Alzi
la mano chi, nel corso della sua vita, non ha mai sognato ad occhi aperti, non
ha mai fantasticato, specialmente da giovane, sul proprio futuro o su una
situazione che desiderava che accadesse.
Ecco,
la buona notizia è che quello che immaginiamo nella nostra mente può realmente
concretizzarsi. In che modo? Grazie alla tecnica della visualizzazione creativa.
Il grande Walt Disney che ha fatto, e che fa tuttora, sognare, ridere, piangere, emozionare il mondo intero grazie ai suoi personaggi diceva: “If you can dream it, you can do it”, ovvero “Se puoi sognarlo, puoi farlo”, frase che mi trova pienamente d’accordo.
Io,
però, la riformulerei così: “Se puoi visualizzarlo nella tua mente, accadrà
veramente”. Si, perché c’è una differenza tra il sognare ad occhi aperti e la
visualizzazione creativa: nel primo ci si immagina come spettatori di una
situazione come se si vedesse un film, nel secondo caso, ovvero nella
visualizzazione, chi immagina, sperimenta quella situazione, quell’evento in
prima persona, cercando di percepirla il più reale possibile. In questa tecnica
si
visualizza nella mente la situazione che vorremmo si realizzasse nei minimi
particolari, facendo attenzione ad attivare anche tutti i nostri sensi:
olfatto, udito e tatto.
Faccio
un esempio: un atleta che deve correre una gara dei cento metri, visualizzerà
nella sua mente il momento in cui si trova ai blocchi di partenza, percepirà la
consistenza della terra battuta con i polpastrelli, udirà lo sparo che segna
l’inizio della gara, sentirà i muscoli delle gambe che lavorano, l’odore acro
del sudore, l’aria calda che gli accarezza la pelle, e alla fine vedrà il
traguardo e lo taglierà per primo.
Nel
sogno ad occhi aperti, invece, avrebbe immaginato solamente il momento della
vittoria come se, in realtà, non fosse lui il protagonista della situazione.
Questa tecnica può essere messa in atto in diversi ambiti e con molteplici scopi: per attuare un cambiamento comportamentale, per rafforzare la propria autostima, per superare momenti di difficoltà, per migliorare il proprio benessere fisico e psichico, per migliorare la qualità della vita.
La
creazione di un’immagine mentale simile alla situazione reale fa sì che la
mente reagisca come se si trovasse di fronte alla realtà: possiamo, in un certo
senso, “ingannare” la nostra mente.
Quest’ultima,
infatti, lavora per immagini; ciò significa, ad esempio, che se ascoltiamo
pronunciare la parla “sedia”, noi visualizziamo in automatico, nella nostra
mente, l’immagine di una sedia.
La
visualizzazione mentale produce gli stessi effetti fisiologici della situazione
reale: immaginare di vincere una gara di cento metri
produce la stessa euforia ed emozione del vincerla realmente.
Quindi quando stiamo attraversando una situazione difficile, quando stiamo vivendo un momento di difficoltà o di dolore, quando ci sembra di non trovare vie di uscita, rechiamoci in un posto dove possiamo stare soli, magari la sera prima di addormentarci, cerchiamo di rilassarci, e cominciamo a visualizzare la situazione che vorremmo accadesse; dimentichiamo un presente difficile e creiamo ognuno la nostra realtà. Se non riuscite le prime volte, non scoraggiatevi: l’immagine va visualizzata più volte in uno stesso giorno e per un periodo di tempo prolungato.
Tornando
a Walt Disney, la frase che più mi emozionava da piccola era cantata da
Cenerentola: “Tu sogna e spera
fermamente, dimentica il presente e il sogno realtà diverrà..”.
In
questo periodo così delicato per tutti noi, in questi giorni in cui viviamo
sospesi in un limbo e nei quali ci aggrappiamo con tutte le nostre forze a
qualche buona notizia, a causa di questa epidemia che sta destabilizzando il
mondo, ho riflettuto sul fatto che la maggior parte delle persone non si rende
conto di quello che ha fino a quando sta per perderlo.
Sto parlando della libertà.
(Foto di Lorenza Fiorilli)
Solo
fino a qualche settimana fa sembrava normale, se non perfino banale, alzarci
dal letto la mattina, andare a bere un caffè al bar insieme ad un collega o ad
un amico, accompagnare i propri figli a scuola e poi recarsi al lavoro. E nel
pomeriggio chi andava in palestra, chi alla partita di calcetto, chi a prendere
un aperitivo e chi, semplicemente, a trovare un amico a casa.
A volte consideravamo una noiosa routine andare a fare la spesa, portare il cane a fare una passeggiata, accompagnare i figli al corso a scuola o in piscina.
Appena potevamo, prenotavamo un biglietto aereo o ferroviario, una camera in albergo e dei ticket on line per un museo. Nei weekend chi andava a vedere l’ultimo film di quel famoso regista, chi la mostra del suo pittore preferito, chi una commedia a teatro, chi allo stadio a tifare la sua squadra del cuore.
