro d’equipe”.

Il deposito delle terracotte (Archivio Pinto, per gentile concessione)

 

E le piastrelle, quelle dal quale tutto è iniziato dal lontano 1800, continuano ad essere un elemento di spicco della produzione firmata Pinto :” La decorazione è ancora fatta manualmente”, ci tiene a sottolineare Giovanni Alessandro-“ Così come manuale è la preparazione dello smalto con il quale si garantisce l’elevata resistenza all’abrasione, la morbidezza e la lucentezza di quel bianco particolare, che è noto proprio con il nome di bianco Vietri”.

Sempre Giovanni Alessandro ci illustra il percorso che dalla materia prima giunge al manufatto:” Si parte dall’argilla impastata con l’acqua. L’argilla, poi, viene essiccata e si procede con una prima cottura e diventa, così, terracotta. Si prosegue con la smaltatura e il tutto viene completato dalla decorazione e con una seconda cottura”.

C’è un motivo per cui la lavorazione della ceramica nasce e si sviluppa proprio a Vietri, in questo borgo a picco sulla costiera amalfitana:” A due chilometri dalla città di Salerno ci sono delle cave di argilla. La presenza di uno sbocco a mare, in modo particolare il porto e la vicinanza con Napoli, e l’influenza della Chiesa, tanto che qui vicino c’è l’Abbazia Benedettina di Cava dei Tirreni, hanno reso possibile il grande sviluppo dell’industria della ceramica vietrese. Oggi, purtroppo, l’artigianato sta vivendo una fase difficile, ma noi continuiamo con una forza che ci giunge dal lontano 1800, da quando il nostro Avo Vincenzo iniziò questa attività”.

Alessandra Fiorilli

 

Il Ristorante Carignano di Torino ha ottenuto la sua prima Stella Michelin. Marco  Miglioli, Chef de Cuisine, ci svela la “ricetta” di questo locale nel cuore di Torino.

La prima Stella Michelin per il Ristorante Carignano arriva nello stesso anno in cui anche l’Hotel dal quale dipende, il Grande Hotel Sitea a Torino, ha visto coronare la sua lunga storia con l’agognata quinta Stella. Il 2018 è, dunque, un anno da ricordare, anche se il riconoscimento giunto al Carignano è solo un punto di partenza, come ci conferma lo Chef de Cuisine Marco Miglioli, fortemente voluto dall’Executive Chef Fabrizio Tesse, con il quale Miglioli ha già lavorato in precedenza.

Da sinistra: lo storico Resident Chef Ruggero Rolando, l’Executive Chef Fabrizio Tesse e lo Ched de Cuisine Marco Miglioli (foto per gentile concessione del Grand Hotel Sitea , Torino)

La giovane promessa del Carignano arriva a Torino dopo una lunga esperienza:”Conseguito il diploma all’Istituto Alberghiero, ho avuto il privilegio di andare a lavorare a Villa Crespi , dello Chef  Antonino Cannavaciuolo, per 2 anni, per passare poi al ristorante Trussardi di Milano, per un anno”. Mignoli vola poi anche a Londra,  a Montecarlo e a Dubai.  Nonostante tutte le brillanti esperienze all’estero, il suo cuore e la sua anima appartengono a quei ricordi da bambino, che ancora oggi sono la sua “Stella Polare” in cucina: “Provengo da un famiglia in cui il buon cibo, possibilmente a km 0, è stato sempre l’elemento più importante. Non è un caso che al mattino, la spesa l’andiamo a fare  al mercato giornaliero a Porta Palazzo, a Torino, preferendo anche  prodotti di nicchia.” Marco Miglioli,  l’aria della cucina l’ha respirata sin da adolescente:  “Avevo 13 anni e aiutavo la nonna al bar nel preparare i caffè”.

Il giovane chef è poi riuscito a volare in alto “Non solo grazie alla passione, ma anche ad un pizzico di fortuna e al fatto di essere, come si suol dire, al posto giusto nel momento giusto”.

Presso il Ristorante Carignano, che ha appena cinque tavoli ed è aperto a cena, la parola d’ordine è:” Tradizione e innovazione. Rispettiamo, infatti, le tecniche basilari delle nostra migliori tradizioni, cercando di aggiungere, ovviamente, qualcosa di noi”.

La prima Stella Michelin: “Viene assegnata sulla base di un insieme di elementi, quali la location, la cantina, il servizio. Questo ambito riconoscimento ci ha cambiato mentalmente perché si riparte verso nuovi traguardi. Questa stella è solo una partenza”.

