39° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Era la mattina del 5 maggio, e tu, affacciandoti dalla finestra della camera mi chiamasti, pregandomi di scendere giù da te. Mi precipitai per le scale e mille pensieri affollarono la mia mente, le mani erano tremanti e sudate, la testa sembrava di piombo, nulla faceva presagire che quel tuo invito mattutino potesse essere, nonostante la tua malattia ormai avanzata, così straordinariamente piacevole.

La prima, inaspettata, sorpresa l’ebbi quando ti vidi seduto sulla poltroncina di pelle marrone del corridoio e non sdraiato nel tuo letto. Mi regalasti un’immagine serena di te, impaziente com’eri di iniziare un altro giorno con me. La porta-finestra era già aperta e proprio nel momento in cui la spalancai, mi accogliesti con un sorriso, invitandomi a prendere posto sull’altra poltroncina di pelle, felice ed orgogliosa testimone di tante nostre chiacchierate.

Dunque era il 5 maggio, possibile mai che questa data non mi suggerisse niente? Passai rapidamente in rassegna tutti i compleanni, tutti gli onomastici, tutti gli anniversari, tutte le date più importanti e rilevanti per la nostra famiglia, ma nessun evento particolare era datato 5 maggio.

Tu intanto, di fronte al mio imbarazzo crescente, sorridevi bonariamente fino a quando, dopo l’infruttuosa attesa, pronunciasti il nome di Alessandro Manzoni. Ma certo, Manzoni, Il Cinque Maggio, la poesia che parlava di Napoleone! Come non pensarci prima! Mi sorprendesti una volta di più quel giorno perché, nonostante la tua malattia avesse reso insicuri i passi e il respiro affannoso, la tua mente era ancora lì, con me, tra i libri che tanto amavi ancora sfogliare, con le date storiche, con gli avvenimenti più importanti della storia dell’uomo, con la voglia di ricordare, di recitare a memoria la famosa poesia del Manzoni, di essere vivo e presente con la mente, con l’anima, nonostante il tuo corpo affermasse il contrario.

Tu eri ancora qui, con me, la tua voce meno stentorea ma vibrante, in grado ancora di dare un significato alle parole dell’ode, regalandogli un’intonazione diversa a seconda del contenuto. Avvenne un fatto straordinario: la forza travolgente della cultura, la bellezza incomparabile del sapere vinsero, quel mattino, sulla tua malattia.

Non c’era più nulla della tua sofferenza: la cosa che avrei ricordato per sempre, di quel 5 maggio 2001, sarebbe stata quella poesia recitata all’unisono e quella lezione di vita che ne scaturì. Credo che lo facesti anche tu, quel giorno, il gioco di annullare una dimensione spaziale fatta di dolore e sofferenza, perché la pelle del tuo viso era tornata distesa, il tuo sorriso pieno e schietto, i tuoi occhi con le pagliuzze d’oro.

38° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Poi, nonno, tu mi dicesti che avresti voluto riposare un pò, io allora accostai gli scuri delle finestre, ti sistemai le lenzuola sulle gambe, ti aiutai a mettere per bene il cuscino sotto la tua testa, tu mi stringesti la mano, ma prima di chiudere l’uscio dietro di me, mi chiamasti per lanciarmi il bacio con le dita unite come per consolarmi della tua sofferenza, come per dirmi di andare avanti.

Fuori la camera da letto ad aspettarmi c’erano la mamma e la nonna entrambe preoccupate, entrambe con gli occhi gonfi di lacrime trattenute a stento. Loro avrebbero voluto chiedere ma non lo fecero, io avrei voluto consolarle ma non lo feci, tu avresti voluto rimanere con noi, con le tue donne, come amavi chiamarci sempre, ma non potevi.

La vita è proprio questo camminare come funamboli sul filo di un’emozione, per poi rimanere lì, immobili, senza muoversi, senza riuscire a prendere una decisione: camminare o cadere giù.

Allora si decide di rimanere fissi ad osservare quel punto quasi a voler fermare il tempo, quasi ad aspettare che qualcun altro venga in nostro aiuto e prenda una decisione anche per noi. Invece non è mai così, siamo sempre e solo noi gli unici artefici del nostro destino, unici responsabili delle nostre decisioni. Io mi limitai a dire alla mamma e alla nonna che, nonostante tutto, eri consapevole e sereno. Di cosa, lo sapevamo tutte e tre. La nonna andò in cucina e tentò di preparare la cena. Aveva comprato due mozzarelle di bufala…due nonno, una per lei e una per te, pur sapendo che non avresti cenato, pur sapendo che ti avrebbe trovato nel vostro letto, pur sapendo che avrebbe dovuto apparecchiare per una sola persona.

