L’Alfabeto dei Ricordi-Lettera B

oggi tocca alla B, B come BICICLETTA, mezzo di locomozione per eccellenza in un’ Italia che ancora non aveva conosciuto la grandissima diffusione dell’automobile. Protagonista del memorabile film neorealista del 1948 diretto da Vittorio De Sica, “Ladri di biciclette”, una pellicola, questa, dal sapore dolceamaro, negli anni ’60, invece, la stessa bicicletta divenne il simbolo, per molti bambini, del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, e non c’era cosa più bella che incontrarsi con gli amici e darsi appuntamento per una sana pedalata insieme o per qualche “ardimentosa sfida di velocità”. Possederne una significava essere “diventati grandi”, perché quando la mamma ti chiedeva di andare a prendere il pane o il latte nell’alimentari vicino casa, si inforcava la bicicletta e la si pedalava come se fosse un trofeo…un trofeo di libertà, una libertà che faceva rima con felicità…

L’Alfabeto dei Ricordi- Lettera A

Oggi partiamo dalla A, A come ALLEGRIA: e parlando di allegria cosa viene in mente se non il saluto di Mike Bongiorno, nome, questo legato al primo quiz della televisione italiana andato in onda nel novembre del 1955: “Lascia o Raddoppia”. Erano tempi, quelli, in cui di televisori, nelle case degli italiani, ve ne erano ancora pochissimi e così ciascuno portava con sé la sedia della propria cucina nell’appartamento di qualche fortunato vicino o nel bar di fronte per assistere, tutti insieme, a quello che sarebbe diventato un appuntamento irrinunciabile. Persino i cinema sospendevano la programmazione prevista per trasmettere il quiz. ALLEGRIA ovunque palpabile, ALLEGRIA per una nuova era che si era lasciata alle spalle le macerie, non solo reali, della guerra…e ALLEGRIA sembrava essere diventato davvero il motto di un’Italia speranzosa, che guardava al futuro con ottimismo, un ottimismo che avrebbe condotto dritto al “Miracolo Economico”…

Il Lago di Carezza…semplicemente lui…

 

 

Il percorso che, per 25 chilometri, conduce da Bolzano al Lago di Carezza, ti fa già assaporare lo spettacolo che ti attende proprio lì, ai piedi del massiccio del Latimar che ogni mattino saluta il nuovo giorno specchiandosi nelle acque del lago, a 1534 metri di altitudine.

Il Lago di Carezza (Foto di Lorenza Fiorilli)

Giunti sullo spiazzale dove è allestito il parcheggio delle auto, si transita per un passaggio, usciti dal quale non puoi fare a meno di chiederti se sei diventata, senza nemmeno accorgertene, Alice nel Paese delle Meraviglie.

Gli alberi che incorniciano lo specchio d’acqua (Foto di Lorenza Fiorilli)

Eccolo…è lì, sembra attenderti e tu, ammaliata come Ulisse dal canto delle Sirene, ti spingi il più possibile vicino a lui per ammirarlo, per farti rapire da cotanta bellezza: le acque che passano dal verde smeraldo al blu intenso, il Catinaccio e il Latimar che scorgi in lontananza, ma che sembrano così vicini, quegli abeti che fanno da corona a questo lago incastonato tra gli alberi e i monti…

Rimani immobile per decine di minuti,  sino a quando non ti incammini per il sentiero che abbraccia l’intera circonferenza del lago.

Un particolare delle acque del lago (Foto di Lorenza Fiorilli)

Ma poi…poi ti fermi nuovamente e allora cominci a credere che le leggende non siano poi tali…e, così, ripensi alle storia che hai letto sul lago di Carezza: la bellissima Ninfa Ondina che abitava le acque e della quale lo stregone Latimar era perdutamente innamorato. Un giorno, per attirarla a sé, fece comparire sul lago uno straordinario arcobaleno che rapì l’attenzione di Ondina, la quale, dopo essersi accorta della presenza di Latinar, fuggì via impaurita. E così, lo stregone, in preda alla disperazione, prese l’arcobaleno, lo fece in mille pezzi e lo gettò nelle acque del lago che, da allora, riflettono i colori trasformandoli in un magico incanto, non solo per gli occhi, ma anche per l’animo.

