48° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Alle otto del mattino successivo la nonna, la mamma ed io eravamo già in ospedale, alla disperata ricerca di qualcuno che potesse darci notizie sul tuo stato di salute.

Qualcuno si limitò ad indicarci il piano dove ti trovavi, non una parola di più, e noi tre, non un battito di ciglia in più, ci dirigemmo come forsennate verso di te. Io ero avanti di una rampa di scale la mamma e la nonna, addolorata e stretta in quel suo vestito di seta a fiori, ma dovetti attenderle proprio fuori dal reparto dove eri ricoverato perché non ce l’avrei fatta mai ad entrare da sola e vederti steso tra anonime lenzuola.

Ed infatti lì, affannata, madida di sudore, le mani che tremavano dal nervosismo, le gambe che quasi non sentivo più, stetti fuori da quella grande porta con i vetri smerigliati che indicava l’ingresso del reparto.

Tentai anche di appoggiare la mano su quella maniglia fredda, volevo bussare, chiedere di poterti vedere, ma e non lo feci e sbagliai, perché in quel frangente avrei dovuto essere io la più forte, non la nonna ormai piegata a metà dal peso di un’assenza di in solo giorno, non la mamma che in tutta la sua vita aveva pensato a te come ad un dio, capace di vincere persino sulla morte, la stessa che mi sembrò di vedere seduta al tuo fianco su quella seggiola con l’anima in ferro e dallo schienale di plastica color verde acqua che vidi, quando l’infermiera di turno ci accompagnò da te.

Non fui io a bussare alla porta, non fui io la prima persona ad affacciarsi in corsia per vedere che aspetto avevi, non fui io a parlare con il medico, non fui io a fare coraggio alla nonna e alla mamma, non fui io a prenderti la mano quando tu ci cercasti con gli occhi, non fui io a porgerti il bicchiere d’acqua che ci indicasti, appena entrate in corsia.

Non feci niente di tutto questo ed ancora oggi ne provo vergogna. Mi limitai a volgere lo sguardo verso la rampa di scale per vedere se arrivavano la nonna e la mamma e spronai quest’ultima, con coraggiosa paura, a bussare e a chiedere di te. Non era orario di visita ma all’accettazione un medico che sapeva del tuo arrivo in ospedale, il giorno precedente, ci aveva invitato ad entrare in reparto per cercarti e chiedere ulteriori informazioni sul tuo conto. Un’ infermiera aprì la porta quel tanto per poter accertarsi chi fosse fuori e poi ci fece strada scusandosi altresì per il disordine che c’era in quel reparto, disordine causato dal fatto che quelle stanze stavano ospitando solo temporaneamente i letti di quel reparto perché altrove erano in corso dei lavori di ristrutturazione. Allora pensai a come fosse tutto transitorio in quel momento.

Mi sembrò di far parte in quel preciso istante, di un gioco sinistro nel quale tutto sembrava attendere una sistemazione definitiva cosicché tutto quello che era presente diventava ancor più velocemente passato, ed il futuro appariva così più vicino.

Percepii me stessa, la mamma, la nonna, ormai scioltasi in un pianto dirotto, come nipote, figlia e moglie solo temporaneamente, lo saremmo state ancora per poco, qualche settimana ancora e tu non ci saresti stato più, non avremmo più potuto pronunciare quelle parole che amavamo tanto: nonno, papà, Pasqualino. Ricordi, la nonna amava chiamarti così, tu non lo disdegnavi quel diminutivo perché così ti aveva chiamato tua madre e così si era rivolta a te la nonna in 50 anni di matrimonio, specie nei momenti di tenerezza. Mentre questi pensieri turbinavano nella mia mente talmente velocemente da farmi mancare le forze, l’infermiera ci fece segno con il braccio teso che ti avremmo potuto trovare lì, dietro l’angolo, nel primo lettino a destra, vicino alla finestra. Cosa c’era dietro quell’angolo di un muro dipinto in fretta di bianco?

47° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La mamma, nello stesso momento in cui mi stavo crogiolando nella piega di un dolore mai provato sino ad allora, stava offrendo un bicchiere d’acqua fresca alla nonna, tremante ed in lacrime.