Tutto sembrava, in quei giorni, così difficile… ma poi ritornò alla mente quella tua frase: “Sursum corda”, che in latino significa “In alto i cuori”. E allora tornò il coraggio di riprendere in mano la nostra vita.

37° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Nella fretta di correre da te, nonno, inciampai nel lembo del tappeto, sbattendo violentemente le ginocchia a terra e tu, sempre con infinito amore, mi chiedesti se mi fossi fatta male ed io, con le ginocchia rosse, minimizzai l’accaduto. Fu allora che, dopo esserti messo seduto sul bordo del letto e aver sorseggiato la tua acqua minerale, cominciasti a ricordare, a voce alta, quel mio piccolo indicente con la bicicletta di tanti e tanti anni prima.

Ebbi modi di constatare quanto fosse ancora viva la tua memoria e quanto fosse per te importante ricordare perché la memoria, amavi dire spesso, ci permette di riconoscere un pericolo e di schivarlo: essa non è solo la custode del nostro passato ma anche la sentinella del nostro futuro, la memoria può farci ricordare con la stessa intensità momenti spiacevoli ed altri bellissimi, ma poi sono sempre questi ultimi a darci la forza per non farci trascinare via dalla disperazione. Dunque, tu cominciasti a raccontare di quel piccolo incidente e della mia prima bicicletta che avevo ricevuto senza dover faticare molto, perché, nella nostra famiglia, da sempre, tutti ne avevano avuta una e ciascuno l’aveva amata come fosse stata un’amica, una fedele compagna.

Non poteva essere altrimenti, visto che eri stato proprio tu, nonno, ad infonderci la passione per le due ruote, le stesse che ti avevano condotto al lavoro per 40 anni. La bicicletta era un’altra cosa, solevi dirci con gli occhi sognanti… la bicicletta non è solo un mezzo di locomozione, è libertà, è assaporare la fatica di una salita ed il gusto di una discesa, è il vento nei capelli, è la camicia che si riempie d’aria, è il foulard che svolazza, è come dovrebbe essere la vita: semplice e lieve.

Poi ecco il ricordo che serbavi ancora nella mente: l’immagine di me, piangente a terra, con il ginocchio sanguinante a causa della caduta su dei sampietrini appuntiti che stavano sistemando lungo la strada. Tutto si risolse con un mio fragoroso pianto ma per fortuna non ci fu bisogno neanche dei punti.

Nell’istante stesso in cui stavi ricordando l’accaduto di tanti anni fa, nonno, sembrava non esistesse più nulla: la tua malattia, le mie lacrime notturne, le incognite del futuro e io ero di nuovo bambina, e tu il mio nonno forte, l’uomo che infondeva coraggio e fiducia, l’instancabile Cavaliere che non conosceva sosta…allora pensai che eri ancora tu e sempre tu, nonostante il vigore fisico non sarebbe stato più fedele compagno dei tuoi giorni. Ma eri ancora tu, sì, tu con il tuo amore, con il tuo modo di parlare e di farci vedere sempre il meglio delle cose.

36° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Un pomeriggio, nonno, uno dei tanti di quella primavera del 2001, mi trovavo nell’ingresso della tua casa, in attesa che la nonna tornasse dalla spesa quotidiana. Tutto si consumò in un attimo: un bagliore fortissimo, una luce pura, limpidissima, splendente come non mai, entrò dalla vetrata sovrastante il portone in legno dell’ingresso.

E fu così, nonno, che all’improvviso, mi ricordai di quel racconto narrato sempre a metà, sempre sottovoce: riguardava tua madre, nonno, la tua amatissima mamma e del giorno in cui ti lasciò per sempre. Dicesti che quel pomeriggio tuo padre, presagendo la fine ormai prossima della moglie, ti lasciò nell’ingresso di casa, che un po’ somigliava a quello che tu avresti poi fatto costruire nella tua abitazione, ti fece sedere su una poltroncina e mentre tu potevi solo assistere, mesto ed impotente, al via vai di medici e parenti, all’improvviso entrò una luce fortissima dalla vetrata colorata, era un bagliore strano, indescrivibile.

