58° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Intanto tu fremevi, nonno, e stavi tentando di farci capire che volevi metterti a letto, nel tuo letto, stavolta. La difficoltà maggiore fu quella di superare la barriera dei gradini che dal cancello portavano sopra casa.

10 gradini, erano solo 10 gradini, erano gli stessi che avevi, con leggerezza e gioia, salito e disceso tante volte per recarti giù in cantina e poi per passare da lì alla veranda, erano gli stessi sui quali mi piaceva sedermi ad ammirarti mentre facevi il vino, ed erano gli stessi che avrebbero rappresentato per noi una personalissima, dolorosissima versione della salita al Golgota.

Sai, nonno, ricordo ancora quel tuo sorriso, appena accennato, che mi regalasti quando ti accorgesti che finalmente avevi varcato la soglia di casa ed eri lì, finalmente, nel tuo corridoio, con le poltroncine ed i quadri che avevi personalmente scelto ed acquistato, sistemato ed appeso a quella stanza dai soffitti alti. La promessa era stata mantenuta, e tu avevi avuto la tenacia, la forza, la determinazione necessaria per resistere in quella stanza d’ospedale, pur di rivedere la casa per l’ultima volta. Poi ti sistemammo sul letto e solo allora tirasti un gran sospiro e, regalando ad ognuno dei presenti un lieve sorriso, dicesti a stento: “Stavo in prigione ma ora, per fortuna, è tutto finito”.

Non c’era tempo da far passare infruttuosamente, era necessario chiamare un’infermiera per organizzare tutto il lavoro che la presenza di un malato grave in casa richiedeva. Lei arrivò subito e ci consegnò una lista di tutto l’occorrente da acquistare.

Mi avvicinai e, forse per smorzare la tensione delle ore precedenti, cominciai a parlarle e le chiesi se ti conosceva, se mai ti aveva visto per le strade della città, con la tua bicicletta, con la nonna sottobraccio. Era un modo, questo, per farle comprendere che tu eri stato forte, bello, coraggioso, che la tua vita passata nulla aveva da spartire con un presente fatto di dolore, di sofferenza, di stanchezza, di immobilità.

L’infermiera mi rispose di sì… sì, nonno, anche questa donna bionda che stava prendendosi cura di te ti conosceva, e soprattutto, ti aveva conosciuto nel tuo massimo splendore e questo mi rincuorò non poco. Eri bello, nonno, eri figlio dell’amore e della sofferenza, di un sorriso e di un rimbrotto, della guerra e della speranza, della solitudine e della gioia nello stare insieme con la tua famiglia. Solo chi riesce a condensare tutto ciò e ad amalgamarlo con la passione per la vita, è in grado di trasmettere fascino e bellezza, come tu sapevi fare, nonno.

57° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” Romanzo

Non sarei più andata via, nonno, e non sono andata via, infatti, quel giorno fuori dall’ospedale, con la valigia da sistemare nel portabagagli mentre tu, sulla sedia a rotelle, aspettavi che ti mettessimo sull’auto, nel posto vicino al guidatore. Intanto dal cielo stava scendendo una fastidiosissima pioggerellina che fece diventare quel momento ancora più triste di quanto già non lo fosse.

Dunque, tu eri sulla sedia a rotelle, sfuggivi gli sguardi degli altri ma cercavi, con dei rapidi gesti delle mano di incitarci a far presto, perché era necessario lasciare quello spiazzale dell’ospedale e ritornare a casa.

Non parlavi quasi neanche più e le poche parole che riuscivi a pronunciare, apparivano pesanti, appannate, cavernose. Nulla sembrava essere rimasto del tuo timbro sonoro e sicuro, suadente ed elegante che riempiva ormai solo i nostri ricordi.

Lo zio salì al tuo fianco e partì, così come facemmo io e la mamma che prontamente vi seguimmo con l’auto. Vidi per tutto il breve tragitto che ti avrebbe riportato a casa, la tua testa reclina che sembrava non riuscire neanche più a stare ritta sul collo.

Non parlasti durante il viaggio, non dicesti una parola, né davanti la caserma, né davanti la chiesa, né quando arrivammo a casa dove la nonna ci aspettava, affacciata al balcone.