Quel modo della mamma di porgere il bicchiere alla nonna, ti fece rivivere per un breve istante in quella cucina: tu non c’eri in quella casa eppure non solo tutto parlava di te ma anche un semplice gesto portava impressa una tua abitudine, una tua consuetudine.

Tu eri ancora vivo, nonno, ma quella casa ti stava piangendo come se già non lo fossi più. Erano trascorsi appena dieci minuti da quel suono della sirena dell’ambulanza, erano solo dieci minuti che non ti vedevamo e già ci sembrava di impazzire. Ci recammo in ospedale e qui aspettammo per un tempo che sembrò lunghissimo… poi una porta si spalancò, si spalancò sulle nostre paure, sulla nostra disperazione. Ci chiesero se eravamo noi i tuoi congiunti.

Ti confesso, nonno, che il tuo cognome, da tutti e da sempre pronunciato con rispetto ed ammirazione, sembrava risuonare, in quelle tristi stanze di un ospedale, come un qualcosa di vuoto, senza significato, cinque sillabe legate tra loro che celavano dietro di sé tutta la gloriosa storia dei tuoi antenati. Il bollettino medico che scaturì da quella visita non sembrava aver risolto molto degli iniziali dubbi, poiché il quadro generale era molto nebuloso ma un ricovero era quanto mai necessario.

Tutto finì lì quel pomeriggio di giugno, non ci fu concesso il vederti. Nonostante il consulto fosse finito già da qualche minuto, noi rimanemmo immobili, quasi inebetite da quelle parole che non avevano sciolto né i dubbi né le nostre lacrime, compresse nei nostri occhi, quasi a voler scacciare la realtà di una situazione che da sola avrebbe giustificato tutte le lacrime che un uomo può piangere nel corso della propria esistenza. In questo dolorosissimo limbo i nostri passi divennero pesanti, il respiro sembrava di piombo, fu una sensazione strana quella che provai di ritorno dall’ospedale, mi sentii, di colpo, come allinearmi a te, al tuo stato di salute, alla tua debolezza, alla tua difficoltà di tenere gli occhi aperti. Le nostre anime, compagne e complici, stavano collimando anche in quel momento di profondo dolore e mentre la nostra macchina passò proprio davanti alla caserma, dove avevi prestato servizio per così tanti anni, pensai alla forza dell’amore ma anche alla sua grande impotenza.

L’amore vince tutto e su tutto anche sulla morte, è vero, ma non sul momento che la precede: l’amore non può vincere sulla sofferenza, né sul decadimento fisico…qui l’amore deve abbassare il capo, anzi diventa una cassa d’amplificazione del dolore, perché più ami e più soffri nel vedere la persona, oggetto di così tanto amore, costretta a giacere in un letto. Avrei voluto piangere quel pomeriggio, di ritorno dall’ospedale ma non potevo farlo davanti alla nonna e alla mamma, avrei avuto bisogno di piangere perché tu eri in quel reparto d’ospedale senza le tue lenzuola, senza i tuoi sandali di cuoio, fedeli compagni di tante passeggiate, ma non era quello il momento di lasciarsi andare, perché le forze richiedevano di essere concertate e concentrate su di te che avevi bisogno di me, in quei tristi giorni, forse più di quanto io ne avessi di te.

46° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Spostammo tutti i mobili che potevano dare ingombro al passaggio e così scomparvero, all’improvviso, il tavolino con l’alzata verde che ospitava il telefono, le due poltroncine di pelle marrone, quelle di velluto della camera da letto.

Era così arrivata, nonno, l’ora nella quale nel quale gli oggetti a te più cari, i mobili più belli, le sedie più confortevoli, i tuoi sandali, erano diventati superflui, inutili.

Mi lasciai andare sulla sedia della veranda, profondamente sconfortata e scossa da questa amara considerazione: tutto non serviva più a niente. Gli operatori del 118 uscirono per il balcone…quello che provammo nel vederti andare via, nonno, era condensato sui nostri volti profondamente rattristati ed increduli, in quelle lacrime, in quei baci che ti stava lanciando la nonna dal balcone, in quel mio non far niente di fronte alla tua persona che stava entrando nell’ambulanza.