Uno scorcio del sentiero che corre lungo il lago (Foto di Lorenza Fiorilli)

No…non vorresti andar più via… ti allontani, ma poi ti volti nuovamente verso il lago, poi ti incammini, ma non puoi fare a meno  di ammirarlo ancora e ancora…e quando sei ormai in macchina e lasci il parcheggio, quello spicchio di lago che puoi ancora scorgere, già strugge il cuore di malinconia…

Lo spicchio di lago che ti saluta mentre si va via (Foto di Lorenza Fiorilli)

Alessandra Fiorilli

L’Alfabeto dei Ricordi

Carissimi lettori della rivista EmozionAmici, dopo il lusinghiero successo ottenuto con la pubblicazione a puntate del mio romanzo “Arri Arri Cavalluccio”, con il quale ho esordito nel 2008, da domani troverete un singolare tuffo indietro nel tempo realizzato attraverso le lettere del nostro alfabeto, ciascuna delle quali offrirà uno spunto per ricordare ed emozionarsi. Il titolo di questo nuovo appuntamento prende il nome dall’omonimo mio libro, “L’Alfabeto dei Ricordi”, pubblicato nel 2017.

A domani carissimi lettori di EmozionAmici!

 

74° ed ultima Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Delle volte, nonno, quando sono seduta nel tuo studio, mi manca affrontare con te le discussioni sui temi del giorno, i grandi avvenimenti internazionali, quando sono in giardino e osservo gli alberi, i bulbi, l’ortensia, il petto d’angelo così forti e vigorosi mi fa male l’idea che tu non possa vederli, e adesso, nonno, quando sto per terminare questo mio scritto che parla di te, mi si lacera l’animo al pensiero che tu non possa leggerlo.

Eppure qualcuno mi ha rassicurato che tu lo stai leggendo e che sei fiero di me.

È proprio così, nonno?

È proprio questo che volevi?

Desideravi che io scrivessi di noi, del nostro amore, del nostro rapporto così speciale ma è questo lo stile con il quale desideravi che io lo facessi? Sono queste gli interrogativi che rimarranno senza risposta.

Anche la mamma ha pensato ciò, non me l’ha detto ma l’ho letto nei suoi occhi verdi, mentre stava scorrendo le pagine di questo libro. Noi ci siamo guardate ed io mi sono limitata a dire che sì, anche io ho pensato: “E se avesse potuto leggerlo?”.

Tu, proprio tu, tu che adoravi ascoltarmi recitare le poesie la vigilia di Natale, tu che leggevi avidamente i miei articoli, tu che hai conservato avvolte in una carta da regalo rossa e dorata, le mie cartoline, i miei biglietti d’auguri, che tu che hai sempre creduto in me e che mi hai chiesto di fare e di mantenere la promessa che un giorno avrei scritto di noi.

Vedi, nonno, il nodo si è sciolto ed io ho potuto finalmente raccontare la nostra storia. Ancora oggi, nonostante gli anni trascorsi, io mi chiedo cosa ne è stato di noi, dov’è il nostro amore e dove sei, da quale angolazione mi guardi mentre faccio colazione al mattino, quando spolvero i tuoi mobili e lucido l’argenteria, quando mi godo la vista dei pini dalla cucina, quando guardo le tue foto e sfoglio i tuoi libri.