Ora
questa noiosa, stupida, banale libertà ci è stata in parte tolta, ad alcuni in
modo più pesante, ad altri in modo più lieve.
Sono convinta che ogni dolore, avversità, ogni limitazione, delusione, serva a qualcosa.
E’
vero che da ogni cosa che accade nella vita bisogna saper prendere il meglio,
bisogna volgerlo a nostro favore.
E
da questa situazione cosa impareremo?
Impareremo
ad amare e apprezzare la nostra libertà; impareremo a non dare più nulla per scontato,
neanche una semplice passeggiata, neanche un abbraccio, neanche la cosa che
sembra la più semplice e banale; impareremo a provare gratitudine per tutto ciò
che abbiamo. Si, gratitudine, sentimento che in pochi sperimentano al giorno
d’oggi.
Saremo
grati per ogni singolo gesto, per ogni noiosa, stupida e banale azione che
potremo svolgere in piena libertà.
I
colleghi ci sembreranno più simpatici, i professori meno severi, i treni più
comodi, il verde degli alberi più verde, il caffè del bar più cremoso.
Questa volta parlerò del rispetto, sempre meno conosciuto e praticato dagli esseri umani.
Il vocabolario cita, sotto questa voce: “Sentimento di attenzione nei confronti degli altri, della loro dignità e dei loro diritti, che dispone ad astenersi da atti offensivi o lesivi”.
Il perché mi è venuto in mente di parlare di questo argomento ve lo spiego subito:
l’altra mattina sono scesa in spiaggia portando con me anche un pacchetto di cracker, nel caso mi venisse un “languorino” prima di pranzo; c’erano pochissime persone ma diversi gabbiani che cercavano tra la sabbia dei residui di cibo lasciato dai bagnanti o un pezzetto di pizza caduta dalle mani di un bambino. Allora ho preso i miei cracker, li ho spezzati con le mani e li ho dati a loro, che certamente avevano più fame di me.
Gabbiani in spiaggia (Foto di Lorenza Fiorilli)
E mentre mangiavano voracemente, un bambino, correndo, li ha spaventati e li ha fatti volare via; io gli ho fatto notare che se fosse rimasto lì, loro non sarebbero tornati, ma non mi ha ascoltato; certo, era solo un bambino, ma neanche il padre, presente alla scena ha proferito parola.
L’altro pomeriggio, sempre in spiaggia, due bambine hanno detto l’una all’altra : ”Tiriamo la sabbia ai gabbiani così vanno via!”, senza che quei volatili stessero dando fastidio a nessuno.
I placidi gabbiani (foto di Lorenza Fiorilli)
Ecco, queste due scene mi hanno dato molto fastidio per la mancanza di rispetto verso degli esseri viventi che non stavano disturbando nessuno. Il rispetto si deve imparare da bambini, ma se nessuno glielo insegna, non è una cosa così facile.. Il rispetto verso chi è diverso da noi, verso chi ha preferenze e gusti che non sono i nostri, verso chi è di un’altra cultura, il rispetto, semplicemente, verso un altro essere vivente distinto da noi.
Un primo piano di un dolce gabbiano (Foto di Lorenza Fiorilli)
Se non si attua ciò, ci sarà sempre qualcuno che si crederà superiore e si sentirà in diritto di mettere in atto soprusi verso gli altri.
Stavolta il mio articolo sarà più breve perché, al mio posto lascio parlare una metafora, che ho letto per la prima volta in uno dei libri sul quale preparai il mio ultimo esame universitario e che tratta dell’importanza del rispetto verso le differenze di ognuno e della capacità di potersi arricchire proprio di queste differenze. No, non è una favola per bambini, anche se, quando comincerete a leggerla, vi sembrerà così; vi invito a non fermarvi alle prime righe.
Buona lettura.
Dottoressa Lorenza Fiorilli, Psicologa
L’aquila e il gabbiano
C’era una volta un’aquila che viveva in una grande isola e amava volare sulle alte cime dei monti. Amava volare con le proprie ali seguendo e facendo sua la forza del vento.
Un giorno l’aquila vede un bellissimo gabbiano che si era allontanato dal porto e si era spinto quasi a raggiungere le alte vette. I due subito si innamorano a da allora amano trascorrere tanto tempo volando insieme. Il gabbiano mostra all’aquila la bellezza dei porti con le sue navi e i suoi anfratti, e l’aquila gli fa provare l’ebbrezza del volare in lato sino a raggiungere le più alte cime dei monti dell’isola. All’inizio tutto è bellissimo e ognuno scopre il fascino del mondo dell’altro.