Ti affacciasti fuori al balcone per vedere se potesse provenire dall’esterno ma ciò era impossibile, essendo una triste giornata di pioggia, uggiosa e grigia. Dopo qualche minuto, tuo padre dovette darti la triste notizia, la notizia che nessun bambino di sei anni dovrebbe mai ricevere. Quel bagliore, nel tuo immaginario infantile, lo ricollegasti all’anima tua adorata mamma: pensasti che quella luce era la luce divina che la stava chiamando a sé e che tutti i Santi fossero scesi in quel momento sulla vostra casa per accompagnare la tua adorata mamma. Pensieri da bambino, pensieri dettati dalla consapevolezza che una persona così speciale come tua madre, meritava che tutti la portassero in trionfo, mentre si avviava verso l’ingresso del Paradiso.

Non so, nonno, se quella luce che entrò nell’ingresso della tua casa quel giorno di tanti anni prima era simile a quella che vidi io quel pomeriggio…so solo che anche in quel momento il tempo era uggioso, piovoso, mesto…ebbi paura di perderti ma poi sentii la tua voce che arrivava dalla tua camera e che mi stava chiamando.

35° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Nonostante la mia ferrea volontà di regalarti un giorno di festa, nonno, quel 1° maggio fallii miseramente nel mio tentativo. Tutto terminò con quel pane fragrante spezzato e lasciato lì, sulla tovaglia che sembrava, all’improvviso, aver perso tutti i suoi colori.

Ti accompagnai in casa, e tu, mestamente, ti dirigesti verso la tua camera. Andai in cucina e sfogliai il calendario e sapevo, ormai, che in un giorno qualsiasi mi avresti lasciato. Era certa solo di una cosa, nonno: ti avevo amato moltissimo, sin da bambina, e continuavo a farlo, ecco perché il mio dolore, quel 1° maggio 2001, sembrava essere un abisso nel quale mi trovavo, senza più aria, senza più luce, senza più speranza.

Tu riuscisti a leggere nei miei pensieri e proprio in quel momento mi dicesti che avrei dovuto continuare a scrivere, sempre, che non avrei mai dovuto smettere di farlo. Ma scrivere con il cuore, scrivere parole vere, scrivere di sentimenti e di sorrisi, di risate e di dolore, di inquietudine e di gioia, di pienezza e di solitudine. Capii che non ti riferivi al mio lavoro da giornalista ma non riuscii a comprendere quello che tu intendevi. Solo adesso, nonno, solo ora che sto seduta davanti al computer e racconto di noi e parlo di te, solo nel momento in cui sul terminale appare quella lineetta nera che lampeggia ad intermittenza, invitandomi a far scorrere le mie dita sui tasti, capisco cosa significa scrivere. Non l’ho mai fatto prima d’ora, con quella intensità che solo l’anima può regalare, con quella forza che solo i sentimenti veri sanno offrire, con quel desiderio di far partecipe gli altri della nostra storia, del nostro amore, che non è andato via e che sento ancora sulla mia pelle, che leggo nei miei occhi, soprattutto quando, seppur orami molto raramente, mi sento abbandonata dalla speranza, quella stessa speranza che tu mi hai intimato, sino all’ultimo, di non perdere mai, perché la vita stessa è speranza.

34° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Ti eri subito innamorato di questa terra, nonostante fosse brulla e spoglia, eppure pensasti che sotto le tua mani avrebbe ripreso a vivere, a dare i suoi frutti. Così avvenne. La tua determinazione vinse anche quella volta, cominciasti a prenderti cura di tutti quegli alberi e in breve tempo il pero, il melo, il nespolo, il fico, il pesco, il susino, il ciliegio ma anche la vite e le piantine, che di volta in volta mettevi a dimora a seconda della stagione, sbocciarono come per miracolo, divenendo forti e portando sempre grandi quantità di frutta. Eri riuscito a diventare un loro amico, si erano subito affezionate alle tua mani, alla tua presenza, al tuo modo di raccogliere dai loro rami i frutti. L’amore profuso verso quegli alberi e quelle piante era contenuto negli ortaggi e nei frutti che orgogliosamente portavi a casa ogni giorno.