Appena riconobbe le nostre auto girare l’angolo, si precipitò in strada e senza nemmeno salutarti mi afferrò per un braccio e cominciò a piangere, a straziarsi, a chiedermi come avrebbe potuto mai fare senza di te, come sarebbe stata la sua vita, se mai avesse avuto un senso continuare. Io la rimproverai dolcemente per quelle parole crude, vere ma crude, e le dissi che eri tornato a casa e quello era l’importante. Ora avremmo dovuto unire le nostre forze, concentrare i nostri sforzi per rendere lieti e sereni gli ultimi giorni di una vita così piena e ricca d’amore come era stata la tua, nonno.

La pioggerellina che ci aveva accolti appena fuori l’ospedale era divenuta, intanto, lungo il mesto tragitto, più insistente e cadeva sulle nostre spalle, sul vestito della nonna, sulla valigia che avevo sistemato fuori il cancello, sul tuo pigiama a righe. La natura intera sembrò piangere quel giorno, davanti a quel tristissimo spettacolo, persino i gatti in giardino si fermarono nel loro allegro rincorrersi e si misero a guardarti con la testolina fuori dai riccioli di ferro battuto del balcone di casa.

56° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Arrivai in ospedale, entrai nella tua stanza, io presi la tua valigia mentre la mamma era andata a parlare con i medici per le ultime istruzioni da seguire una volta giunti a casa. Io ti strinsi la mano, tu stringesti la mia e poi…e poi piangemmo tutti e due, solo un po’, giusto il tempo per capire che sapevamo ormai entrambi che ci saremmo dovuti salutare per sempre, non ci sarebbero stati buonanotte ed arrivederci, ma solo un addio.

Durò poco il pianto perché era inutile sprecare forze ma necessario, invece, era il convogliarle tutte verso un unico scopo: tornare a casa. Intanto, attorno al tuo letto arrivarono gli altri degenti che ti avevano coccolato con lo sguardo, controllato di notte se il tuo respiro era regolare, o avvertito i medici se qualcosa non andava.

Furono tutti molto solidali con te, partecipi della tua sofferenza, avviliti che una mente così brillante, un animo così grande fosse costretto ad abbandonare per sempre questo mondo.

Tutto era pronto per l’uscita: avremmo potuto trasportarti in ambulanza, ma tu al solo sentire quel nome ti agitasti: desideravi invece regalarti un ultimo viaggio in macchina, saresti passato ancora una volta davanti a quella caserma che serbava i ricordi di una vita lavorativa, saresti sceso lungo quella strada che percorresti per tanti anni con la tua bicicletta… agile, veloce ma soprattutto libero. Innanzi a questa tua ultima richiesta, la mamma si precipitò ad avvertire lo zio che, trafelato, arrivò prestissimo.

Noi lo aspettammo fuori il reparto e lo informammo di tutto, lui con gli occhi velati di lacrime disse che era un atto dovuto l’esaudire questo tuo desiderio, anche se ci sarebbero stati notevoli problemi per il trasporto. ù

Fosti subito messo su di una sedia a rotelle e dopo aver salutato tutti con un gesto della mano, chiedesti la tua valigia, volevi tenerla in seno, trattenerla con le mani sulle ginocchia ma anche quel semplice gesto sembrava essere diventato impossibile. La lasciasti cadere per terra, io la raccolsi mentre vi dirigeste verso l’ascensore.

Le pesanti porte color carta da zucchero si chiusero dietro la tua sedia a rotelle, ad annunciarci che di lì a poco avresti portato con te tutti ricordi, tutte le gioie, tutti i dolori, tutte le speranze di una vita vissuta come credevi che fosse giusto viverla: nell’amore.

E quanto ne hai regalato, nonno, elargendolo a piene mani: ogni tuo semplice gesto, ogni tuo sguardo, ogni tuo sorriso, persino ogni rimprovero, trasudava d’amore. Non c’è gesto da te compiuto che non sia stato carico d’amore, né una parola, né un pensiero. Il tuo amore, nonno, era nella fetta di pane tagliata accostando la pagnotta cotta a legna al tuo ventre, era nel piatto di pasta e ceci che ci porgevi a tavola, era nella bottiglia di vino che regalavi alla mamma, era nell’aprirmi l’ombrello fuori dalla scuola, era nel venirmi incontro per le scale per aiutarmi a portare su la spesa, era nei pomodori che ci offrivi di ritorno dalla campagna, era in una pagina di un libro letto assieme nello studio, era nei compiti di latino che mi correggevi, era in uno sguardo severo di rimprovero, era in quel tuo gesto della buonanotte che ci regalavamo ogni sera. Ma era anche in quel tuo andare via sulla sedia a rotelle quando, poco prima che ti sistemassero su di essa, mi dicesti che mi sarei potuta allontanare da te, se non riuscivo a sopportare quella scena, nonostante tu avessi voluto fortemente che rimanessi accanto a te. Ma io rimasi lì, nonno…rimasi con il cuore straziato, con le lacrime che appannavano i miei occhi…rimasi perché non volevo perdere neanche un istante di te.