Nonno, dimenticavo di dirti che il nostro limone è stato potato: era diventato troppo grande, pesante, i limoni che ci regalava non ricordavano quei bei frutti gialli dalla scorza doppia e rugosa. Quando andavo a raccoglierli erano raggrinziti, il succo all’interno non aveva quel sapore deciso di quelli che mi regalavi tu. Allora, dietro consiglio di un esperto, abbiamo deciso di potarlo. Io non volevo che fosse privato di quei rami ma ho capito che, per continuare a godere dei suoi frutti, sarebbe stato necessario farlo. Un mattino, poi, come di consuetudine e prima di consumare la colazione, mi sono affacciata dal balcone della cucina e con grande sorpresa e gioia ho potuto vedere che dai rami rimasti stavano spuntando delle piccole escrescenze verdi: erano le foglie nuove. Il nostro limone sta bene, nonno, ci tenevo che lo sapessi, oggi è irradiato dai raggi del sole e mostra tutta la sua felicità per questa nuova vita che quel taglio gli ha regalato: è infatti carico di piccoli frutti ancora verdissimi. Oggi anch’io sto bene, nonno: ho terminato di scrivere la nostra storia.
Te la regalo con lo stesso amore con il quale ti facevo recapitare dalla nonna quei bigliettini che spesso ci scambiavamo e che ancora conservo gelosamente tra le cose più importanti. E chissà se sia ancora una volta la nonna a dirti: “Pasqualino, questo te lo manda Alessandra, è per te”

73° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Quale privilegio essere tua nipote!

Vedi, nonno, non parlo di me al passato quando dico di essere tua nipote perché io lo sarò sempre, perché io ti ho conosciuto, ho vissuto con te, ti ho parlato, ammirando le tue pagliuzze d’oro negli occhi, ho goduto del tuo portamento mentre ti allontanavi di casa uscendo con la nonna, mi sono cullata sulla tua voce, ho avuto tutto questo e la tua assenza fisica non ha cancellato i ricordi, né tanto meno il legame di parentela e d’amore che ci unisce ancora, nonostante tu non ci sia più.

Sono ancora la tua “bella bambina”, nonno, una bambina la cui vita è stata scandita dal susseguirsi di quelle stagioni che non erano solo mesi sui calendari, ma vita da vivere, manifestazioni della natura che prendevano corpo lì, fuori le finestre della nostra casa, nel nostro giardino, nella tua campagna. Avremmo potuto capire quale fosse il periodo dell’anno, solo se ci fossimo fermati ad osservare il trasformarsi delle chiome degli alberi, le foglie del cachi diventare rosse e poi cadere, quelle del nocciolo seccarsi e volare via alla prima folata di vento, il nostro susino che si spogliava della sua chioma rotonda e verdissima e aspettava, con i rami scheletriti, che il sole della primavera venisse a regalargli quelle gemme che si sarebbero trasformate in fiori candidi.

Sono passasti così, troppo velocemente, gli autunni con i nostri alberi spogli, gli inverni con il vento che faceva ondeggiare le chiome dei pini, le primavere con i fiori colorati ed i bulbi che regalavano colori, le estati con i nostri frutti. È passata la tua vita ma ha lasciato tanto dietro di sé. Ha lasciato il ricordo di ottobre, mese nel quale sei nato, quello di dicembre e dei nostri festosi Natali trascorsi in famiglia, quelli di aprile, dei nostri lavori in giardino, ha lasciato ovunque un suono, un sapore.

72° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

E quando arriva settembre, nonno, respiro nell’aria l’avvicinarsi di quei momenti vissuti con te in cantina, riesco persino a sentire, se chiudo gli occhi, i tipici suoni rumori di quei macchinari che trasformavano i grappoli in vino, lo stesso che poi avrebbe accompagnato con discrezione i nostri pasti, i nostri giorni di festa, percepisco quel miracolo della natura che si può compiere solo attraverso la mano di un uomo, vedo quelle damigiane di vetro con il tappo di sughero ed il rivestimento esterno di plastica a trame grosse e poi quelle bottiglie, impazienti di ricevere in dono quel vino ambrato.

E mentre assisto allo svolgersi, nei miei ricordi, di tutte queste scene, mi sembra di rivedere anche quel contadino che ogni anno ti portava l’uva, perché le piante della campagna erano ancora troppo giovani per farlo… il contadino che scendeva dal suo trattore e ti diceva: “Cavaliere, ecco la vostra uva, quest’anno è proprio eccezionale e la più bella l’ho riservata a voi!”.

Quell’onorificenza pronunciata lì, su quel marciapiede, che si riempiva all’improvviso di bigonci in plastica che attendevano un po’ per entrare in cantina, non stonava con quell’atmosfera che sapeva di antichi tradizioni, di campagna, di terra, di lavoro pesante. Tu eri così, capace di trasformare tutto con la tua sola presenza, capace di rendere gli abiti da lavoro preziosi come quelli di pura lana o di lino che tenevi nell’armadio, quegli stivali di gomma eleganti come le tua scarpe lucide, quella cantina invasa da un ordinato disordine di uva e macchinari, accogliente come la tua camera da pranzo, con i mobili antichi ed il lampadario di cristallo a gocce.

Dove c’eri tu, qualsiasi cosa era nobilitata dalla tua classe, dal tuo inconfondibile stile. Avrei voluto, in quegli istanti, invitare tutto il mondo lì, fuori di quella cantina, per far ammirare alle persone tristi, scoraggiate, insoddisfatte, la felicità che esprimevi tu in quei momenti, quando eri intento nella preparazione del vino, quando ti muovevi con assoluta precisione tra quegli attrezzi, e poi… e poi… e poi quando uscivi dalla cantina e profumavi d’uva, ed avevi i vestiti schizzati dal succo di quei grappoli dorati. Se ti avessero potuto vedere gli altri, avrebbero capito il segreto per vivere felici, l’alchimia che ciascuno di noi può fare ogni giorno per rendere la nostra esistenza un’esistenza piena, vera, ricca di cose da insegnare e di cose da imparare. Ma io rimanevo sempre l’unica privilegiata spettatrice di quello spettacolo che ogni anno, ad autunno appena iniziato, si svolgeva davanti ai miei occhi.

Ricordi, nonno, quando pur rimanendo fuori la cantina, ti ripetevo le poesie che ogni giovedì dovevamo imparare a memoria per il giorno successivo? San Martino del Carducci era la nostra preferita e ci era assegnata per compito proprio durante il periodo della vendemmia. L’avevo imparata a memoria in terza elementare, con te che eri impegnato nel lavoro con l’uva, e non l’ho dimenticata più. La ripetevamo all’unisono, guardandoci negli occhi, sorridendo, e poi ci regalavamo vicendevolmente un applauso.

71° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Vado avanti, nonno, ma tu fatti trovare sempre, ovunque, in qualsiasi momento, fammi sentire che ci sei, accanto a me, in piedi, proprio dietro la mia sedia mente scrivo di noi, sul divano color crema mentre sfoglio l’album delle fotografie, nel tuo studio, mentre ordino i libri che tanto amavi, in giardino, mentre innaffio le piante, in mezzo alla gente, in una caotica stazione, tra valigie e voci che annunciano la partenza e l’arrivo dei treni.

Non lasciarmi, così come non mi hai lasciato quel mattino del 3 luglio 2001.

Certo, non posso negarti, nonno, che delle volte, in alcuni giorni, desidererei tanto averti accanto a me per parlarti o solo per sentire la melodia della tua voce o per gustare la dolcezza del tuo sorriso. Quando desidero tutto questo, non faccio altro che chiudere gli occhi, nel silenzio della tua casa, e immaginare le nostre giornate più belle, come quei giorni di vendemmia, quando, essendo le tue piante di vite ancora troppo giovani per darti sufficiente uva, arrivavano, nel primo pomeriggio, quelle bigonce alte, di plastica color crema carico, che trasbordavano di grappoli dai chicchi piccoli e dorati che sarebbero diventati il vino dei nostri giorni di festa ma ancor prima si sarebbero trasformati in mosto. Ah, il mosto! Sapore d’autunno, di giorni dai tramonti color porpora, delle prime giacche che tiravamo fuori dagli armadi, di giornate che regalavano sorrisi ed emozioni, confidenze e risate.

Quanto mi manca bere un bel bicchiere di mosto, in tuo compagnia, nonno, mentre io lo butto giù tutto d’un fiato e tu lo assapori sorso dopo sorso, per non perderti niente di quella preziosa bevanda dal colore deciso, tendente quasi al porpora. La tua assenza, talvolta fortissima, diventa all’improvviso dolce, proprio come quel mosto che ogni anno preparavi per me, perché i ricordi di te vengono a cullarmi mentre il fruscio delle foglie degli alberi in giardino somiglia tanto al suono di una ninna nanna.

70° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavallluccio” di Alessandra Fiorilli

I giorni successivi alla tua morte sembravano eterni, avvolti in una bambagia di ricordi struggenti, di lacrime calde che, cadendo, non facevano rumore. Non c’era posto dove andare per placare la nostra disperazione ma forse era ancora troppo presto per incontrarti o riconoscerti nella sabbia che mi entrava nelle scarpe, in una mareggiata, nel vento che faceva sbattere le imposte.

Ti cercavo dove non c’eri più ma non ti trovavo in nessun luogo, in nessuna manifestazione della natura, in nessun sorriso, in nessuna pagina che rimaneva bianca, senza che tratto di penna riuscisse a sfiorarla. Il dolore mi aveva stretto con una corda pesante, con nodi strettissimi, impossibili da sciogliere, io tentavo di camminare ma non ce la facevo a slegarmi, io volevo scrivere ma non ne avevo la forza, io volevo sorridere al mondo ma la mia bocca era come sigillata, io volevo liberarmi da questa stretta di dolore e di disperazione ma ero ancora troppo infiacchita per farlo.

Aspettai, dunque, aspettai che il tempo rimarginasse le ferite e sciogliesse quel nodo che mi ha impedito, per anni, di scrivere di te. I mesi successivi alla tua morte furono pieni della tua assenza, il tempo sembrava dilatare le ore oltre misura, quelle stanze apparivano vuote, deserte, attonite anche loro, di fronte alla consapevolezza che non avresti più aperto i cassetti della scrivania, messo ordine tra le tua carte, sistemato gli abiti nell’armadio. Era così strano pensare che non ti avrei più potuto vedere, che, componendo il tuo numero di telefono non avresti più esordito, dall’altra parte della cornetta, con la tua voce squillante: “Pronto, chi parla?”.

Però da quel pomeriggio che trascorsi nel tuo studio, per riordinare i tuoi libri sui quali avevo studiato anch’io, e durante il quale ti riconobbi in quella finestra che un’improvvisa folata di un vento fece sbattere, io cominciai a sentirti e a vederti ovunque: nella perfetta rotondità e nel colore deciso delle prugne, nel verde dei fichi settembrini, in quelle nocciole che, giunte a maturazione, lasciavano sull’albero il loro involucro marroncino e cadevamo giù, sul pavimento della veranda, dandoci così la possibilità di raccoglierle e di conservarle per l’inverno, in quelle splendide giornate autunnali che tanto piacevano ad entrambi, con il cielo terso, pulito, spazzato dalle nubi, con l’aria fresca che carezza la pelle.

Tu eri ormai nelle cose che avevi amato e che continuavano anche senza di te, tu eri nelle cose che avevi vissuto, che avevi posseduto, tu eri nei miei ricordi ma non per questo non saresti stato più il mio futuro.

Perché il futuro, essendo un momento che ancora non c’è, non esiste, e per concretizzarlo davanti ai nostri occhi ha bisogno di una marcia in più, di un sostegno e questo si chiama forza d’animo e di volontà. E chi ce la può dare tutta questa volontà se non le persone che non ci sono più, ma che continuano, passo dopo passo, ad indirizzarci con il loro insegnamenti, con il loro amore? Quindi, giorno dopo giorno, pensai a te come al mezzo attraverso il quale avrei potuto plasmare il mio futuro che proprio tu, non ti stancavi mai di dirmelo, vedevi ricco e pieno di soddisfazioni.

69° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Quando entrai in casa, la nonna era già nello studio, che nei giorni dopo il tuo rientro dall’ospedale, aveva mutato la sua natura di stanza di lettura, sommersa com’era la scrivania, di garze, bende, prescrizioni del medico. In camera da letto, sul comò, il diario giornaliero che l’infermiera aggiornava di volta in volta, riportando i valori della glicemia, della pressione arteriosa e della temperatura corporea, che non scese mai al di sotto dei 37°. Quella febbre, di cui mi aveva informato il medico in ospedale, l’avevi trascinata da quelle corsie bianche facendola entrare nella tua casa, nel tuo letto, tra le tue lenzuola di lino, e proprio non voleva saperne di andare via.

Il 3 luglio, invece, accanto ai valori registrati quotidianamente, non c’era scritto niente: non c’era stato tempo di vedere quanto misurasse la tua pressione o la tua temperatura corporea. Il diario era aperto proprio al 3 luglio e sarebbe rimasto fermo lì, come l’orologio di quel centro dell’Irpinia stravolto dal terremoto dell’80, le cui lancette si bloccarono proprio nell’ora della scossa più violenta.

Il mio dolore era talmente grande, nonno, che avrei voluto fare come quell’orologio e sedermi lì, sulla tua sedia, e restarci delle ore, ad aspettare che un’altra scossa, di più forte intensità, venisse a svegliarmi da quel torpore. Ma la vita doveva andare avanti, anche senza di te, e così, facendomi coraggio e tentando di infonderlo un po’ anche alla nonna, cominciai a fare ordine nella tua stanza da letto. Il materasso di lana spogliato delle sue lenzuola, dei suoi cuscini, delle sue federe, portava ancora la forma del tuo corpo e mi fece grande impressione pensare che sino al giorno precedente, tu eri ancora lì, in quel rettangolo di lana cardata.
Scappai via da quella stanza e mi rifugiai nello studio. Anche lì c’erano i segni della tua malattia ma i tuoi libri mi davano forza e mi riportavano alle nostre letture, ai commenti fatti assieme su di una poesia.

La nonna entrò nella camera da letto dove si aspettava di vedermi, io la sentii e la chiamai, dicendole che avrebbe pensato lei a sistemare la tua camera, io avrei preferito occuparmi della cucina, dove avevamo consumato i nostri sempre festosi pasti.

Fu in quel preciso istane, nonno, che fui attraversata da un brivido gelido che dal collo scese sino alla pianta dei piedi.

Era un freddo, quello che stavo percependo nella tua cucina, che saliva dall’anima, nonno, era quella sensazione di una vita a te cara che ti è tolta e che sembra scivolarti via, dalle braccia, dalle gambe e ti lascia lì, quasi immobilizzata, attonita, senza la capacità di comprendere appieno quello che si sta realmente compiendo.

Rinunciare a te ha significato rinunciare ad un rapporto speciale come è stato il nostro: mi hai trattato da adulta quando ero poco più che una bambina, hai avuto attenzioni per me, da grande, che gli altri nonni riservavano alle nipotine in tenera età. I ruoli, però, con il passar degli anni, si erano ribaltati. Da piccola ero io ad aspettarti affacciata al balcone per vedere se arrivavi dalla caserma, in sella alla tua bicicletta nera e mi preoccupavo se alle 14 e 31 ancora non ti vedevo svoltare l’angolo e scendere giù per la discesa che ti avrebbe condotto a casa, da adulta, invece, eri tu ad aspettarmi in veranda e a preoccuparti se non mi vedevi arrivare all’ora precisa per il rientro.

Così è la vita, dunque, un rincorrersi di tempi non coincidenti, di esigenze uguali e contrarie, di forze che si attirano ma che si contrappongono le une alle altre.