Dopo un po’ di tempo però, l’aquila si accorge che il gabbiano tende a voler trascorrere sempre più tempo vicino al suo porto e al suo mare e meno ad avventurarsi per le alte montagne. Ogni volta che l’aquila gli fa la proposta di andare a volare nell’alto dei cieli il gabbiano trova una scusa. L’aquila per qualche tempo rinuncia ai suoi voli, ma dopo un po’ sente che le sue ali hanno voglia di sgranchirsi e va a fare un giro da sola. Ma quando torna il gabbiano fa il broncio, è offeso. E dice all’aquila che il fatto che voglia volare così in alto vuol dire che non gli vuole più bene. L’aquila cerca di fargli capire che non è così, che lo ama profondamente. La natura le ha dato grandi ali per volare in alto e lei non fa altro che seguire la sua natura, così come il gabbiano segue la sua. Il gabbiano non si fa convincere dal discorso dell’aquila e pensa che se il problema sta nelle grandi ali dell’aquila, la soluzione sta nel tarpargliele. E così, di notte, mentre l’aquila dorme tranquillamente al suo fianco il gabbiano prende delle forbici e, notte dopo notte, spunta un po’ le ali dell’aquila, senza che questa se ne accorga.
Un giorno, mentre sta cercando di volare verso la sua montagna preferita, l’aquila sente di non farcela, si sente stanca, sente il suo corpo pesante e nonostante i suoi sforzi, non ce la fa a salire in cima. Sta per desistere quando incontra una maestosa vecchia aquila che vola lentamente con le sue grandi ali spiegate. La vecchia aquila vede quest’aquila che fa fatica a volare e nota subito le ali tarpate a forma di gabbiano: capisce che qualcuno deve averle giocato un brutto scherzo. La vecchia aquila le si avvicina e le chiede se vuole fare un giro sulle sue ali, visto che sembra così stanca. L’aquila ringrazia e accetta. Allora l’aquila saggia la prende su di sé e volando la porta in cima al monte. Quando arriva in cima al monte l’aquila si sente rinascere. Ma dopo un po’ diventa triste al pensiero che il suo amato gabbiano le farà il broncio quando tornerà. L’aquila saggia vede il cambiamento di umore e le chiede cosa stia pensando. L’aquila si confida e le racconta che il suo amato gabbiano preferisce stare vicino al porto dove sono ancorate tante navi e non vuole volare in alto, sfidare la forza del vento e misurare la potenza delle sue ali.
Dopo aver ascoltato, la vecchia aquila saggia le dice che anche i gabbiani possono volare in alto. A una condizione, però, che lo vogliano veramente e che non si facciano prendere dal caldo torpore marino e non si facciano sedurre da tutte quelle navi ancorate ai porti. E comincia a raccontare le avventure di un gabbiano che aveva conosciuto tempo prima, un gabbiano chiamato Jonathan Livingston che amava sfidare la sua natura e che era riuscito a raggiungere cime e vette altissime.
L’aquila sta alcuni giorni in compagnia della vecchia aquila saggia ascoltando i racconti sul gabbiano Jonathan Livingston, così capisce che anche il suo gabbiano può volare in alto: deve però essere lui a volerlo.
E stando lì sue ali ricrescono e si rinforzano.
Un giorno si accorge di essere nuovamente in forza e si sente pronta per ritornare dal suo gabbiano. Ringrazia, saluta la vecchia aquila saggia e va. Appena arriva dal gabbiano lo abbraccia felice e gli racconta del suo incontro con la vecchia aquila saggia e le storie sul gabbiano Jonathan Livingston che ha sentito. Ma il gabbiano non ha voglia di ascoltarla. E’ offeso e convinto che ormai l’aquila non lo ami più.
Allora l’aquila con calma gli dice di ascoltarla molto bene perché ha una cosa importante da dirgli. E così gli dice: “Ogni creatura umana ha delle differenze e ognuno può amare, apprezzare e rispettare le differenze di ciascuno. La mia natura mi ha dotato di grandi ali scure con le quali volare nell’alto nei cieli. La tua natura ti ha dotato di bellissime ali bianche con le quali sorvolare mari e monti. Entrambi abbiamo le ali, entrambi possiamo volare in alto e possiamo volare da soli o in compagnia. A me piace volare con te ma non posso più trascorrere tutto il mio tempo a stare nel porto ad apprezzare le navi ancorate. Ho bisogno di volare in alto come mi spingono le mie ali. Mi piacerebbe volare con te, averti al mio fianco, però posso anche capire che tu preferisca crogiolarti al caldo del sole. Ognuno ha una sua natura da riconoscere, rispettare e onorare. E ognuno ha anche la libertà e la volontà di impegnarsi in una sfida per superare la presunta limitatezza delle proprie ali”.
Questo discorso così chiaro colpisce il gabbiano e lo commuove. Sente che l’aquila ha ragione e allora le dice: “Raccontami ancora le avventure del gabbiano Jonathan Livingston in modo che io possa imparare a volare più in alto”.