Alessandra Fiorilli

Torino: Luci d’Artista  compie 20 anni. Un Museo all’aperto diventato il simbolo delle festività natalizie del capoluogo piemontese. Del profondo significato culturale ne parliamo con l’Assessore alla Cultura del Comune di Torino, Francesca Paola Leon

 

Sino al 19 gennaio 2019 è possibile regalarsi una visita a quello che, ormai, è diventato non solo l’appuntamento “simbolo” del Natale torinese, ma un vero e proprio “Museo d’Arte all’aperto”. Quest’anno Luci d’Artista ha raggiunto il traguardo dei 20 anni, durante i quali sono cambiati i vertici amministrativi della città, ma ciò che è sempre rimasta fedele a se stessa è l’essenza dell’evento, un “biglietto da visita” della regale Torino.  Impreziosite dalle luci artistiche non solo le piazze e le vie del  centro storico,  ma anche le circoscrizioni e le zone più lontane dagli eleganti palazzi e luoghi che parlano della lunga storia italiana. Cosa è cambiato durante gli anni e cosa è rimasto lo stesso in quest’ evento, ce lo dice l’Assessore alla Cultura del Comune di Torino, Francesca Paola Leon, la quale, gentilmente, ci ha dedicato un po’ del suo tempo per realizzare quest’ intervista.

L’Assessore alla Cultura del Comune di Torino, Francesca Paola Leon Per gentile concessione dell’Assessorato alla Cultura)

Luci d’Artista continua ad essere un esempio virtuoso di intervento artistico-culturale nello spazio pubblico, fuori dalle tradizionali sedi espositive. Il progetto, alla sua XXI^ edizione, nasce come “museo a cielo aperto” circoscritto al Centro Storico, con l’obiettivo di diffondere – attraverso le opere luminose realizzate da artisti di fama internazionale – i linguaggi dell’arte contemporanea e di valorizzare il patrimonio dei beni artistici e storici della Città.

Daniel Buren, “Tappeto Volante”, Piazza Palazzo di Città. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

 

Questo progetto – imitato in Italia e all’estero – ha consentito la massima accessibilità e fruibilità ai cittadini ed è diventato un elemento forte attrazione  turistica.

Luigi Stoisa “Noi”, Via Garibaldi. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

 

Questa Amministrazione dal 2017 – in occasione del ventennale di Luci d’Artista – ha voluto portare le Luci anche sul resto del territorio urbano, prevedendo l’istallazione di almeno un’opera per ogni Circoscrizione. Si, ogni anno, attraverso la collocazione delle opere temporanee in luoghi diversi e significativi della Città (almeno una per circoscrizione), ci si prefigge l’obiettivo di valorizzarle, di farle conoscere ad un pubblico più ampio e di creare altresì attesa e curiosità: un modo per rendere più accessibili i linguaggi dell’arte contemporanea.

Valerio Berruti, “Ancora una Volta”, Via Giulio di Barolo. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

  Alle finalità consolidate negli anni, si è aggiunto quindi l’obiettivo di offrire anche ai residenti in altri contesti urbani – ad di fuori del centro storico – la possibilità di fruire delle opere del patrimonio di Luci,  valorizzando altri luoghi ritenuti significativi, attraverso un percorso partecipato che ha condotto alla individuazione dei luoghi dove collocare le Luci d’Artista.

 

La Città quest’anno ha anche avviato, in una delle circoscrizioni che ospita un’opera di Luci, una sperimentazione: un’azione che è stata realizzata con la partecipazione attiva dei cittadini e delle realtà pubbliche e private operanti nel quartiere (scuole, associazioni, enti,…;  realizzando, attorno all’installazione dell’opera, alcuni progetti educativi rivolti  a studenti ed insegnati delle scuole dell’obbligo.

 

 

Tobias Rehberger, “My noon”, cortile della Scuola Elementare Carlo Collodi. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

Oltre alle 23 Luci d’Artista “storiche”, vi sono altre opere luminose realizzate da associazioni, privati  ed enti, che arricchiscono l’offerta al pubblico”.

 

L’inaugurazione di “Luci d’Artista” 2018 è avvenuta il 31 ottobre scorso nel cortile della Scuola Elementare Carlo Collodi e sono state recitate fiabe e filastrocche di Gianni Rodari.  L’evento è diventato così, nel corso degli anni,  davvero di tutti: dai bambini agli artisti internazionali, dai cittadini di Torino ai turisti, così come ci conferma l’Assessore Leon

“Certo, Luci d’Artista è un evento di “tutti e per tutti”.