55° Puntata del Romanzo Arri Arri Cavalluccio di Alessandra Fiorilli

La notte non passò mai, ti confesso, nonno, che quella è stata l’unica notte in cui non ho realmente chiuso occhio. Sono rimasta distesa, immobile sul letto, con l’orologio sul comodino in attesa che arrivassero le otto del mattino.

Non pensavo più ormai che dopo qualche giorno saresti morto, quello che contava era di portarti cosciente a casa.

Non pensai a come sarebbe stata la mia vita senza di te, alle stanze senza i tuoi passi, alle feste con la tua sedia vuota, ai tuoi sandali di cuoio riposti tra le altre scarpe, ai tuoi vestiti che non avrebbero più fatto compagnia alle tue giornate, ai tuoi libri, alle tue piante, alle tue cesoie, ai tuoi guanti da giardino, ai tuoi cappelli, alla tua presenza che non avrebbe più colmato le nostre esistenze. Tutte le mie forze erano ormai concentrate sul mattino successivo che fu più difficile da gestire di quanto potessi credere.

Arrivò l’alba di quel giorno, e non potei trattenermi dallo spalancare le finestre appena la prima luce del sole entrò tra le imposte della mia finestra. In 28 anni, nonno, non ho mai osservato il sorgere del sole come quel tuo ultimo mattino in ospedale. Non avevo mai avuto occasione di svegliarmi così presto, solo le volte in cui dovevo sostenere un esame all’università, ma in quei momenti ero tesa e non avevo il tempo sufficiente per ammirare attorno a me quello che succedeva alla natura al suo primo risvegliarsi dopo la notte.

Ma quel mattino…quel mattino decisi di vedere con attenzione quello che avevi visto tu per quasi 80 anni: gli uccellini cinguettavano allegramente passando da un ramo all’altro degli alberi del giardino, si rincorrevano, svolazzavano, poi scendevano in terra e andavano a rubare qualche mollica di pane fuggita via da qualche tovaglia scossa, le foglie brillavano di rugiada, il prato era leggermente bagnato, i gatti acciambellati gli uni sugli altri, le strade deserte.

Era come mi avevi sempre detto tu, nonno: gli unici suoni delle prime ore del mattino ce li regala solo la natura, l’aria è fresca, si posa delicatamente sulla pelle scoperta e pensando alle ore successive, al caldo soffocante, allo smog, al vociare delle persone, vorremmo rimanere lì, a goderci lo spettacolo della natura. Quel mattino ti sentii forte dentro di me, e quelle stesse cose che tu amavi tanto fare, già le stavo facendo io per te, attraverso te, grazie a te e a quello che mi avevi insegnato nei nostri 28 anni di vita vissuta assieme.

Lo spettacolo del volo degli uccelli, della rugiada sulle foglie e sul prato, stava continuando a far bella mostra di sé nel nostro giardino ed io avvertii quasi che le tue piante, gli alberi mi incitavano ad andare, a correre da te, perché saresti uscito dall’ospedale: la lunga prigionia, come la chiamasti poi tu, era finita e con essa la mia speranza di salvarti e di tenerti ancora un po’ con me.

Gli ignari uccellini continuarono a volare da un ramo all’altro, di lì a poco il rumore sarebbe tornato con le auto, le persone che si apprestavano a recarsi al lavoro: tutto sarebbe stato come sempre, ma non per me. Mi vestii, non di fretta, ma accuratamente, evitando di indossare i colori che non ti piaceva vedermi addosso, vivacizzai i ricci con la gelatina, misi gli orecchini, e presi la borsa. Ero talmente triste, infelice, addolorata, straziata, avvilita, che mi sembrò di star bene e mi apparvero del tutto normali quelle azioni compiute con leggerezza, come se fossi dovuta uscire per una passeggiata. Invece stavo venendo da te, così impaziente di andar via da quelle corsie, così impaziente di tornare nella tua casa.

54° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

E fu così che arrivò il giorno delle tue dimissioni e con esso il tramonto di ogni nostra speranza, nonno. Fui io a comunicarti, una sera, che il giorno dopo saresti tornato nella tua casa e tu, con voce appannata, mi chiedesti di prepararti la valigia.

Ti risposi che mancavano più di dodici ore alle tue dimissioni, ma dovetti piegarmi davanti alla tua insistenza. Ti comportasti come un bambino, nonno, quella volta, credevi che solo se avessi tirato fuori la valigia portandola dall’armadietto, sistemandola poi vicino al letto, saresti uscito. Fu l’unica occasione in cui mi sentii più grande di te, e fu una sensazione che non mi piacque affatto perché eri tu la sola persona della famiglia che poteva riprenderci, segnalarci un errore, spronarci a fare del nostro meglio… tu, sempre e solo tu, come era avvenuto in tutti quegli anni.

Dovevo andare via, l’infermiera ci stava avvisando che l’orario delle visite era terminato ma tu non volevi lasciare andare la mia mano, perché eri impaziente di abbandonare quel letto d’ospedale, forse avresti voluto farlo quella sera stessa ma ciò non era possibile.

Ci salutammo nel nostro modo, tra le lacrime di un’intera corsia che si era commossa davanti alla nostra storia così speciale, a quel legame d’amore fortissimo e viscerale, a quel nonno che sembrava un padre, nei modi di fare e di guardare, a quella nipote che sembrava una figlia nel modo di piangere ma anche di risollevarsi da terra per infonderti coraggio, quando ormai non ce n’era più a sufficienza.

Dunque io ti salutai con la mano augurandoti: “ Buonanotte nonno”.

Tu portasti alla bocca la mano sinistra, due sole dita della mano sinistra, l’indice ed il medio, per lanciarmi il bacio dell’arrivederci. Io poi ti voltai le spalle e mentre correvo giù per le scale per fare più in fretta possibile, per far correre di più il tempo, in modo che venisse subito l’indomani mattina, pregai affinché quell’arrivederci fosse realmente tale, sperai che la notte non lo avrebbe trasformato in un addio.

53° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La giornata mia e della mamma iniziava presto al mattino, per venire a darti la colazione in ospedale e finiva tardi… poi c’era la notte, che sembrava pesare come un macigno, che sembrava interminabile, angosciante, carica di presagi perché avevamo il timore che proprio all’alba arrivasse quella telefonata dall’ospedale.

Una sera, uscii fuori il balcone del piano superiore: del vento passò tra le chiome folte e verdissime dei pini, allora chiusi gli occhi e mi feci coccolare da quel fruscio inconfondibile che tanto piaceva assaporare anche a te, nonno. In quell’ondeggiare di fronde rividi i nostri ricordi più belli, i momenti trascorsi a parlare di storia nel corridoio, le nostre risate.

All’improvviso mi ricordai di quell’altalena che avevi ingegnosamente fissato sul balcone di casa. Ricordi, nonno, come la chiamavo io l’altalena? Si, proprio così: pittatata. L’avevo coniata così quella corda gialla intrecciata e fissata con due ganci ad un segmento di ferro e con il pianale di legno chiaro. Quel nome strano, pittatata appunto, da piccola mi evocava libertà, vento che accarezzava i capelli, gioia nello stare lì, in quella casa, in quel giardino, su quel balcone, vicino a te. Tentasti varie volte di correggermi, di insegnarmi che quella si chiamava altalena, scandendo bene ogni singola sillaba ma poi demordesti anche tu di fronte alla mia ostinazione di chiamarla così, a modo mio.

Adoravo da piccola coniare nuovi termini, tanto che tu eri diventato nonno Maccano e non Pasquale, una macchina uguale alla tua era agaca agaca a Maccano, ovvero uguale uguale a Pasquale, io ero Iaia, ma la mia fantasia toccò l’apice quando personalizzai la pubblicità di un famoso detersivo in grado di regalare un bianco imbattibile: Mattuenno paito, ovvero due parole strampalate che significavano il massimo grado del pulito.

Ricordo ancora le innumerevoli volte in cui tu, nonno, seduto sulla sedia della cucina, poggiavi una mano sulla fronte e cominciavi, con carta e penna, a scomporre quelle frasi coniate da me per tentare di capire da dove potessero scaturire. Allora scomponevi pazientemente la parola esatta e quella creata da me, le avvicinavi, ci riflettevi un po’ su e poi desistevi dal tentativo, perché io ero troppo testarda ed orgogliosa di quella lingua tutta mia che nessuno riusciva né a parlare né a capire.

52° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Prima di andar via da quella stanza, nonno, mi dicesti: “Portami tu qualcosa… delle piccole scaglie di parmigiano, un uovo alla coque… vieni tu all’ora di pranzo per aiutarmi a mangiare.”

E così capii, da queste parole, che non avrei potuto mai mollare, che sarei dovuta essere forte, non tanto per me, quanto per te, che chiedevi insistentemente la mia presenza in quella stanza d’ospedale.

Il giorno successivo, come promesso, venni da te con la mamma: avevamo il permesso di entrare al di fuori dell’orario di visita perché le tue condizioni di salute richiedevano che ci fosse qualcuno negli orari di pranzo e cena per aiutarti a mangiare.

E fu così che ti porgemmo delle minuscole scaglie di parmigiano e tu le prendesti dalle nostre mani come fanno i bambini…in quell’istante gli altri degenti ci osservarono con un misto di tenerezza ed ammirazione, fino a quando il tuo vicino di letto mi disse che eri un uomo fortunato, perché avevi due figlie amorevoli ed affezionate come me e la mamma.

Io gli risposi che non ero tua figlia ma tua nipote e l’uomo di rimbalzo non si perse in giri di parole: “Tu lo ami come un padre e lui ti considera una figlia. E questo è tutto”.

E questo era proprio tutto, nonno, per noi che continuavamo a sperare e per te che, non potendoti più da alzare dal letto, ci aspettavi, chiedevi l’ora agli infermieri e pregavi il tuo vicino di letto di andarsi ad affacciare fuori dal reparto per vedere se arrivavamo. Era giugno, nonno, o almeno così diceva il calendario ma nei nostri cuori non era arrivata l’estate, la nostra estate quell’anno per noi non giunse mai.

51° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Per uno assurdo scherzo del destino, nonno, anche questa volta eri nascosto alla mia vista, essendo il tuo letto proprio quello dietro la porta, ma non mi feci bloccare dai miei timori e dalle mie paure: entrai spavalda, sicura di farcela. Entrai, dunque, salutai i tuoi compagni di stanza, passai in rassegna, con una rapida occhiata i loro volti, e poi poggiai gli occhi su di te: anche quella volta ebbi la sensazione di scappare codardamente, ma riuscii a mantenere la promessa di non fuggire più via davanti alla realtà seppur dolorosa.

Ma non fui io a darmi il coraggio sufficiente a rimanere vicino a te quanto te, nonno, perché riconoscesti la mia voce mentre stavo parlando con la mamma, apristi gli occhi, nei quali si potevano ancora ammirare quelle pagliuzze dorate, e con un gesto dolcissimo del braccio mi facesti cenno con la mano di avvicinarmi. Il desiderio di parlare con me ti diede persino la forza di dire : “ Bella bambina, vieni qua” e mi indicasti il posto del tuo letto dove mi sarei dovuta sedere. Ora eri lì, e mi chiedesti di voler andare via perché…perché sapevi ormai non c’era più salvezza per te, lo sapevamo entrambi, l’avevano capito già da Natale quando non lo celebrammo con il tradizionale cenone ma con il pranzo, trovammo conferma di ciò nei mesi successivi, nella stanchezza di quel carnevale, in quella Pasqua senza la visita ai Sepolcri, in quel 1° maggio, in quel tuo onomastico. Allora mi invitasti a prelevare dal tuo armadietto di ferro la piccola valigia di pelle color nocciola, i tuoi sandali di cuoio, in modo da poter andar via subito da quell’ospedale, senza attendere un minuto di più. Io esaudii le tue richieste e presi i tuoi sandali di cuoio e li posizionai ai piedi del letto.

