“Non voleva davvero ferirmi con quelle parole”;“Anche se mi ha fatto male lo perdonerò”; “Chissà quanto starà soffrendo: lo aiuterò”.
Quante volte abbiamo pronunciato queste frasi riferendoci ad un amico/a, ad un compagno/a che magari ci ha ferito o tradito, oppure ad un senzatetto a cui cerchiamo di dare una mano?
Ma pronunciamo mai le stesse frasi verso noi stessi? Ci perdoniamo mai fino in fondo degli errori che abbiamo commesso o del male, che anche inavvertitamente, abbiamo procurato ad un’altra persona? Siamo veramente consapevoli di un momento di sofferenza che stiamo attraversando percependo fino in fondo il nostro dolore?
La risposta è no; o, almeno, non quanto lo facciamo per gli altri. E di questo ne è certa Kristin Neff, psicologa e ricercatrice statunitense che ha concentrato i suoi ultimi studi proprio su queste tematiche.
Secondo tale autrice non diamo la stessa importanza alla nostra sofferenza e non siamo così indulgenti verso noi stessi così come, invece, lo siamo verso gli altri; dovremmo, invece, cominciare a trattare noi stessi con la stessa gentilezza e compassione che dimostriamo per i nostri amici, parenti o, perfino per degli estranei. Ed eccola la parola “magica”: compassione.
Cosa si indica di preciso con tale termine? Secondo Kristin Neff, la compassione comprende il riconoscimento della sofferenza, la gentilezza nei confronti di chi sta soffrendo ed il riconoscimento che la condizione umana è fragile ed imperfetta.
E quando questa compassione la proviamo verso noi stessi, ecco che si parla di self-compassion, concetto del quale l’autrice è stata pioniera.
Secondo la Neff, dovremmo smettere di giudicarci troppo severamente, e dovremmo accettarci con i nostri pregi e, soprattutto, con i nostri difetti, trattandoci con gentilezza e amore; cosa, questa, non semplice da fare.
Tornando al concetto di self-compassion, secondo Kristin Neff, comprende tre componenti:
-la gentilezza verso se stessi
-il riconoscimento della nostra umanità comune
-la mindfulness
Cerchiamo di considerarli uno ad uno.
La prima componente, ovvero la gentilezza verso se stessi, richiede di essere comprensivi con noi stessi, smettendo di essere ipercritici e di giudicarci continuamente; comprende il capire le nostre debolezze ed i nostri fallimenti, senza condannarli; richiede di trattare noi stessi con cura, amore e tenerezza, abbracciando, idealmente, noi stessi come faremmo con un amico in difficoltà.
La seconda componente è il riconoscimento della nostra umanità comune, ovvero essere consapevoli che siamo parte di un “tutto” e che ognuno, compresi noi stessi, può sbagliare. Ciascuno di noi nella propria vita prova sentimenti di delusione, rabbia, dolore o inadeguatezza, perciò quando sperimentiamo uno di questi sentimenti non dobbiamo sentirci isolati; comprendendo che siamo interconnessi agli altri, questo ci fa sentire meno soli e fa percepire la nostra sofferenza in modo meno forte.
La terza ed ultima componente è la mindfulness (argomento che ho trattato in un mio precedente articolo sul sito EmozionAmici) Il termine mindfulness indica l’accettazione non giudicante di quello che stiamo vivendo nel momento presente, ovvero essere consapevoli fino in fondo di ciò che facciamo in un determinato momento e delle emozioni che proviamo mentre svolgiamo quella particolare azione. Essenziale, inoltre, è fare tutto ciò in maniera non giudicante il che significa considerare le nostre emozioni in maniera più distaccata ossia come se guardassimo noi stessi da un’altra prospettiva. La mindfulness ci fa vedere le situazioni così come sono realmente ed elimina le sofferenze che, invece, potremmo evitare; essa permette, inoltre, di riconoscere quali sono gli aspetti della nostra vita che possiamo cambiare e di accettare quegli eventi che non possiamo, invece, cambiare.
Mettere in atto queste tre componenti, che insieme costituiscono la self-compassion, permette (così come evidenziato da diverse ricerche) di lenire sentimenti di ansia e depressione; inoltre, le persone con un alto livello di self-compassion, riescono a reprimere meno emozioni e pensieri negativi in quanto i sentimenti negativi vengono “abbracciati” insieme a quelli positivi: le emozioni di cura, gentilezza e compassione vengono provate insieme ai sentimenti dolorosi. Praticare la self-compassion è come sfogarci con un amico di cui siamo sicuri di poterci fidare perché, in qualche modo, capirà e lenirà la nostra sofferenza.
Ulteriori ricerche della Neff e colleghi hanno evidenziato come praticare la self-compassion sia un modo per raggiungere il benessere emotivo e la soddisfazione nella nostra vita.
Perciò, la prossima volta che commettiamo un errore o non riusciamo a raggiungere un nostro obiettivo fino in fondo, invece di giudicarci e di colpevolizzarci, cerchiamo di perdonarci e di trattarci con gentilezza. E la nostra vita migliorerà.
Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa