Sul finire del 1600 faccio la mia comparsa sulle tavole toscane: custodisco, nel mio impasto, di farina, zucchero e chiara di uovo, come scrive di me la prestigiosa Accademia della Crusca.
Qualche anno dopo aggiungono anche le mandorle, ma bisognerà attendere il 1800 affinché io possa assumere le fattezze che oggi tutti conoscono ed apprezzano.
Ho
l’onore di essere portato persino a Parigi, in occasione dell’Esposizione
Universale del 1867.
Nasco da un impasto a forma di filoncino a base di farina, zucchero, uova, burro, miele e mandorle che viene poi tagliato a fette, e non è un caso che il mio nome cantuccino, derivi proprio “cantellus” che, in latino, significa pezzo o fetta di pane.
Ho molti fratelli sparsi in tutta Italia: nel Lazio ed in Umbria si chiamano tozzetti, in Basilicata stozze e in Sicilia tagliancozzi. Siamo tutti buoni ma, mentre alcuni di loro sono preparati anche con nocciole o gocce di cioccolata, io seguo l’antica ricetta perché mi fregio del marchio IGP, Indicazione Geografica Protetta.
Il mio compagno di avventure è il Vin Santo, ottenuto da uva trebbiano o malvasia e lasciata appassire dopo la raccolta.
L’aggettivo “Santo” sembra derivi dal fatto che un frate francescano, mentre la peste si era impossessata di Siena, nel XIV secolo, avesse curato dei malati proprio con il vino usato durate la celebrazione eucaristica.
Altri raccontano che qualcuno, giunto a Firenze dalla Grecia, assaggiando il vino, avesse detto che tanto somigliava al loro “Xatos”, il passito greco e da qui, per assonanza, il nome italiano di “Santo”.
Qualunque sia la sua origine, il Vin Santo è il mio compagno preferito perché mi ammorbidisce, rendendomi irresistibile e non c’è mai nessun turista che vada via dalla Toscana senza avermi gustato e io, ogni volta, mi lascio andare languidamente…
Sono
state le protagoniste delle festività natalizie da poco trascorse.
Si
dice che portino fortuna e denaro, ecco perché le si mangiano appena scoccata
la mezzanotte che saluta il nuovo anno.
Ma loro, dalla forma tondeggiante e dal colore che va dal verde al marroncino passando per una screziatura arancio, sono presenti sulla tavola degli uomini sin dai tempi antichissimi, quando venivano coltivate nell’area dell’Asia minore.
Protagoniste
anche in un racconto biblico nel libro
della Genesi della Sacra Bibbia, sono state per secoli chiamate “la carne dei poveri” perché ricche di proteine e ferro.
Stiamo parlando delle lenticchie, le cui più famose sono quelle di Castelluccio di Norcia, che hanno ottenuto, nel 1997, il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta).
Coltivate in quest’area a 1500 metri sul livello del mare già nel 3000 a.C., la pratica della coltivazione segue, da tempo immemore, sempre lo stesso rituale: il terreno nel quale verranno messe a dimore viene arato in primavera, la semina avviene tra marzo e maggio e proprio da maggio fino alla prima metà luglio, si ha il momento della loro fioritura, uno spettacolo davanti al quale centinaia di migliaia di turisti rimangono affascinati.
La
sua forma schiacciata e tondeggiante, fanno della lenticchia di Castelluccio un
vero capolavoro artistico che diventa poi, anche culinario, grazie alla sua
buccia fine che, però, non si sfalda dopo i venti minuti di cottura richiesti.
E’ la natura nella quale nasce e cresce a renderla così unica: la sua dimora è un altopiano che sorge su un fondo di un lago risalente all’epoca preistorica e che si è prosciugato. L’inverno rigido, l’innevamento e le gelate che ne conseguono, rendono il terreno particolarmente favorevole alla coltivazione, preservando altresì la lenticchia dall’attacco dei parassiti e questo consente anche di non usare sostanze chimiche e di continuare una coltivazione biologica.
Come
piatto unico, in zuppe o accompagnata dalla pasta, come compagna di formaggi
saporiti, la lenticchia di Castelluccio di Norcia è un capolavoro tutto da
gustare.
Una
terra come quella siciliana, che ha vissuto un esodo massiccio tra gli anni ’60
e ’70 del secolo scorso, non attende altro
che i suoi figli sbarchino dagli aerei o
dal traghetto che attraversa quel lembo di mare che la separa dalla Calabria.
E
cosa è Natale se non un ritorno a casa, tra le braccia dei propri familiari,
tra gli odori di una terra mai dimenticata?
E cosa è Natale se non preparare, in onore di chi ritorna in occasione del Natale, la tradizionale Scaccia cotta ancora nel focolare domestico?
Semplice ma gustosa, la Scaccia è una sorta di pizza-pane preparata con farina di semola di grano duro, lievito di birra e sale, ingredienti che, impastati insieme e fatti crescere, vengono poi lavorati nuovamente aggiungendo dell’olio extra vergine di oliva. L’impasto così ottenuto viene poi divisi in tanti panetti che vengono spianati. Poi si comincia a preparare il ripieno: la ricetta vuole che ci sia, al suo interno, la ricotta, le cipolline, l’uomo sbattuto e il formaggio. Il composto viene poi messo nella sfoglia di pasta e arrotolato sui bordi. Dopo aver passato sulla superficie un po’ d’olio, la Scaccia è pronta per essere infornata per circa mezz’ora in quel forno in pietra ancora ospitato in molti casolari di campagna.
La storia vuole che la Scaccia arrivò, per la prima volta sulla tavole natalizia, nel 1763, quando il Principe Moncada, la volle per celebrare la Santa Festività: da allora è sinonimo di Natale, di famiglia, di ritorni.
Tra i dolci tipici siciliani del periodo natalizio, invece, spicca il famoso torrone di mandorle, noto anche con il nome di cubaita, di origine saracena, tanto che il termine arabo qubbait significa proprio mandorlato.
La ricetta più diffusa e tipica,
infatti, vuole che siano utilizzate per la preparazione solo le mandorle unite
a zucchero
e miele, anche se ci sono varianti
nell’uso della frutta secca: c’è chi preferisce preparare il torrone con i
tipici e famosi pistacchi dell’area etnea in provincia di Catania o con il
sesamo.
Tipici della zona di Ragusa, anche le praline di cioccolato con la pasta di mandorle mista a cacao. Tradizione vuole che le prime a preparare questi deliziosi dolcetti siano state le suore del Monastero di San Carlo di Erice, e sempre in un Convento, quello di Martorana, a Palermo, nacque la pasta di mandorla, usata per la preparazione di rinomati dolci.
E anche se la Scaccia, il torrone alla mandorla, i pasticcini, possono essere preparati anche durante tutto l’anno, la magia dell’atmosfera natalizia regala loro un gusto unico e particolare, capace di arrivare sin dentro l’animo.
La tradizione è quell’anello che unisce due sponde egualmente importanti nella vita dell’uomo: il passato e il futuro. E così, ciò che è appartenuto agli avi diventa di nuovo nostro, nel presente, ed è pronto a tuffarsi nel futuro, laddove le nuove generazioni raccoglieranno il testimone fatto di sapori, emozioni, momenti di convivialità che si vivono, si assaporano, si ricordano.
E cos’è il Natale se non la massima espressione di condivisione e di tradizioni che strizzano l’occhiolino e che ci chiamano, ci ammaliano, ci rapiscono?
L’articolo di oggi apre una serie di storie legate alle tradizioni natalizie italiane: iniziamo con quella napoletana, fatta di un pranzo del 24 “di magro”, dove la pizza di scarola è la protagonista, pronta, poi, a passare il testimone ai dolci il cui nome fa subito Natale: struffoli, roccocò e mostaccioli.
Ma iniziamo dalla prelibata pizza di scarola che affonda le sue radici in centinaia e centinaia di anni fa, quando le donne di Napoli, per il pranzo della Vigilia, impastavano gli ingredienti della classica pizza con friarielli (che verranno poi abbandonati) e scarola, le due verdure più diffuse sulle tavole dei napoletani. Il cenone che sarebbe arrivato in tavolo la sera richiedeva stomaci sgombri da ogni prelibatezza e così all’ora di pranzo, le famiglie erano solite mangiare la pizza di scarola arricchita da uvetta passa, pinoli, olive, capperi, e anni dopo, anche con acciughe sotto sale debitamente diliscate.
E così il classico piatto povero per eccellenza, ovvero la verdura condita accompagnata dal pane, si era trasformata in una pizza alta, soffice, umida e morbida che solo chi l’ha gustata almeno una volta ne conosce l’inconfondibile sapore.
Ma
Natale è anche e soprattutto dolci…dolci che non sono solo da gustare ma da
ammirare, quasi fossero opere d’arte le quali nascono, ancora oggi, non solo in
tutte le pasticcerie, ma anche e soprattutto nelle case dove le mamme non hanno
mai relegato in un angolo le tradizioni
della propria famiglia, ma la continuano a portare avanti, con gioia e
pienezza d’animo.
Proprio
come le sorelle Maria, Rita e Rosa le
quali, in prossimità delle feste natalizie, inondano le proprie case di odori e
sapori che non sanno solo di zucchero, miele, cioccolato ma di tradizioni, di
desiderio di voler continuare a fare ciò che la madre e le nonne erano solite
fare per loro.
Immancabile
ad arrivare sulle loro tavole, la pizza di scarola :” Che dava la possibilità alle donne, di impiegare tutto la giornata
del 24 nella preparazione del cenone”, come dichiara Maria.
Ma
l’aria si riempie di buonissimi odori molti giorni prima di Natale, con quei
dolci che:” Vengono preparati con largo
anticipo in quanto, essendo secchi e senza creme al loro interno, si conservano
senza problemi”.
E quando si parla di dolci natalizi, immancabile sulle tavole, il re: gli struffoli : “Palline di pasta con farina uova, zucchero che vengono fritte e poi, una volta raffreddate, colate di miele e decorate con confettini colorati”.
La tradizione vuole che il nome struffoli derivi dal greco, ma non si esclude un legame anche con la lingua e la tradizione spagnola che ha tra i suoi dolci la pinonate, che molto ricorda i nostri struffoli.
Francese sembra invece essere l’origine del nome roccocò, altro famosissimo dolce natalizio campano: “Un impasto di farina, zucchero, mandorle o nocciole e pisto, ovvero un mix di spezie”.
Delizia per il palato e “uno tira l’altro” i mostaccioli, rombi di pasta morbida con la variante al rum e cosparsi di glassa al cioccolato.
E
così, quando arriva Natale, con lui giungono da un remoto passato anche quegli
antichi gesti, sapori, odori, sapori che ci prendono ancora per mano,
accompagnandoci verso il futuro.
Dalla necessità di un popolo è nato il simbolo dello strett food napoletano: il cuoppo, o per dirla in dialetto, o’ cuopp.
Si narra, infatti, che il popolo partenopeo acquistasse dai pescatori di ritorno dall’uscita in mare, del pesce di piccole dimensioni che non avrebbe trovato spazio sul mercato ittico. Proprio questo pesce di piccolo o piccolissimo taglio, andava a finire nelle padelle delle famiglie più povere che provvedevano, per dargli più gusto, a friggerlo.
La preparazione di alimenti fritti, in primis il semplice impasto della tradizionale pizza, divenne persino un’attività lavorativa per molte donne che , fuori dalle loro case, vendevano le famose e caldissime pizze fritte, celebrate dalla grande Sofia Loren nel film “L’oro di Napoli”.
Soldi ce ne erano sempre pochi e così il piazzaiolo vendeva la pizza e segnava su un quadernino i nomi di coloro che si impegnavo e saldare il debito contratto al massimo entro otto giorni.
Ecco il motivo per il quale il famoso cuoppo napoletano è conosciuto anche con il suo secondo nome di “oggi a otto”.
Il turista che si inoltra per le vie di Napoli, non può fare a meno di notare come in ogni angolo ci siano pizzerie che vendono le pizze a portafoglio, ovvero una classica pizza napoletana di dimensioni minori e che essendo poi piegata a portafoglio, appunto, può essere mangiata anche in strada. Ma immancabili sono anche le friggitorie che offrono i famosi cuoppi, i quali possono essere di due tipi: di mare, con gamberetti, alici, calamari, e di terra, con pastecresciute, Montanare, verdure pastellate (melanzane, zucchine, cavolfiori, peperoni, carote), arancini di riso, crocchette e frittatine di maccheroni.
L’abito del cuoppo è la carta paglia che viene avvolta a forma di cono dal quale l’acquirente, come un abile prestigiatore, tira fuori, talvolta aiutandosi con un lungo spiedino di legno, tutte queste prelibatezze, figlie della migliore tradizione gastronomica napoletana.
Le protagoniste indiscusse del cuoppo sono soprattutto le frittatine di pasta, le pizzette fritte chiamate Montanare e le crocchette di patate, il famoso crocchè.
Le prime sono la versione monoporzione della famosa frittata di maccheroni: si presentano come dei dischetti di pasta, di solto bucatini tagliati, arricchiti con besciamella, dadini di prosciutto e pisellini. Le Montanare, invece, sono le classiche pizzette fritte che devono il loro nome ai montanari, i quali, scendendo dalle colline, arrivavano a Napoli con il questo gustosissimo cibo da asporto.
A differenza della pizza cresciuta, che viene fritta, alle Montanare viene aggiunta, sopra, la salsa di pomodoro, il pecorino in scaglie e una foglia di basilico.
Le crocchette di patate, noti anche con il nome di panzarotti ma che a Napoli sono chiamati con il loro diminutivo “crocché”, sono invece un impasto a base di patate, uova, formaggio e pepe.
E quando anche l’ultima verdura pastellata scomparirà dal cono di carta paglia si avrà la certezza non solo di avere gustato un trionfo di sapori, ma anche di aver mangiato un pezzetto di storia partenopea.
Un vassoio di pasticcini preparati con pasta di mandorle e tutto assume un altro sapore.
Sarà per l’impasto leggermente e tipicamente umido delle che li contraddistingue, sarà per la languida morbidezza che avvolge il palato, sarà per l’inconfondibile profumo che inebria l’olfatto, comunque, gustare un pasticcino con “pasta reale” è davvero una dolce coccola.
La pasta di mandorle, indiscussa protagonista dei dolci siciliani, è infatti nota anche con il nome di pasta reale, derivante, con molta probabilità, dal fatto che una volta nato il primo dolce da questo impasto, chi lo avesse preparato, abbia esclamato: “E’ un dolce da re”.
La tradizione vuole che i primi a impastare le mandorle con lo zucchero siano stati gli arabi al tempo della loro dominazione sull’isola, ma sembra molto più probabile che a dar vita, per la prima volta, ad un dolce con “pasta reale”, siano state, nel 1100 circa, le suore del Convento di Martorana, a Palermo, nei pressi della Chiesa di Maria dell’Ammiraglio. Questo impasto, conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, ha meritato il titolo di “Prodotto Agroalimentare Tradizionale siciliano”.
Tra i dolci più noti spicca la famosa “Frutta Martorana”, così chiamata proprio in onore al nome del convento che per primo regalò questo impasto. Altra specialità è l’agnello pasquale con pasta di mandorle e pistacchi di Bronte.
Ideali per accompagnare un thè, eleganti insieme al caffè, talmente raffinati da portarli portare in dono alla padrona di casa che ci ha invitato a pranzo o a cena, morbidi, profumati, deliziosamente unici: i pasticcini alla pasta di mandorle sono parte di quel patrimonio dolciario italiano apprezzato in tutto il mondo.
E’ il 1874 quando i clienti di una delle tante trattorie di Roma leggono, per la prima volta, nella lista dei piatti proposti, “Souplis di riso”.
Incuriositi dal nome, che tradisce una qualche vaga parentela con la lingua francese, non a caso sembra derivare dal termine d’Oltralpe “surprise”, ovvero, sorpresa, ne ordinano uno… eccolo arrivare: è caldo, profuma di fritto, ha un volto rassicurante e al tempo stesso malizioso.
La sorpresa la si ha quando lo aprono, con le mani, a metà : al suo interno custodisce un cuore di mozzarella filante capace di legare le due parti di questo alimento preparato con il riso.
Dalla trattoria romana il balzo che la ricetta farà in tutte le case, prima dei romani poi di tutta Italia, sarà tanto breve quanto duraturo.
Le mammelo preparano con gli avanzi del riso e del sugo di carne della domenica, ma nessuno considererà mai il supplì come un modo per riciclare ciò che è rimasto nelle pentole del pranzo di un giorno di festa.
Due le correnti di pensiero sulla pianatura: chi lo infarina, lo passa nell’uovo e poi nel pangrattato, chi invece usa solo l’uovo e pangrattato.
Il classico supplì fronteggia oggi la concorrenza di alcune varianti: c’è chi aggiunge al suo interno delle verdure, chi della pancetta, ma l’intramontabile supplì che ha incantato prima i romani e poi l’Italia e il mondo intero, è sempre il classico, con riso al sugo e mozzarella.
Il supplì riesce a superare il suo essere solo un alimento perché sa diventare poesia, il simbolo di una parentesi gustosa e sfiziosa tra il pranzo e la cena, il compagno di un’attesa, un momento di puro gusto.
Ma è anche l’indiscusso protagonista di una serata in pizzeria tra amici: mentre si attende l’arrivo della pizza, se ne gusta qualcuno caldo caldo.
E se ti trovi in strada e noti da lontano una buona friggitoria e passi lì di fronte, è quasi impossibile resistere alla tentazione di entrare e di acquistarne uno e quando sei lì e lo porti alla bocca, all’improvviso non ti sei senti più solo, perché in quel momento il supplì già ti fa compagnia…e dimentichi le calorie che stai ingerendo, le dieta, l’autobus che devi prendere per tornare a casa: esiste solo lui e nello stesso istante in cui lo addenti, non puoi fare a meno di chiudere gli occhi.
Lui, il supplì, non concede strappi alla regola: vuole essere mangiato con le mani…è così, infatti, che lo gustano da un capo all’altro del mondo. Locali che vendono supplì li troviamo dalle grandi metropoli nordamericane, New York in testa, fino all’ipertecnologica Tokio.
Anche la filmografia italiana lo ha celebrato in alcuni suoi film: da “La Parmigiana” con un Nino Manfredi che li addenta con voracità, al più recente “Poveri ma ricchissimi”, in cui la famiglia protagonista dei Tucci riesce a mangiarne interi vassoi senza stancarsi mai.
E provateci anche voi…sì provateci ad acquistarne uno e a portarlo a casa senza aver avuto la tentazione, nemmeno per un istante, di addentarlo per strada…
Una serata tra amici, una cena improvvisata, ma anche una colazione alternativa o una coccola a metà pomeriggio…è sempre lei ad offrirci la sua leggiadra bontà, a deliziare palato e cuore, a regalarci quella sua capacità di farci sorridere, appena dato il primo morso: la pizza.
Conosciuta ed apprezzata sin dall’antichità, una sua diretta antenata la vede protagonista sulla tavola degli etruschi, dei greci, dei babilonesi e degli egiziani, i quali preparavano, in occasioni di eventi particolarmente importanti, una focaccia arricchita con erbe aromatiche.
E’ però con i Romani che la nostra pizza ha i legami più profondi, sia da un punto etimologico che da quello delle tradizioni: il grande Publio Virgilio Marone, l’autore dell’Eneide, in alcune sue opere parla della preparazione di un impasto, il “libum”, una sorta di focaccia di farro macinato.
Il termine pizza, inoltre, deriva dal participio passato del verbo “pinsere”, ovvero schiacciare, macinare, pestare, verbi che ancora oggi sono strettamente legati al momento della preparazione dell’impasto stesso.
E in molti, nell’antico impero romano, seguivano questo rituale per preparare il libum: s’iniziava con la macinazione dei chicchi di farro, si setacciava la farina così ottenuta, la si impastava con acqua e sale, si aggiungevano erbe aromatiche, la si lavorava sino ad ottenere una sfoglia sottile che veniva poi cotta sulle ceneri del focolare domestico.
Secoli e secoli dopo, la storia decide di fare l’occhiolino all’inventiva del popolo napoletano: è il 1889, il Re d’Italia, Umberto I è a Napoli con la consorte, la Regina Margherita. La coppia reale viene omaggiata dal miglior pizzaiolo della città, Raffaele Esposito, da tre pizze. La prima, la classica, con pomodoro e basilico, la seconda, alla marinara, con pomodoro, aglio e origano, la terza con pomodoro, mozzarella e basilico creata appositamente da Esposito per omaggiare i colori della bandiera italiana. La storia narra come la Regina Margherita, colpita dalla grande maestria del pizzaiolo napoletano, l’abbia voluto incontrare di persona per complimentarsi con lui. E Raffaele, in segno di viva ed eterna riconoscenza per questo gesto, decise di chiamare quella pizza condita con pomodoro, mozzarella e basilico, pizza Margherita, appunto, in onore della Sovrana d’Italia.
Dal 1889 la pizza Margherita è la pizza per eccellenza, la più richiesta e quella che sempre con grande piacere viene preparata nelle case degli italiani, magari nei lunghi pomeriggi invernali.
Il 2004 è stato l’anno nel quale la pizza napoletana ha ottenuto il marchio Sgt (Specialità tradizionale garantita), proprio per tutelare la modalità di lavorazione e le materie prime che devono essere usate. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’unico macchinario consentito è quello dell’impastatrice nella sola fase di preparazione, mentre i panetti e la sfoglia, che sarà lavorata a disco, dovranno conoscere solo la mano dell’uomo. La cottura dovrà avvenire a forno a legna, ad una temperatura di 485° e la durata sarà compresa tra i 60 e i 90 secondi.
Gli ingredienti per la pizza a marchio Sgt, invece, saranno pomodori pelati o pomodorini freschi, olio extravergine di oliva, aglio, origano, per la Marinara , mozzarella di bufala campana DOP, basilico fresco e mozzarella Sgt per la Margherita.
La pizza: un alimento che affonda le sue radici nella storia dell’uomo e che ancora oggi è capace di scaldarci il cuore.
Nel nome, il destino: l’origine etimologica della parola basilico è legato alla regalità, infatti, significa “Erba del re”.
E come affermare il contrario? Come non attribuire alla pianta del basilico un ruolo di primo piano nella cucina mediterranea, un ruolo da re, appunto?
In un sugo leggero, sull’immancabile fresella estiva, sulla “panzanella”, su un pomodoro tagliato a metà…ma il suo trono, quello dal quale ha saputo affascinare le tavole di tutto il mondo, è il pesto.
Una salsa unica, semplice, che è stata celebrata oltreoceano nei primi anni ottanta del secolo scorso a New York, nell’ambito di una rassegna significativamente chiamata “The italian fancy food show”, lo spettacolo del fantasioso cibo italiano. Qualche anno più tardi, nel 1989, il rinomato quotidiano inglese “Sunday Times”, ha esaltato il pesto in un articolo intitolato “A sauce called pesto”, una salsa chiamata pesto, dove è stata messa in grande evidenza la capacità dei liguri di saper coltivare il famoso basilico nei piccoli fazzoletti di terra ricavati grazie ai famosi terrazzamenti tipici della regione.
In realtà, per il basilico, siamo debitori proprio agli inglesi, perché sono stati loro ad importare questa pianta, che nasce in Africa e nell’Asia Orientale, nel vecchio continente, di ritorno da uno dei tanti viaggi compiuti durante l’epoca coloniale.
Gli anni ’90 del secolo scorso vedono il pesto prendere la via del Canada, della Germania, della Giordania e delle Hawaii, ottenendo ovunque lusinghieri consensi. Intanto i coltivatori liguri di basilico riescono ad ottenere l’ambito marchio DOP (Denominazione di Origine Protetta) proprio per tutelarne l’autenticità e per proteggerlo da eventuali imitazioni e contraffazioni.
Il pesto che si fregia del marchio DOP, deve, però, nascere dall’incontro del basilico coltivato nell’area tra Pra e Pegli (Genova), con l’olio extra vergine d’oliva, aglio e sale italiano, Parmigiano, Grana o Pecorino DOP e con i pinoli della pianta Pinus Pinea che cresce solo nell’area del Mediterraneo.
Se non disponiamo del basilico genovese, possiamo sempre usare anche quello che in molti coltivano nei vasi, sui balconi e sulle terrazze, ma per aver un pesto di buona qualità, bisogna seguire pochi ma necessari passi: usare il mortaio di marmo e il pestello in legno (l’ortodossia lo vuole di bosso), mai il frullatore, privare le foglioline di basilico della nervatura centrale, schiacciarle con aglio, pinoli, sale, aggiungere il Parmigiano (o Grana o Pecorino o entrambi in egual misura) e infine, l’olio extravergine d’oliva.
Il pesto è ora pronto per andare all’altare con trenette, trofie, linguine in un trionfo di sapori mediterranei.