(brano tratto dal libro “I porcospini di Schopenhauer” di Consuelo Casula, Franco Angeli Editore)
Sarà capitato a tutti di fare le cosiddette “grandi pulizie”: svuotare e riordinare cantine, garage, ripostigli, cassapanche o scatole che non aprivamo da parecchi anni e che contenevano vecchi documenti o fotografie.
E alzi la mano chi non ha mai pronunciato almeno una di queste frasi: “Può sempre essere utile”, di fronte ad qualcosa che non abbiamo mai usato; “Lo avevo ancora conservato??? Non lo avevo già buttato?”, riferendosi ad un oggetto che la nostra mente non ricordava quasi più; “Beh, è ridotto male, ma è un ricordo di mamma/papà/nonno-a/zio-a/ cugino-a/ migliore amico-a” parlando di un vecchio regalo al quale teniamo particolarmente; “Si, come no! E io ci credevo pure!”, leggendo un bigliettino di San Valentino di un ex con su scritto “Insieme per sempre”; “Come sono invecchiato/a!” guardando una vecchia fotografia.
E quando ci troviamo di fronte a vecchi regali, biglietti di auguri, vestiti che non vanno più, ognuno di noi si trova a dover rispondere alla fatidica domanda: “Lo butto o lo conservo?”.
(Foto di Lorenza Fiorilli)
Sembra una cosa sciocca ma non lo è: di fronte a questa decisione entrano in gioco molteplici fattori, in particolare quelli emotivi. Ogni oggetto, che sia un vestito, un giocattolo di quando eravamo bambini, una cartolina, porta con sé tutte le emozioni, positive o negative, di quel particolare periodo o ci ricorda una persona che magari non c’è più. Ci si trova da soli, con quell’oggetto in mano e ci si sente dubbiosi sul da farsi. Ma, alla fine, riusciamo sempre a prendere una decisione; e quando si decide di non conservarlo è perché facciamo appello alla nostra parte razionale oppure perché preferiamo tenere con noi il ricordo di quell’oggetto piuttosto che conservarlo fisicamente.
Quando invece prendiamo la decisione di tenerlo, l’importante è che l’oggetto in questione susciti in noi emozioni positive o che sia legato a momenti piacevoli della nostra vita, in quanto conservare cose che ci ricordano persone con cui non abbiamo più un bel rapporto oppure oggetti che ci rimandano ad un momento spiacevole può essere d’intralcio al nostro cambiamento.
In che modo? Ce lo spiega lo “space clearing”, ovvero “l’arte di fare spazio”, una disciplina che mette in stretta relazione l’ordine esteriore con quello interiore; secondo i fautori di questa disciplina dovremmo tenere con noi solo cose utili o che, comunque, suscitano in noi ricordi piacevoli ed emozioni positive. Conservare oggetti inutili o che riportano alla mente ricordi negativi o spiacevoli può impedirci di affrontare e accettare i cambiamenti che la vita ci offre, in quanto accumulare oggetti superflui può creare un “ingombro interiore” e diventare una “zavorra emotiva” che ci tiene ancorati ad un passato che non ci appartiene più.
Tale disciplina chiama gli oggetti inutili o superflui “clutter”, e sono tutti quelli legati ad esperienze passate che ci procurano emozioni negative quali tristezza, malinconia o rabbia, oppure oggetti che ci sono stati regalati da persone che, per qualche ragione, vorremo dimenticare.
Fare ordine nei nostri armadi e cassetti, quindi non è una cosa così banale, ma ordine e cambiamento sono spesso legati; non a caso, quando stiamo passando un periodo di trasformazione, quale può essere la fine di una relazione amorosa, il trasferimento in una nuova città, o un cambio di lavoro, viene voglia di riordinare; questo perché quando facciamo ordine nella nostra casa, mettiamo ordine in noi stessi.
Quante volte, ormai sempre più spesso, sentiamo o leggiamo notizie sulla crudeltà umana? Uomini che usano violenza sulle compagne, adolescenti che picchiano a sangue un senzatetto, persone che maltrattano e seviziano gli animali.
Ma perché succede tutto questo? Da cosa derivano i comportamenti violenti? Ci sono delle cause scatenanti?
Sull’origine dei comportamenti violenti sono state e vengono continuamente condotte numerose ricerche da parte di psichiatri, psicologi e criminologi. Tra questi lo psichiatra e criminologo Adrian Raine, che ha concentrato i suoi studi sulle basi biologiche e anatomiche della violenza, ha dimostrato che un cattivo funzionamento del cervello può aumentare la probabilità di mettere in atto comportamenti violenti; in particolare il distacco tra corteccia frontale e sistema limbico: ciò renderebbe l’individuo incapace di controllo e incapace di provare empatia.