Dopo di te salirono gli operatori sanitari e via, allora, a sirene spiegate. Io rimasi immobile e ti seguii con lo sguardo fin dove mi fu possibile vedere quella vettura bianca ed arancione con quella luce azzurrognola che vi girava sopra. Tutto quello che fu d’ingombro al passaggio della lettiga l’avevamo accatastato in cucina e quando vidi i tuoi sandali di cuoio, li presi e li portai in camera da letto, posizionandoli dove erano sempre stati, vicino al tuo comodino, seminascosti sotto il letto, come a credere che bastasse la ripetizione di un semplice gesto a far tornare le cose come invece, non sarebbero state più. La stanza più triste e desolata era proprio la stanza da letto, il tuo materasso infossato, le lenzuola gettate all’aria, la coperta scivolata sino a terra, quasi a voler scomparire, a non voler assistere a quella scena straziante che si era consumata in quella stanza poco prima. Non c’erano solo i tuoi sandali a testimoniare la tua assenza, ma anche il tuo orologio con il cinturino d’acciaio che non era al tuo polso, il tuo mazzo di chiavi dietro la porta, la tua penna sul comodino, la tua borsa di pelle nera su quel poggiapiedi rivestito in seta damascata che avevi da sempre usato per poggiarci i tuoi libri, le tue riviste. Io ero lì, nella tua camera, per la prima volta in 28 anni, senza di te al mio fianco, io ero lì in quella casa, senza sentire la tua voce risuonare in quelle stanze, io ero lì, a chiedermi se quella stessa casa, quelle foto sul comò, quelle lenzuola di lino ricamate a mano, quei sandali di cuoio li avresti rivisti o ne avresti portato con te solo l’immagine di un ricordo.

45° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Poco prima che le sirene dell’ambulanza squarciassero l’aria, mi facesti cenno con la mano di avvicinarmi e di sedermi vicino a te, non sillabasti chiaramente le parole anzi, la tua bella voce stentorea sembrava soffocata, ma io riuscii, nonostante tutto, a ricomporre questo dolorosissimo puzzle di frasi a metà e capii che volevi avermi accanto, volevi vedermi. 

Poi, l’ultima tua richiesta, proprio mentre l’ambulanza stava voltando nella nostra via: “Non lasciarmi”.

Quante volte, nonno, ero stata io ad implorarti di restare ancora un po’ con me, nelle sere d’inverno quando, per non farmi prendere freddo, salivi tu da me per darmi la buonanotte. E così, incerta, piangente, addolorata, ero vicino a te, a stringerti le mano.

D’improvviso, sentimmo una sirena: era destinato a te quel suono sgradevole, lo stesso che avevamo sentito tante volte mentre eravamo comodamente seduti sul dondolo, mentre innaffiavamo le piante o mentre chiacchieravamo nello studio. E sempre ci chiedevamo, con il cuore stretto in una morsa, chi andasse a prelevare quell’ambulanza, in quale casa sarebbero entrati gli infermieri, chi avrebbero trovato a piangere, chi avrebbe lasciato la propria abitazione, senza neppure sapere se quella volta sarebbe stata l’ultima. Ma quel giorno di giugno, caldo, caldissimo, che faceva sciogliere quasi l’asfalto sulla strada, l’autoambulanza si sarebbe fermata sotto la nostra palazzina gialla, gli operatori del 118 sarebbero entrati dal grande cancello e saremmo state noi a piangere, a preoccuparci, a chiedere informazioni sul caso, a disperarci all’idea di saperti lontano da noi, mentre un interrogativo mi dilaniava l’anima: e se quella fosse stata l’ultima volta che vedevi la tua casa? Cosa avresti portato con te nell’aldilà? Forse l’immagine di noi due seduti sulle poltroncine di pelle marrone del corridoio, forse l’incantevole scenario di verde che si godeva dalla finestra della tua stanza da letto, forse il volto improvvisamente invecchiato della nonna, forse il mio viso da bambina che, mi dicevi spesso, ti appariva davanti agli occhi nei momenti di difficoltà? Mentre tutte queste idee affollavano la mente, affogandola in un mare senza risposte, l’ambulanza rallentò mentre si stava avvicinando a casa. E fu così che si fermò sotto la nostra palazzina, che normalmente a giugno era già pronta per l’estate, con il mattonato della veranda tirato a lucido, il dondolo con i morbidi cuscini colorati, l’ombrellone incastrato nella base di cemento, con le sdraio, con il braciere pronto ad accogliere le melanzane e quei saporitissimi peperoni della tua campagna. Invece quel giugno del 2001 iniziava tristemente così, con un’ambulanza che si fermava sotto il grande cancello di ferro battuto.

44° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Solevi dire spesso, nonno, che la vita somigliava ad una ruota, dove l’ultimo spicchio era il vicino di casa del primo e come gli estremi non facevano fatica a toccarsi…così avvenne anche per te, che a 79 anni sembravi essere tornato un bambino di pochi mesi, tanto il tempo che trascorrevi a letto a dormire. Ma io volevo riempire ogni tuo momento e capivo che questo era anche un tuo desiderio.

Ecco perché mi affacciavo spesso dal balcone della cucina al piano superiore per vedere quando gli scuri erano aperti, in modo da scendere subito giù da te per farti compagnia, per lenire un dolore sordo, per riempire un vuoto che stava già crescendo dentro di me.

L’ultimo mese, nonno, fu una corsa agli ostacoli, una partita di poker, un incontro di boxe, una corsa contro il tempo. Quando gli scuri si aprivano, di corsa afferravo le chiavi e prima ancora che la nonna lasciasse la tua stanza da letto, io ero già sul balcone, a bussare ai vetri della porta-finestra.

Quel mese di maggio registrò anche un evento rilevante per la nostra cittadina: il Giro d’Italia fece tappa nella nostra città e con i ciclisti in volata sul lungomare, arrivarono anche colori e suoni che tanto avrei voluto condividere con te. Tu seguisti il percorso in televisione e così feci anch’io ma proprio quando i ciclisti erano quasi arrivati al traguardo, tu mi pregasti di andare e di vedere quello spettacolo, anche per te. Mi dicesti che da quel giorno in poi io sarei stata le tue gambe, oramai fragili, i tuoi occhi, destinati a guardare solo la casa ed il giardino, le tue orecchie ormai confinate sopra un cuscino. Corsi via, rattristata ma al contempo fiera e felice per quelle parole che mi dicesti. I ciclisti passarono velocemente e fu uno spettacolo sentire l’aria tagliata dai raggi brillanti delle ruote.

Ma il vero spettacolo ce lo regalò il giorno successivo la volata: dalla piazza centrale e giù per tutto il lungomare, erano parcheggiate le macchine degli sponsor la manifestazione e ciascuna portava sul tettuccio una riproduzione in cartapesta dell’oggetto sponsorizzato. E poi, ancora, stands pubblicitari, palloncini, biciclette, e ciclisti pronti a firmare l’autografo. Tornata a casa, ti descrissi dettagliatamente tutto quello che avevo visto, come una diligente scolara, come un sergente fa con il proprio superiore. Ecco, nonno, in quel momento di così profondo sconforto, avrei barattato, anche solo per un giorno, la mia forza fisica con la tua debolezza, le mie gambe robuste con le tue oramai fragili, le mie spalle dritte con le tue oramai curve. Ma non potevo farlo, dovevo solo accettare la tua decadenza fisica resa ancora più dura dalla tua lucidità mentale, dal tuo essere presente nonostante quel tuo corpo che “Non rispondeva più ai comandi”, come dicevi.

43° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Il mattino del 17 maggio 2001, il giorno del tuo onomastico, scesi da te, nonno…eri in camera da letto, seduto sulla poltroncina di velluto color nocciola, mi sorridesti, io mi misi a sedere sul tappeto, accanto alle tue gambe coperte dal plaid.

E ti porsi il mio regalo…il mio regalo…e così, tremante, sfilai la lettera dalla tasca dei miei pantaloni.