Nicola Maria “Regno dei  Fiori: Nido Cosmico di tutte le anime”, Piazza Carlina.  Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

 

Dando seguito ad uno dei punti qualificanti del Programma di questa Amministrazione, l’Assessorato alla Cultura ha ritenuto indispensabile che la scelta dei luoghi, in cui posizionare le opere, fosse condivisa con i cittadini e con tutti i rappresentanti delle Circoscrizioni.

Vasco Are “Vele di Natale”, Piazza Foroni. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

 

Successivamente, al fine di far conoscere in modo stimolante le opere di Luci d’Artista e altre opere d’arte contemporanea presenti nel territorio urbano, che costituiscono parte significativa del suo patrimonio artistico e culturale, la Città con la Circoscrizione 8 – per la prima volta –  ha sperimentato in collaborazione con il Dipartimento Educazione della GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e il PAV – Parco Arte Vivente il progetto educativo-artistico-culturale “Incontri illuminanti con l’arte contemporanea” rivolto a  insegnanti, studenti e famiglie, coinvolgendo più di 30 classi”.

Ormai Luci d’Artista non è solo il modo in cui la prima capitale d’Italia festeggia le festività natalizie, ma anche una cartolina del tutto particolare che ciascuno può portarsi via con sé, dopo essere stato accolto, abbracciato, coccolato da questo spettacolo di luci e di magia. Chiedo all’Assessore Leon quante siano state le persone accorse lo scorso anno:

 

 

“ Luci d’Artista, che inaugura il mese dell’arte contemporanea nella nostra città, fa parte dell’offerta culturale in un momento in cui gli eventi cittadini ruotano attorno ai grandi eventi legati all’arte contemporanea e alle Fiere, tra le quali la prestigiosa Artissima contornata dalle fiere satellite come FlashBack, The Others, Paratissima, Dama, solo per citarne alcune.   da   Non siamo in possesso di dati certi. Da Turismo Torino e Provincia sappiamo però che nell’edizione 2017-2018 hanno partecipato 7.500 persone allo Special Tour Luci d’Artista da loro organizzato”.

Francesco Casorati “Volo su…”, Via di Nanni. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

Luci d’Artista non sono soltanto luminarie natalizie, dunque,  ma molto di più :”

Luci d’Artista è una manifestazione apprezzata in Italia e all’estero e, per questo, diventata elemento caratterizzante dell’offerta culturale della Città. Offre a cittadini e turisti scenari artistici inediti nello spazio pubblico. E’ inoltre un’occasione per rendere più accessibile l’arte contemporanea e i suoi linguaggi ai cittadini (delle diverse età) nei luoghi della vita quotidiana. Le luci d’Artista sono a disposizione di tutti i cittadini e dei turisti. I dati sulle presenze nel mese di novembre ci dicono di un incremento dell’8,7% di turisti rispetto allo stesso mese nel 2017”.

Giulio Paolini “Palomar”, Via Po. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

 

Torino rimane sempre la prima capitale d’Italia: regale, di una bellezza che incute un timore reverenziale. E’ per questo motivo che, rispetto ad altre città, le luci installate sono comunque di classe e meno appariscenti?

“Non sono d’accordo, nel giudicarle “meno appariscenti” di altre. Basti pensare ad esempio a “Vento solare di Luigi Nervo” o a “Piccoli Spiriti Blu” di Rebecca Horn …

Luigi Nervo “Vento Solare” , Piazzetta Mollino. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

Il nostro evento è semplicemente diverso dagli altri, perché le opere sono ideate da artisti di fama internazionale scelti dai direttori artistici di due musei d’arte contemporanea di eccellenza come la GAM e il Castello di Rivoli: non sono solo significative dal punto di vista estetico, dietro alla loro creazione vi è sempre una corrente artistica, un concetto, un messaggio che l’artista consegna alla Città.

Rebecca Horn “Piccoli Spiriti Blu”, Monte dei Cappuccini. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

 La scelta del progetto Luci d’Artista di Torino privilegia alla dimensione “evento temporaneo appariscente” la capacità delle opere luminose di essere fruibili in un tempo più lungo e di diventare così parte caratterizzante del paesaggio urbano”.

Luigi Mainolfi “Luì e l’arte di andare nel bosco”, Via Carlo Alberto. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

 

Torino, dunque, si presenta così: ricca di luci che ti fanno camminare a testa in su  per non perderti lo spettacolo di queste opere d’arte.  Illuminate  lo sono non soltanto le magnifiche piazze, i corsi centrali, la Mole, ma anche il grattacielo. Chiedo all’Assessore Leon se questa scelta sia un modo per far capire che Torino è sia storia che modernità.