Foto di Lorenza Fiorilli
E proprio di quest’ultimo concetto si è occupato lo psicologo britannico Simon Baron Cohen secondo il quale proprio l’assenza di empatia, ovvero la capacità di mettersi nei panni degli altri (sulla quale ho dedicato un mio precedente articolo che potete trovare su https://www.emozionamici.it/2018/04/11/empatia-questa-sconosciuta/), sarebbe la spiegazione scientifica della cattiveria. Ovviamente, come sottolinea lo stesso Cohen, la sola mancanza di empatia non basta a giustificare un comportamento violento, ma sarebbe impossibile procurare volontariamente sofferenza ad un altro essere vivente se si provasse empatia.
Perché ho appena citato, volontariamente, essere vivente e non “persona” o “essere umano”? Perché la violenza si mette in atto anche verso gli animali; anzi, svariati studi realizzati negli Stati Uniti hanno dimostrato che la crudeltà contro gli animali è uno dei fattori predittivi di futuri comportamenti violenti verso altri esseri umani. Il risultato di numerose ricerche hanno mostrato che ragazzi che avevano ammesso di aver inflitto violenze contro gli animali, in seguito hanno commesso atti di delinquenza gravi quali furti o aggressioni. Ma non solo: gli adulti crudeli verso gli animali spesso sono gli stessi che picchiano la propria compagna, i propri figli o le persone più deboli. Una ricerca condotta su tale correlazione ha mostrato che quando un individuo di sesso maschile ha già minacciato di violenza il proprio animale domestico, quintuplica il rischio che la partner diventi anch’essa una vittima di violenza.
Ma che vissuto hanno le persone crudeli? In quale ambiente sono cresciute?
Un bambino cresciuto in un ambiente arido, ostile e di deprivazione affettiva avrà maggiori possibilità di diventare violento. Il famoso psicologo americano John Bowlby ha dedicato la sua vita allo studio delle cure nella prima infanzia concentrando le sue ricerche sul rapporto madre-bambino e su come questo possa influire sullo sviluppo di una personalità sana o disturbata, sviluppando la sua famosa “Teoria dell’attaccamento”; egli ha dimostrato, tra le altre cose, che l’attaccamento è uno degli elementi chiave nella formazione dell’empatia e che il comportamento antisociale si ha più frequentemente nei bambini che non hanno formato relazioni affettive stabili. Essenziale, quindi, è l’ambiente in cui cresce il bambino: se osserva altri comportarsi in modo crudele, svilupperà la consapevolezza che sia una cosa lecita e naturale. Un bambino educato alla violenza può subire quella che può essere denominata “dipendenza dal male”.
Concludendo, la violenza e la crudeltà, possono avere sia origini biologiche che ambientali, ma se si educasse al rispetto, all’amore, all’empatia verso ogni essere vivente, se ognuno si sforzasse di mettersi nei panni dell’altro, se quando si parla con un amico, con un conoscente, lo si guardasse negli occhi e lo si ascoltasse veramente, se i genitori facessero capire ai propri figli quando stanno mettendo in atto un comportamento violento o comunque poco rispettoso verso un animale o verso un coetaneo, forse si riuscirebbero a far diminuire atti crudeli e spietati.
Sempre più spesso si sente nominare nei servizi giornalistici, in televisione o in radio il termine resilienza; ma cosa si intende con esso? E perché è così importante nella vita?
La psicologia ha preso “in prestito” questo concetto dalla fisica, con il quale si indica la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi e di riacquistare un assetto più possibile simile a quello originario.
Come un pezzo di metallo può subire degli urti e ritrovare una nuova forma, anche gli esseri umani hanno in sé la capacità di fronteggiare e superare un evento traumatico od un forte stress. Ognuno di noi, chi più chi meno, ha dovuto fare i conti, nella vita, con un evento negativo: un lutto, una malattia improvvisa, la fine traumatica di una relazione amorosa, un tradimento da parte di una persona di cui ci fidavamo, un evento traumatico ed improvviso come un terremoto.
Una fotografia altamente simbolica: le increspature della vita dalla quali non dobbiamo mai farci travolgere e la bandiera che fluttua con il vento, non opponendosi ad esso…(Foto di Lorenza Fiorilli)
Quando l’essere umano si trova ad affrontare queste circostanze, le prime sensazioni sono impotenza, dolore, sconcerto, delusione, rabbia, frustrazione; alcuni si fanno abbattere da queste emozioni negative, altri no. Da cosa dipende ciò? Dal fatto di avere o no una personalità resiliente: ovvero, non solo di possedere la capacità di riuscire ad accettare e superare gli eventi negativi che la vita ci pone davanti, ma anche, e soprattutto, di vederli non come una sconfitta, non come una perdita di qualcosa o qualcuno, ma come una nuova opportunità da cui scoprire lati di noi che non sapevamo di avere, dalla quale rialzarsi e rinascere più forti di prima, dalla quale organizzare in maniera diversa la nostra quotidianità.
Non è semplice, e neanche immediato tutto ciò, ma come ha affermato lo psicologo statunitense George Bonanno : “Il genere umano è portato naturalmente alla resilienza”.
è essenziale, dopo una circostanza negativa o traumatica, non percepire noi stessi come vittime, non cadere nella trappola dell’autocommiserazione, non rassegnarsi con passività al corso degli eventi.
Ovviamente, ogni persona ha un proprio vissuto, ha un backgound culturale e sociale che può facilitare il mettere in atto un comportamento resiliente; ma ci sono alcuni fattori e risorse personali che possono contribuire a tutto ciò. Tra questi avere una rete sociale e affettiva di supporto, accettare i cambiamenti come parte della vita stessa, guardare agli eventi da un’altra prospettiva, perseguire sempre i propri obiettivi, nutrire l’autostima, prendersi cura di se stessi.
Non si può impedire agli eventi negativi di accadere, lo vorremmo tutti, ma la vita non va così: essa è piena di imprevisti, di sorprese, ma soprattutto di cambiamenti, che fanno parte della natura stessa: come un albero non ha lo stesso aspetto in autunno e in primavera, il mare non ha lo stesso colore in Agosto o in Febbraio, il piumaggio degli animali muta al cambiare delle condizioni climatiche, noi non siamo le stesse persone di qualche anno o mese fa, e non saremo, tra qualche mese o anno, le stesse persone che siamo oggi.
Facciamo in modo che gli urti che subiamo non ci spezzino, ma ci plasmino in una nuova forma.
Non so quanti di voi ricordano la raccolta di figurine “Love is…” (che rientrano tra quelle che compravo da bambina ma di cui non finivo mai la collezione completa!): c’erano due personaggi, uno maschile e uno femminile, ritratti tipo fumetto, che in ogni figurina rappresentavano delle situazioni tipiche di una coppia innamorata; sulla parte alta c’era scritto, appunto, love is…, e in basso la dicitura raffigurante la situazione stessa.
Tra le tante didascalie c’erano: “avere quel pizzico di cavalleria”; “non mostrare mai impazienza”; “un tenero abbraccio sulla porta di casa”; “essere rannicchiati vicini vicini sul divano”; “portarla ad un concerto all’aperto”. Questi sono solo alcuni dei modi in cui, secondo i creatori delle figurine, è possibile mostrare amore nei confronti di un’altra persona.
Ma cos’è veramente l’amore? E non solo inteso quello verso un altro essere vivente ma anche quello per il proprio lavoro, per la propria casa, per la natura; prima di dare qualche definizione più “scientifica” e razionale, vi dico cosa è per me l’amore:
è amore quando, nonostante abbia quasi quarant’anni, non riesco ad andare a dormire se non do la buonanotte a mia madre, personalmente, o telefonicamente se non ci troviamo nello stesso luogo; è amore quando ho aspettato anni, dopo la morte di mio padre, prima di mangiare di nuovo le pannocchie lesse, che avevamo l’abitudine di mangiare insieme il pomeriggio di Ferragosto, e anche se sono riuscita ad assaggiarle di nuovo, senza di lui non hanno più lo stesso sapore; è amore, quando nonostante siano passati più di venti anni dalla perdita di alcuni miei gatti, alcune notti sogno ancora che sono vivi e che stanno giocando in giardino, allora scendo di corsa le scale per andare da loro, ma mi sveglio con le guance bagnate di lacrime; è amore quando, nonostante è dalla nascita che abito sempre nella stessa casa, ancora mi emoziono a vedere il sole che filtra dalle finestre…
Foto di Lorenza Fiorilli
Dal punto di vista anatomico e biologico, ogni area del nostro cervello è deputata al riconoscimento e alla gestione di particolari capacità; l’area coinvolta nell’amore, e quindi nelle emozioni e nei sentimenti è il sistema limbico, in particolare una ghiandola, a forma di mandorla, detta amigdala, e che si trova all’incirca in corrispondenza della tempia.
Ovviamente, come ogni essere vivente è unico, così sarà unico anche il suo cervello, e quindi unica la sua capacità e l’intensità ad amare. In particolare, il cervello femminile e quello maschile sono diversi dal punto di vista anatomico, come dimostrano studi scientifici, e quindi diverso è il modo in cui riconoscono ed elaborano le emozioni.
Tornando alle nostre figurine, e cioè all’amore tra due partner, alcuni studi nel campo della scienza delle relazioni hanno evidenziato che alcune caratteristiche comportamentali e alcune situazioni possono contribuire alla nascita e al mantenimento di una relazione amorosa. Tra queste: saper ridere insieme; somigliarsi dal punto di vista intellettivo e formativo; essere gentili; avere un atteggiamento accomodante; avere buone capacità di dialogo.
Ognuno di noi pensa di sapere cosa sia l’amore, di conoscerlo, di provarlo, di dimostrarlo, ma credo che al di là delle ricerche in campo scientifico e psicologico e al di là dei consigli degli esperti, il modo più semplice di sapere se si stia amando nel modo “giusto” un’altra persona, sia guardarla negli occhi e vedere se riusciamo a donargli serenità e gioia, e se, in altre situazioni che non riguardano il nostro partner, riusciamo ad emozionarci e a provare entusiasmo, anche per cose che possono sembrare banali…
Per me il nuovo anno non è mai iniziato il 1° Gennaio ma il 1° Settembre.
Forse perché in ogni fase della mia vita è sempre coinciso con qualcosa di nuovo da fare (che personalmente ha riguardato in particolar modo gli studi): è il mese in cui incominciava il nuovo anno scolastico e quindi c’era il diario da scegliere, i libri che profumavano di nuovo, l’aspettativa e la “paura” nei confronti dei nuovi insegnanti; poi è arrivata l’università con il nuovo anno accademico e i gli esami da sostenere; dopo ancora le prove da affrontare per diventare psicologa.
Foto di Lorenza Fiorilli
E’ sempre stato il mese in cui, da bambina e da adolescente, fantasticavo sul mio futuro e sui sogni che avrei voluto realizzare; e anche ora, che ho raggiunto gli obiettivi che mi ero prefissata, Settembre mi dà sempre quella carica, quell’ottimismo e, a volte, quella sana incoscienza di incominciare nuovi progetti e affrontare nuove sfide.
Ma è cosi solo per me? Certo che no.
Settembre per molti è il mese di una “rinascita”, di un nuovo inizio: chi comincia (o ricomincia) ad andare in palestra; chi vive insieme ai propri figli la novità di iniziare un nuovo ciclo scolastico; chi, dopo le ferie, magari cambia ufficio o mansioni, o chi, semplicemente, ricomincia la propria routine quotidiana ma la affronta in modo nuovo. Perché non c’è bisogno di stravolgere la propria vita o di porsi obiettivi inarrivabili; basta guardare alle cose che già si hanno in modo nuovo, con più gratitudine e con meno atteggiamento critico. Il “nuovo inizio” non deve coincidere per forza con un cambio di lavoro, di città, di sport da praticare, ma può essere anche semplicemente interiore.
Se avete un obiettivo da voler realizzare, piccolo o grande che sia, o qualcosa che non avete mai osato mettere in pratica, per paura di non farcela o del giudizio altrui, questo è il mese giusto per farlo. Le cose nuove possono far paura, ma se affrontate con lo spirito giusto possono essere fonte di grandi soddisfazioni.
Sarà per il cielo così terso che ho l’impressione che sia più blu rispetto agli altri mesi, tanto che alcune volte mi incanto a guardarlo; sarà per quel mare cristallino e che luccica come se ci fossero migliaia di diamanti sparsi; sarà per quell’aria né calda né fredda, ma Settembre è il mese in cui anche l’impossibile mi sembra possibile…
La pianta di mentuccia che la mia bisnonna materna, nonna Rosa, mi invitava sempre ad odorare perché a lei piaceva molto; il profumo di quei piccoli fiorellini rosa che andavo a raccogliere nel giardino di casa e che donavo a mia madre per farmi perdonare quando da piccola la facevo arrabbiare; quel misto di odori che c’era nel bagno appena mio padre si radeva la barba; la fragranza della torta di mele appena sfornata da mia nonna Anna..
Questi sono solo alcuni dei bei ricordi olfattivi legati alla mia infanzia e che non dimenticherò mai.
Foto di Lorenza Fiorilli
I ricordi, però, possono essere legati anche ad esperienze spiacevoli o dolorose, come quel misto di odori sgradevoli e pungenti che c’era nella clinica veterinaria dove qualche hanno fa ho dovuto far ricoverare una dei tanti gatti che ho amato e accudito nella mia vita, e che purtroppo non ce l’ha fatta..
Alcune volte mi sembra di averli ancora nelle narici, come fosse ieri; chiudendo gli occhi è come se quei fiorellini o quella torta fossero qui, davanti a me.
Ma come facciamo a ricordare così bene un odore, un profumo, un aroma, un’essenza anche se sono passati molti anni? Tutto ciò è possibile perché, a differenza dei ricordi visivi o uditivi che affievoliscono con il passare del tempo, quelli olfattivi non hanno questa caratteristica; al contrario, sono proprio i ricordi più antichi i più facili da essere riattivati.
Inoltre, gli stimoli olfattivi non vengono memorizzati e archiviati nel nostro cervello come dei semplici stimoli, ma sono legati al contesto in cui abbiamo sentito quell’odore; ecco, quindi, che appena ci torna alla memoria o risentiamo inavvertitamente, magari camminando per strada, un particolare profumo, ci rituffiamo nel passato e insieme a quel ricordo olfattivo ci ritorna alla mente quel luogo, quella persona, quella situazione e insieme ad esso riproviamo le stesse sensazioni ed emozioni di tanti anni fa, siano essi piacevoli o spiacevoli.
Un’altra caratteristica dei ricordi olfattivi è quella di non essere cosciente, ovvero il recupero nella nostra memoria si verifica in maniera inconsapevole. Questo avviene perché gli odori entrano nella cavità nasale dove alcune cellule specializzate trasmettono i segnali al bulbo olfattivo che si trova nel cervello; i neuroni che trasmettono gli odori dal naso al bulbo olfattivo hanno strette connessioni con il sistema limbico che può essere considerato “la sede delle emozioni”; odori ed emozioni, quindi, sono legate tra loro.
Ognuno di noi conserva gelosamente, nel naso e nel cuore, dei particolari odori.
Se mi chiedete quale è stata una delle costanti nella mia vita, vi rispondo: il mio smisurato, immenso e a volte “folle” amore per gli animali..
Sono cambiate le amicizie, sono finiti gli amori, sono variati i progetti di vita, sono mutate le mie certezze su alcune persone che hanno tradito la mia fiducia, ma loro, gli animali, sono stati sempre lì, a tendermi una zampa, a farmi le fusa, a regalarmi un momento di gioco e di svago quando più ne avevo bisogno, a farmi capire che io dovevo esserci per loro, che non dovevo lasciarmi abbattere da un momento di sconforto, di delusione o di difficoltà, perché loro avevano bisogno di me. Sono stati, e sono tuttora, una parte importantissima della mia vita. Alcuni si sono rivelati, per me (in particolar modo i gatti!) un “dono divino”; sono arrivati, quasi fossero caduti dal cielo, da un giorno all’altro, in dei periodi di transizione, in particolari momenti , quasi a volermi dire: “Noi siamo qui per te..”
Ebbene, oggi voglio parlarvi proprio dell’importanza di avere a fianco un animale, che esso sia un cane, un gatto, un criceto, o una tartaruga.
Ormai si parla spesso di come faccia bene la vicinanza con un “amico peloso”: svariate ricerche hanno dimostrato come prendersi cura di un animale abbassi lo stress, migliori l’umore, alzi le difese immunitarie e diminuisca il rischio di soffrire di disturbi cardiocircolatori.
Oltre ad apportare benefici sul piano fisico, amare ed accudire un animale, porta miglioramenti soprattutto sul piano psicologico, emotivo e comportamentale. Il primo a capire l’importanza di ciò fu Boris Levinson, psicologo infantile di origini statunitensi, quando, nel 1953, durante una seduta con un bambino affetto da autismo notò che il suo piccolo paziente si diresse verso il cane di Levinson, per caso presente nello studio, dimostrandosi più propenso all’interazione sociale.
Da ciò, egli dedusse che gli animali fossero dei mediatori utili a ristabilire i contatti sociali, e nel 1961 fu lo stesso psicologo a coniare il termine pet therapy, letteralmente “terapia con gli animali domestici”, che ancora oggi viene usata come tecnica di intervento terapeutico. Gli animali ai quali si ricorre maggiormente sono cani, gatti, cavalli e anche delfini; ognuno di loro è indicato per un disturbo in particolare: il cane contribuisce a migliorare lo stato di salute in generale, il gatto aiuta a diminuire lo stress, i cavalli sono consigliati soprattutto per bambini affetti da autismo o sindrome di Down, i delfini per persone affette da depressione.
Affinché, però, un essere umano riesca a godere degli effetti benefici di un animale, si deve creare quella speciale relazione, quel particolare feeling, quel rapporto di amore, di fiducia e di rispetto.
Tornando a me, l’ultima creatura con la quale ho incrociato casualmente lo sguardo, è stato quel cagnolino di cui ho parlato nel mio articolo sull’empatia, sempre su questa rubrica; alcune persone mi hanno chiesto che fine abbia fatto: ebbene, ora ha trovato una nuova padrona, anzi no, non mi piace definire così chi si prende cura di un animale perché il termine “padrona” o “padrone” implica un rapporto di subordinazione; ha trovato una nuova amica: la signora del palazzo che ho menzionato sempre nel mio precedente articolo.
Ora è felice: scodinzola di nuovo, corre, va a passeggio e rincorre la pallina; lo vado a trovare spesso e quando mi vede mi riconosce e mi si avvicina. Non potete capire la gioia che provo quando lo vedo scodinzolare felice con la sua buffa codina, quando gioca con la sua nuova amica, quando si lecca i baffi dopo aver mangiato una cibo di suo particolare gradimento..
Ecco, alcune persone possono ferirmi, delle situazioni possono deludermi ma la cosa che niente e nessuno potrà mai togliermi è il mio smisurato, immenso, e a volte “folle” amore per gli animali…