Cominciai a leggerla e mentre andavo avanti, vidi i tuoi occhi velarsi di lacrime. La lettera parlava di te, del tuo attaccamento viscerale alle cose che più amavi e che più avevi amato nel corso dei tuoi 79 anni. Menzionai, ad esempio, quella cartella di pelle nera che solevi agganciare alla canna della tua bicicletta, nonostante gli anni l’avessero resa piena di rughe ed appannata nel colore, tu non te ne separasti ma Così avvenne anche per la tua penna stilografica, quella color argento. Poi, però, arrivò quel Natale ed io ti regalai un cappello di lana blu. Tutti pensavano, me compresa, che non l’avresti messo mai perché non ti saresti separato da quel berretto di lana color giallo paglierino. Lo vidi in vetrina, entrai nel negozio e chiesi un pacchetto regalo. Ero impaziente di consegnartelo, tanto che non aspettai neanche il 24 dicembre per dartelo, ma te lo feci scartare qualche giorno prima. Ti dissi che ero sicura che non l’avresti indossato mai perché tu eri così, tremendamente attaccato a quelle cose che possedevi da qualche tempo ma era un regalo mio, era un cappello del quale mi ero perdutamente innamorata. Era per questo motivo che l’avevo acquistato, pur sapendo che non avresti mai mandato in pensione il tuo fedele berretto giallo paglierino.

Tu non dicesti nulla, mi ringraziasti e piegando a metà il mio cappello di lana blu, lo riponesti nel secondo cassetto del comò. Venne la vigilia di Natale, stranamente non eri ancora seduto a tavola mentre noi eravamo lì in cucina, la sorpresa di quel Natale la portavi tu sulla tua testa: indossavi il cappello che ti avevo regalato io e come a far finta di niente, ti accomodasti e dicesti alla nonna che poteva cominciare a porgere i piatti.

Noi ti guardavamo con stupore, tu con un sorriso di chi ha capito, dicesti che era venuto il momento di cambiare cappello, perché questo blu era più caldo, più elegante, più bello.

La lettera che ti lessi quel mattino del 17 maggio 2001 terminò con un felice parallelismo: ti dissi che l’unico regalo che potevo farti in quel momento era un vestito d’amore, un pigiama di ricordi, una stola d’amore e speravo che l’avessi accettato, come accettasti tanti anni prima quel cappello di lana blu.

Balbettai pronunciando queste ultime parole. Io avevo il capo chinato verso il basso per non farti vedere che stavo piangendo, tu lo capisti lo stesso e con la mano desta mi tirasti su per il mento, mi guardasti negli occhi ed asciugasti le lacrime, senza dirmi niente. Fu un mattino speciale…fu l’incontro tra due persone che si erano amate tanto, ma che erano consce della separazione che di lì a poco sarebbe avvenuta.

42° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Lo ricordo ancora chiaramente, sì, lo ricordo, e non potrei non farlo…fu un istante e quasi senza accorgermene, tu, nonno, mi prendesti per il polso come facevi quando ero piccola, fino a condurmi davanti alla finestra della tua stanza da letto.

Non dicesti nulla, ti limitasti ad indicare fuori le piantine di pomodoro che avevano conosciuto, proprio in quei giorni di un caldo quasi estivo, una crescita miracolosa: i pomodori erano appena accennati ma sarebbero diventati grandi e rossi. Anche quando sembra non ci sia più un motivo per continuare, qualcosa ti ricorda che gli altri hanno bisogno di te per andare avanti, per crescere e fiorire. E allora sì che la speranza diventa un dovere morale. Sembrava tutto così normale lì fuori nell’orto, sembrava essere nient’altro che una calda giornata di maggio: le piantine, che di giorno in giorno stavano diventando sempre più forti, nulla potevano presagire di quello che di lì a due mesi sarebbe accaduto in quella casa, la natura faceva il suo normale corso, tutto scorreva ed andava avanti, il fiore di zucca stava già timidamente ergendosi sullo stelo spinoso, così come i pomodori aspettavano impazienti il sole di luglio e di agosto, per poter regalare a tutti il loro profumo, il loro sapore.

Leggesti, nonno, nel mio sguardo, il profondo stato di disagio nel quale mi trovavo e mi lasciasti andare, staccasti la tua dolce presa dal mio polso e senza girarti, mi permettesti di allontanarmi da te, da te che eri ancora affacciato al davanzale. Corsi su per le scale, poi però scesi subito di nuovo per andare in giardino a vedere se dall’orto riuscivo a scorgere la tua figura affacciata alla camera da letto. No, non c’eri già più, gli scuri appannati mi avvertivano del fatto che, nonostante fossero appena le undici del mattino e ti fossi alzato dal letto se non poche ore prima, il tuo fisico, ormai stanco, aveva già richiesto altro riposo. Tornai allora di corsa al piano superiore.