Tu li guardasti amorevolmente, e tentasti così, di muovere le gambe, di buttarle fuori dal letto e di calzarli, ma non riuscisti a fare nulla di tutto ciò.

Tu non ti scomponesti, non dicesti nulla, perché oramai sapevi… sapevi che non ci sarebbe stata per noi un’altra estate, un’altra vendemmia, un altro ottobre con le castagne, un altro Natale. Rimanesti immobile nel letto e mi invitasti a riporre nell’armadietto i tuoi sandali di cuoio.

Li presi e li posizionai vicino a quella valigetta che tante volte avevo preso alla stazione quando, di ritorno da un viaggio, sempre molto breve, venivamo a prendervi con la macchina. La tua meta preferita era Padova con la Basilica del Santo… ricordi, nonno, i frati ti inviavano sempre la rivista curata e diretta da loro, il calendario all’inizio dell’anno e tu rispondevi sempre con tanta generosità ai loro appelli.

Non amavi molto Venezia ma eri affascinato da Verona che tu pronunciavi con la o molto aperta.

Ti piaceva viaggiare, vedere, conoscere, camminare, farti abbagliare da una bellezza naturale e commuovere da un dipinto, ma più di tutto amavi il tuo giardino, i vialetti con gli arbusti, la tua casa…quella stessa casa dove volevi tornare.

50° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La nonna e la mamma mi stavano aspettando fuori da quella minuscola cappella con le panche scure, dove io mi rifugiai per espiare la colpa di non essermi avvicinata a te. La mamma poi mi disse di aver compreso appieno il mio tormento, l’angoscia di quella mattina, quel rimorso così forte da togliere il fiato, quel senso di smarrimento che avevo provato davanti a te, nonno. Parlammo proprio di questa mia inaspettata reazione una volta tornate a casa, la mamma mi disse che avremmo dovuto farci forza vicendevolmente, che era necessario superare quell’angosciante barriera del dolore perché solo così saremmo potute stare vicino a te sino all’ultimo. Se mai ci fossimo fatte trascinare dalla corrente della paura e della disperazione, chi si sarebbe preso cura di te, chi ti avrebbe dato il buongiorno al mattino, nel freddo di una corsia d’ospedale, chi ti avrebbe aiutato a mangiare all’ora di pranzo e alla sera, chi avrebbe parlato con i medici, chi avrebbe potuto confortarti del fatto che stavi in ospedale ma che avevano la ferma intenzione di colmare ogni attimo, ogni istante con la nostra amorevole presenza?
Era proprio così, proprio come mi aveva detto la mamma che diventò forte come lo eri stato tu, nonno.
Quelle ore che mi separarono da te furono interminabili e le vissi con dolorosa angoscia. A pranzo non riuscii a mangiare nulla e alle due e un quarto ero già fuori la porta del reparto. L’attesa la colmai recandomi nella cappella dell’ospedale, feci così per tutte le tre settimane del tuo ricovero perché mi sembrava che quella preghiera fatta in ginocchio davanti al Cristo sofferente sulla croce e con il capo reclino, riuscisse a darmi un po’ di sollievo e di coraggio, lo stesso che avrei dovuto infonderti durante i nostri numerosi incontri in corsia. Poi la porta del reparto si spalancò ai visitatori ed io fui la prima ad entrare, mi diressi forte e sicura verso il tuo letto ma con grande inquietudine vidi che non c’eri più, le lenzuola erano state tirate via dal materasso ma sul cuscino c’era ancora la forma della testa…chiesi, con un tono disperato della voce, dove fossi e l’infermiera mi disse che ti avevano trasferito in un altro reparto. Giunte davanti alla porta dai vetri sabbiati, il cuore quasi non lo sentivo più, le tempie stavano battendo come tamburi, la fronte era madida di sudore ma il ricordo della vigliaccata del mattino stesso mi impedì di tentennare sull’uscio dell’entrata. La tua stanza era l’ultima sulla destra, quella di fronte alla saletta dove si riunivano i medici, gli stessi medici che tentarono di regalare a te qualche istante di vita in più, e a noi la sensazione che, fino a quando fosti stato ancora in vita, tu rimanevi la nostra luce, nonostante il buio attorno a te e la nostra forza, nonostante la tua estrema debolezza fisica. Sentii il rumore dei miei passi rimbombare sin dentro le meningi e tutto quello che era intorno appariva essere avvolto in una irrealtà fatta di camici bianchi, di tute verdi, di zoccoli di legno, di ciabatte di plastica colorata, di odore di alcool e di disinfettante, di rumori metallici, di macchinari con lunghi tubi, mentre fuori di lì, al di là di quelle finestre era giugno, il mese che più amavano entrambi perché segnava il preludio dell’estate, delle nostre estati da trascorrere fuori in veranda, al mare, o in campagna a raccogliere la frutta estiva così gustosa e dolce. Mentre davanti agli occhi mi passarono, come in un caleidoscopio, tutte le immagini di me e di te, seduti in giardino o ad innaffiare le piante di pomodoro, mi accorsi di essere arrivata a destinazione: ecco l’ultima stanzetta a destra, dove ti trovavi tu, nonno.

49° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La nonna fu la più coraggiosa di tutte e tre… la mamma ed io potemmo capire dalla sua reazione in quali condizioni versavi. La borsa di pelle color cuoio, a bauletto e con i manici rigidi, le scivolò in terra, si portò le mani al viso e poi si coprì gli occhi mentre copiose lacrime le bagnarono le guance, scendendo sin sotto al mento.

Compresi, così, davanti a quella scena di profonda angoscia, che non ci sarebbe stata più vita da vivere con te accanto. Anche la mamma quando ti vide trattenne a stento le lacrime ed io… io ero ancora lì, dietro l’angolo, potevo scorgere la nonna e la mamma ma non te, non ti avrei voluto vedere in quel letto che non era il tuo, ma la mamma mi trascinò vicino a sé e così ti vidi anch’io.

Ti vidi anch’io…poi i tuoi occhi si spalancarono all’improvviso e con un gesto della mano tentasti di chiedere dell’acqua, limitandoti, però, ad indicare solo il bicchiere sul comodino: fu la mamma che esaudì la tua richiesta. Scusami nonno, ma non accettai l’idea che quella persona attaccata per un millimetro solo alla vita eri proprio tu, il mio consigliere, il mio maestro, la mia fonte di forza e di coraggio, la mia enciclopedia vivente, la mia stella polare, il mio vanto, il mio orgoglio, il geloso custode dell’immenso amore che ancora oggi nutro per te. Credo che la mia inaspettata reazione, quel mattino in ospedale, rimanga il mio peccato più grande. Dunque io stetti lì, in piedi, a debita distanza dal tuo letto e proprio nell’istante in cui la mamma si chinò su di te, l’infermiera ci pregò di uscire dal reparto.

La nonna ti baciò sulla guancia, la mamma strinse le tue mani tra le sue ed io non ti salutai neanche. Proprio mentre le nostre gambe ci stavano portando via da te, e noi eravamo seguite a ruota dall’infermiera, io ebbi un impeto di disprezzo verso me stessa e mi chiesi che cosa avessi fatto e pensato mai, quanto grande sarebbe stato il mio rimorso se tu fosti morto di lì a poco, senza un mio sorriso, un mio bacio, una mia stretta di mano, un mio abbraccio.

In cosa mi stava trasformando la sofferenza? Cosa mai significava quel senso di estraneità che provai davanti al tuo letto? Tu eri sempre tu, il mio grande nonno ed io ero sempre io, tua nipote, la tua bella bambina. Nulla avrebbe potuto spazzare via quei meravigliosi 28 anni trascorsi al tuo fianco. Ebbi l’impeto di girarmi, di invertire il mio percorso e di correre verso di te, per chiederti scusa per la mia vigliaccheria, per il mio egoismo, per abbracciarti e stringermi a te, ma non mi fu possibile perché la nostra presenza in quella corsia, a quell’ora, era incompatibile con il lavoro degli operatori sanitari.

Implorai di poter tornare da te, ma nessuno riuscì ad esaudire la mia richiesta.

Mi rimase solo una cosa da fare: recarmi in gran fretta nella cappella dell’ospedale, inginocchiarmi e pregare Dio affinché avessi un’altra opportunità, una sola, per poterti vedere il pomeriggio stesso e dirti che non era cambiato nulla, che né la malattia né la morte avrebbero potuto trasformare quel nostro rapporto così speciale in qualcosa di superficiale, di intercambiabile, di scontato.