“L’arte contemporanea, come tutte le arti e correnti artistiche, ha le sue radici nella storia:  l’Opera di Maurizio Nannucci, sulla facciata della GAM “All art has been contemporary” esprime un concetto fondamentale: tutte le arti del passato sono state arti contemporanee nel momento della loro espressione. E’ interessante che anche soggetti privati come Intesa-San Paolo vogliano concorrere ad ampliare l’offerta del patrimonio di Luci d’Artista della Città arricchendo la manifestazione cittadina con nuove opere artistiche luminose come “α-cromative” di Migliore+Servetto Architects sul grattacielo progettato da Renzo Piano.

ARTE, dunque: due consonanti  e due vocali che sembrano essere diventate essenziali per l’organizzazione, ogni anno, di Luci d’Artista, come ci conferma l’Assessore Leon: “Luci d’Artista è un museo d’arte all’aperto, ma non certo esaustivo: perché l’arte come le altre forme espressive può essere comunicata in innumerevoli modalità, tante quante sono gli artisti che possono essere invitati a collaborare a questo o ad altri progetti.

Mario Airo “Cosmometrie”, Piazza Carignano. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

Un lavoro, dunque, quello che conduce la città di Torino a Natale, che inizia molto tempo prima e  che richiede un grande impegno, come ci conferma l’Assessore alla Cultura: Per visionare, valutare e selezionare con competenza gli artisti più idonei a produrre nuove opere volte ad arricchire il patrimonio di Luci d’Artista è indispensabile avere un’approfondita conoscenza dell’arte contemporanea a livello internazionale. Per questo motivo nell’eventualità di nuovi allestimenti di nuove opere, da inserire nel patrimonio permanente di Luci d’Artista, la selezione dell’artista e del progetto viene effettuata dalla Direzione del Castello di Rivoli e dalla Direzione della GAM della Fondazione Torino Musei, di concerto con la Città di Torino. Una scelta confermata da una valutazione di fattibilità da parte dei consolidati partner tecnici del progetto Luci: IREN e Fondazione Teatro Regio Torino.

Piero Gilardi “Migrazion iClimate change”, Galleria San Federico. Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

 

Ogni artista, con la sua opera esprime “unicità”, utilizzando la luce, interpreta in modo personale la realtà collegandosi con i diversi linguaggi del contemporaneo”

Mario Merz “Il Volo dei Numeri”, Mole Antonneliana. . Città di Torino – Progetto Luci d’Artista
Area Cultura – Servizio Arti Visive Cinema Teatro Musica

 

Luci d’Artista: è arte e cos’altro per Torino?

“Pensando a questo evento lo si associa all’arte, al turismo e alla promozione della Città: per la sua inaugurazione a fine ottobre come evento di avvio del programma dello Speciale Autunno ContemporaryArt Torino+Piemnte  e nel periodo nelle feste natalizie), però è diventato anche un momento per promuovere partecipazione comunitaria, coinvolgendo dei cittadini e dei soggetti pubblici e privati dei diversi territori e anche strumento per promuovere percorsi educativi-artistici-culturali, di avvicinamento ai linguaggi e alle produzioni dell’arte contemporanea.”

In ogni angolo della regale Torino, dunque, si possono ammirare queste opere d’arte di luce: a piazza Carignano ad attenderci sono le Cosmometrie, opera di Mario Airò,  ispirati da quarantadue disegni di Giordano Bruno, proiettati sulla pavimentazione della piazza stessa. In Via Giulia di Barolo ci attende “Ancora una volta”,opera di Valerio Berruti, ispirata alla tecnica di video animazione: infatti i 10 fotogrammi dell’opera luminosa si relazionano con lo spazio sottostante. A Piazza Palazzo di Città si cammina sotto un pergolato di luci, opera di Daniel Buren. Anche le Gallerie della città, Umberto I e San Federico sono impreziosite, rispettivamente, da creazioni di Marco Gastini e Piero Gilardi. Mentre in via Carlo Alberto si cammina leggendo una poesia scritta da Giudo Quarzo, che si compone, passo dopo passo, in colori diversi tante sono le strofe che la compongono, grazie alla maestra di Luigi Mainolfi. Il simbolo di Torino, la Mole Antonelliana, è illuminata da “Il volo dei numeri”: una lunga sequenza in cui ogni cifra è la somma delle due precedenti: è la serie di Fibonacci, rivista in chiave artistica da Mario Merz.

Alessandra Fiorilli