E mentre salivo i gradini, riflettei sul fatto che c’è un tempo per tutte le cose, esiste un tempo per vivere, uno per lottare, uno per sperare, uno per rinunciare. Ero pienamente consapevole che stavi attraversando quest’ultima fase del percorso della tua vita terrena. Dopo pranzo scesi nuovamente da te, ma la nonna mi informò prontamente del fatto che stavi ancora dormendo, che non ti eri alzato nemmeno per mangiare e che chiedevi solo dell’acqua perché lamentavi una certa secchezza delle fauci, ma non la bevevi tutta l’acqua del bicchiere, ti limitavi a bagnarti le labbra.

La nonna mentre mi raccontava quest’ultima dolorosissima novità, cominciò a piangere come faceva lei, con la bocca che tremava e con le mani che giravano nervosamente quel piccolo fazzoletto rosso inglese che in inverno era solita nascondere nella manica del vestito di flanella. Cominciò a dire che non era più tanto sicura che saresti guarito, anzi, che forse tra non molto ci avresti lasciato. Poi, appena pronunciate queste parole che sembravano crude e vere come una confessione, si sentì quasi in colpa per averle pronunciate e allora replicò a se stessa ammettendo, candidamente, che forse avevi solo del mal di gola, che eri stanco perché si era passato, quell’anno, troppo velocemente dal freddo al caldo, che saresti stato meglio e poi… e poi che tra dodici giorni sarebbe stato il tuo onomastico.

41° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Fu davvero un pomeriggio speciale, nonno, quello trascorso nella quiete magica del tuo studio, baciato dai tiepidi raggi di sole ed abbracciato dalla brezza che faceva gonfiare la leggera tenda di lino bianca che tu amavi scostare spesso dai vetri, per poter ammirare il petto d’angelo, l’elegante e raffinato arbusto che avevi piantato tanti anni prima.

Dopo aver concluso ilnostro lavoro che mi aveva consentito di imparare a memoria l’intera poesia da recitare il giorno successivo a scuola, rimanemmo nella stanza dai marmi rosa e bianchi ancora per un po’, rapiti da quella luce che ho visto solo nelle nostre case, nonno. Ancora oggi mi succede di poterla godere, nel grande soggiorno al piano superiore, nella cucina che si affaccia sul giardino, nel tuo studio, nel salone con il divano in pelle e legno, nella camera da pranzo con l’imponente lampadario di cristallo.

Ho visitato molte case, nonno, ma in nessuna sono riuscita mai a captare quell’inclinazione particolare della luce che entra nelle nostre stanze: è un fascio che entra di traverso e che va a posarsi sull’angolo del tavolo di noce, sulla sedia di paglia, sull’anta della libreria, sulla chiave della credenza.

Entra prepotentemente e gentilmente si adagia sul pavimento, sul mobilio, sulla cornice di un quadro e rimane lì, quasi a voler godere anch’essa di quell’armonia, di quella serenità che, nonostante tutti gli avvenimenti, ancora regna nella nostra casa. Questa luce un po’ speciale è da mezzo secolo l’ospite non invitata ma molto gradita delle nostre giornate, delle nostre mattine trascorse in cucina a preparare il pranzo, dei nostri pomeriggi passati a lucidare l’argenteria.

È la stessa luce che s’incunea tra i rami del limone e va a adagiarsi sulla palma, è la stessa luce della quale andavo alla ricerca per tutta casa quando ero bambina, nei caldi pomeriggi d’estate. Tutto è cambiato, nonno, e tu ben lo sai. Eppure, io continuo ad amare quella luce che sembra riportarmi indietro alle nostre giornate felici.

È quasi inspiegabile, nonno, questa continuità delle sensazioni che provo, questo esserci nella vostra assenza che pesa sino, delle volte, a diventare insopportabile. E proprio nel momento in cui ci si lascia afferrare dalla disperazione, nessuno di noi ne cade vittima, perché, all’improvviso, viene quella mano dal cielo in aiuto, proprio come nella poesia de ”Il Cinque Maggio”. E allora tutto quello che è rimasto, rivive vivificato dal ricordo di te e di chi non c’è più, e quella stessa luce che entra ancora nelle nostre case, ci dona sollievo e ci induce a pensare che è la stessa che anche voi potete vedere da lassù. Siamo un po’ tutti Napoleone nel corso della nostra vita, eppure la speranza è un obbligo, se si decide di non soccombere, di continuare a vivere, non a sopravvivere, ma a vivere, nella speranza e nella gioia.

“Di nuovo, la mia vita…”: la testimonianza di Chiara

 

Mi ha contattato: “Buongiorno, sono Chiara. Vorrei raccontare la mia esperienza…o meglio le mie emozioni…quello che si prova dopo che ci si riappropria della vita, dopo che arriva quell’esito negativo tanto sperato…dopo che si riprende tutto con una nuova carica di entusiasmo”.

Un’Immagine simbolo di quello che Chiara non ha apprezzato per tanto tempo: una splendida giornata di sole, quella che tante volte lei non aveva apprezzato ( Foto di Lorenza Fiorilli)

E così ho ascoltato la storia di Chiara, la quale mi ha chiesto di scriverla come un breve racconto: è quello che ho fatto.

Chiara: una vita tra famiglia e lavoro, impegni quotidiani, il traffico in città, qualche chilo di troppo che fa tirare i jeans sulla pancia, la ruga ai lati della bocca e quel colorito che non è più quello dei venti anni…

E poi un giorno, un giorno come tanti…e Chiara che, invece di recarsi al lavoro, va dal medico: un controllo di routine.

Entra nella stanza dello specialista, spiega il motivo del controllo:” Nessun sintomo e nessuna familiarità”.

Fa quello che il medico le dice di fare nella semioscurità della stanza.

Quel gel freddo procura a Chiara quasi una vertigine…

Il medico è in silenzio, non dice nulla, è lei che chiede se va tutto bene.

“C’è un nodulo…non è molto grande…le dico tutto terminata l’ecografia”.

Chiara è lì, sdraiata sul lettino e mentre sta fissando il soffitto di quella stanza, ripensa ai giorni precedenti: ai jeans che tiravano sulla pancia, alla scoperta di quella ruga ai lati della bocca, al colorito che non è più quello dei venti anni…ma pensa anche ai viaggi mancati, a tutto quello che non appezzava da troppo tempo, come quel sole splendente che l’aveva accompagnata sino allo studio medico, quel mattino, e che l’avrebbe accolta quando sarebbe uscita da lì.

 

“Può rivestirsi”, le dice il medico e quella camicia bianca le sembra già l’abito di un malato.

Lo specialista le spiega tutto in maniera accurata tutto e fissa un appuntamento per un ago aspirato “Solo questo potrà dirci se il nodulo è maligno o benigno. Purtroppo ha delle caratteristiche che non ne escludono la malignità, anche se ce ne sono altre che potrebbero suggerire la benignità”.

Intanto il marito la chiama per telefono: “Chiara, tutto bene?”

“Ne parliamo a casa” risponde lei…lei che intanto si rimette nel traffico…lei che piange per tutto quello che non ha visto in quegli anni, che ha dato per scontato.

La notte non dormirà, la notte sarà affollata di interrogativi…

Il giorno dopo, al lavoro, non è più lei: non parla con nessuno e avrebbe solo voglia di piangere, quello che farà nei giorni successivi, sino a quell’ago aspirato, quando, sdraiata sul lettino dell’ambulatorio, le sembrerà che quell’ago le stia aspirando anche un po’ di sé, e di quella vita che non ha apprezzato a sufficienza.

I giorni che la separano dalla risposta del referto sembrano procedere così lenti, così lenti, così lenti…

Poi quella risposta e la vita cambia, di nuovo, forse per sempre: “Negativo”.

Il sole che splende sul mare: il simbolo della rinascita di Chiara (Foto di Lorenza Fiorilli)

Chiara esce dall’ambulatorio sventolando quel referto in aria, con  i jeans che le tirano sulla pancia, con la ruga ai lati della bocca, con quel colorito che, però,  oggi è diverso, perché Chiara è rinata: non ha più 39 anni oggi, ne ha 13, al massimo 14…e una vita, nuova, davanti.

Alessandra Fiorilli

40° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Sì, ci regalammo un pezzo della mia infanzia, quel mattino, quando tornammo indietro con la mente a quel 5 maggio 1984…ricordi, nonno, io, dopo essere rientrata da scuola, mi precipitai nel tuo studio dicendoti che avrei dovuto imparare a memoria, per il giorno successivo, l’intera poesia del Manzoni, accompagnata anche da una serie di considerazioni personali.

Continuavo a camminare nervosamente per l’elegante studio con a terra i marmi rosa e bianchi. Tu mi seguivi con lo sguardo sino a quando mi invitasti a tornare giù da te e dalla nonna per mangiare le fettuccine con i ceci che tanto mi piacevano, poi, dopo pranzo, ci saremmo messi a studiare insieme la poesia nello studio dominato da quel bellissimo arbusto che ancora arricchisce di verde e di fiori candidi le mie giornate di scrittura.

Così feci, ma anche quel prelibato primo piatto preparato dalla nonna sembrava privo di sapore perché la mia mente era lì, adagiata su quei fogli di quaderno zeppi di parole da imparare a memoria. Quel giorno fu veramente un giorno particolare perché, per placare la mia preoccupazione di bambina, rinunciasti persino al tuo sonnellino pomeridiano. Non mangiammo neanche il secondo io e te, ma ci precipitammo nello studio ad aprire quel quaderno minaccioso.

Tu mi invitasti a leggere la poesia per intero, facendo attenzione ad ogni singola parola e dando la giusta intonazione. Feci quello che mi dicesti di fare, senza polemiche o senza dubbi, perché i tuoi consigli avevano sempre dato buoni frutti, a noi tutti bastava seguirli e tutte le paure, tutte le preoccupazioni, sembravano svanire di fronte a quella sicurezza che tu riuscivi ad infondere nell’animo di tutti. Cominciai a leggere ad alta voce, le parole che uscivano dalla mia bocca stavano prendendo forma e, mentre la lettura della poesia procedeva, la mia fantasia costruiva un percorso parallelo, fatto di immagini mute che accompagnavano quelle parole scritte con la penna blu. Sembrava di vederlo Napoleone, prima vittorioso e spavaldo, poi solo e disperato nell’Isola di Sant’Elena, in esilio.

La poesia mi stava piacendo, sembrava essere un’altra ode rispetto a quella che avevamo letto in classe, tra le proteste dei miei compagni e l’irremovibilità della maestra, la quale continuava a ripetere che il giorno successivo avrebbe interrogato tutti, non ammettendo nessuna giustificazione. Io alzavo di tanto in tanto la testa da quel quaderno e ti vedevo assorto, talvolta chiudevi gli occhi per assaporare ogni singola parola, eri un uomo eccezionale, nonno, capace di provare un’emozione anche di fronte ad una poesia che tu sapevi a memoria. In questo sta la grandezza di una persona, solevi ripetermi spesso: nella capacità di essere leali di fronte ai bisogni del proprio animo, coerenti e fedeli verso ciò di cui la nostra mente ha bisogno per sentirsi viva, libera e felice. Scontato emozionarsi di fronte ad un paesaggio mozzafiato, ad un’opera d’arte che si ammira per la prima volta, difficile far rivivere quell’emozione ogni qualvolta si guardi quel paesaggio o quel quadro. In questo risiede la vera felicità, quella che ci rapisce e ci porta lontano, al di sopra della meschinità, della falsità, della retorica, delle frasi dette e non pensate, dei pensieri pensati e non detti. Questo significa amare, ma amare per davvero, senza infingimenti o condizioni di comodo, senza secondi fini, senza pensare che una nostra azione debba necessariamente essere seguita da un’altra simile, compiuta dalla persona alla quale l’abbiamo donata liberamente e con gioia. Ecco, tu eri così, nonno: il tuo animo era puro, talmente puro da emozionarsi all’ascolto di una poesia che conoscevi sin dai tempi delle elementari.