D’estate andavi via anche alle cinque e mezza del mattino e tornavi intorno alle dieci. Poi tu arrivavi con la tua macchina, acquistata qualche mese prima della mia nascita. Sbucavi dalla stradina a sinistra e ti fermavi sotto casa. Scendevi rosso in viso, con gli stivali di gomma sporchi di terra e la maniche arrotolate della camicia, il cappello di paglia in testa, aprivi il cancello del garage e vi posizionavi sotto dei fermi in legno. Salivi nuovamente nell’auto, inserivi la marcia indietro e sterzando tutto verso sinistra ti inabissavi nel garage. Ogni giorno era una sorpresa: già, perché nel portabagagli c’era sempre qualcosa di nuovo, specie d’estate. La nonna ti veniva a dare una mano nel portare sopra casa le cassette di legno, nelle quali sistemavi i frutti mentre io mi limitavo a sbirciare cosa ci fosse dentro. Sistemati gli attrezzi da lavoro in cantina, salivi anche tu con la nonna in casa e cercavi di mettere quei preziosi doni della campagna nelle fruttiere di vetro. Qualcosa però finiva nel frigorifero, perché sarebbe stato impossibile, per noi, riuscire a mangiare tutta quella frutta. La nonna spesso si lamentava per quella pacifica invasione di pesche e susine, prugne ed albicocche, uva e fichi ma la terra stava dando i suoi frutti e noi certo non potevano lasciarli indietro. Era necessario celebrarla tutta quella ricchezza ed era proprio la nonna la più golosa di quella frutta colorata e saporita. Tu e la campagna: un binomio vincente ma mai scontato, un rapporto vero, forte, tenace, sanguigno: tu, padrone e amico di quegli alberi che non tardavano mai a regalarti, quasi in segno di ringraziamento, quei frutti così saporiti.

33° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Intanto, anche il mese di aprile ci stava lasciando e maggio ti avrebbe regalato le ultime calde giornate di sole, un sole benevolo per quelle piantine dell’orto che stavano rigogliosamente crescendo grazie alle mie cure. Anche il 1° maggio, così come avevo fatto per il mattino di Pasqua e di Pasquetta, decisi di trascorrerlo con te.

Quel giorno ti trovai seduto in cucina, indeciso se mangiare o meno quelle fettine di pane colorite da un sottilissimo velo di marmellata. Non avevi molta voglia di fare colazione, tanto che fui costretta a registrare come la tua perdita di appetito fosse diventata costante e stava, anzi, aumentando ogni giorno di più. Cercai di non farti pesare ciò e ti invitai ad uscire in giardino con me: avremmo ricreato fuori, tra gli alberi e le piante, quell’atmosfera gioiosa che molte persone avrebbero vissuto in quel giorno di sole, seduti sui plaid, stesi sull’erba o in spiaggia in riva al mare.

Noi ci saremmo sistemati sulla nostra panchina e sarei andata a prendere il tavolo pieghevole di legno nel ripostiglio di casa. La tovaglia da stendervi sopra doveva intonarsi con la giornata, nessuna tovaglia di lino ricamato, dunque, né di fiandra, ma una bella colorata, sullo scozzese, come quella che avevo regalato alla nonna qualche anno prima, in occasione del Natale. Sarei andata a comprare delle fave e del buon pecorino romano proprio nel negozio dove abitualmente ti servivi tu. Sarei poi scesa in cantina a prendere una bottiglia di vino, magari invecchiata, perché quel giorno doveva essere speciale.

Ti ubriacai di parole, di sorrisi, di progetti, d’ottimismo e tu, di fronte al mio entusiasmo, non riuscisti a tirarti indietro. Allora rimanesti lì, seduto sulla nostra panchina, ad assistere al mio buffo andirivieni con il tavolino, la tovaglia, i piatti, i bicchieri, le fave, il formaggio, il pane fresco, il vino, il tuo vino. Invitammo anche gli altri a partecipare alla nostra celebrazione del 1° maggio ma rifiutarono l’invito perché vollero regalarci una giornata solo per noi.

Mi assentai per mezz’ora, giusto il tempo necessario per andare a comprare la pagnotta di pane cotto a legna, fragrante e profumata, il pecorino saporito, le fave fresche di campo. Apparecchiammo il nostro tavolino che prese un po’ di colore e vivacità grazie a quella tovaglia a quadri e vi sistemammo sopra i piatti, le forchette, i coltelli, il mio bicchiere, la tua fedele brocca in vetro. Cominciammo a prendere dalla busta di plastica color carta da zucchero, le fave e mentre le sgusciavi portandone alla bocca i semi, un velo di tristezza transitò per qualche secondo nei tuoi occhi: guardare questi ortaggi e pensare che la tua campagna era rimasta lì, da sola, senza che nessuno si prendesse più cura di lei, ti dispiaceva molto. Allora fu invitabile che il discorso scivolò su quella distesa di terra che ti aveva visto, per 20 anni, suo amico fedele.

32° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Quella sera, prima di cena, scesi di nuovo giù da te: la nonna mi aveva avvertito che ti eri svegliato. Lungo le scale mi fermai a pensare che un sonno pomeridiano così lungo non lo ricordavo, ti eri sempre allungato un po’ sul letto dopo pranzo, lo avevi fatto sempre, anche da giovane, ma quel pisolino, quel breve lasso di tempo che dedicavi solo a te e alle tue lenzuola di lino ricamate, durava al massimo tre quarti d’ora.

Lo ricordo bene, nonno, quel rito al quale ci avevi abituate.

La scena era sempre la stessa ma capace, comunque, di non scivolare mai nella solita, noiosa routine.

Dunque, tu ti alzavi da tavola mentre la nonna preparava il caffè con la crema allo zucchero, la mamma sparecchiava e, dopo aver ringraziato Dio, il quale ci aveva regalato un altro giorno da passare insieme riuniti attorno alla tavola, salutavi una ad una le tue donne, come amavi chiamarci, alla nonna stringevi sempre il naso, come si fa con i bambini, e lo celebravi sempre ammettendo che quel delizioso nasino e gli occhi verdi erano state le cose che più ti erano piaciute di lei, alla mamma mettevi una mano in testa carezzandole i capelli castani e a me stringevi la mano, talvolta mi regalavi il saluto militare ed io ti rispondevo portando la mano tesa davanti la fronte.

Poi ti recavi in bagno e alla tua uscita, lungo il corridoio si poteva sentire il profumo inconfondibile del tuo dentifricio alla menta, che era ormai diventato un tuo odore caratteristico, attraverso il quale ti avrei riconosciuto tra mille, anche ad occhi chiusi. Chiudevi la porta della camera da letto e sistemavi il cuscino, ma non ho mai saputo se indossavi il pigiama o ti coricavi solo sulle coperte, è un segreto, questo che è rimasto tale. Questo rito si compiva introno alle due e mezza del pomeriggio, ma solo da quando eri andato in pensione perché a quell’ora, quando prestavi servizio come maresciallo presso la caserma, rientravi a casa brandendo nell’aria il tuo cappello e salutavi me, la mamma e la nonna che eravamo rimaste a tavola ad aspettarti, nonostante avessimo già finito di mangiare.

Ma noi non ci saremmo perse per niente al mondo lo spettacolo di quando sollevavi il piatto piano da quello fondo che la nonna aveva messo per non far raffreddare la pasta, di quando tentavi di dare una forma a quegli spaghetti, che, complice il vapore acqueo, erano diventati un blocco unico. Allora chiedevi alla nonna di ripassarli nella padella, magari con un po’ di burro e in attesa che gli spaghetti riprendessero forma, sbirciavi nel piatto riservato al secondo il contenuto dello stesso. Poteva ospitare la fetta di carne arrostita con la lattuga, la mozzarella di bufala con l’insalata mista, il pesce con le patate ma mai il pollo perché non riuscivi proprio a mangiarlo. Mentre attendevi che la pasta ti fosse messa davanti, io, te e la mamma parlavamo un po’ della mezza giornata trascorsa, poi terminavi il pranzo con l’immancabile arancia, se d’inverno, o le pesche giallone se d’estate.

Quando il bullismo non aveva questo nome: la storia di Franca

 

“Un istante, un solo istante e la vita vira, modifica la sua rotta. Tutto cambia…specie per chi rimane e deve continuare. E così diventai, un mattino di settembre, orfana di padre a causa di un incidente sul lavoro. Mia madre dovette andare a servizio e mi ritrovai a dover accudire i miei due fratelli più piccoli. Io ero la più grande…ma avevo appena dieci anni…dieci anni ed ero diventata la capofamiglia: pulivo casa, preparavo il pranzo e la cena, lavavo i panni di tutti”.

Ancora tanto il dolore nelle parole di Franca, oggi donna di 50 anni, madre di tre figli e prossima a diventare nonna.

Quello che è successo durante la sua infanzia, ce lo racconta lei stessa, davanti ad un ottimo ciambellone.

Frequentavo la quinta elementare quando mio padre morì e, oltre al dolore, allo sconcerto, arrivarono anche le difficoltà economiche. I miei genitori stavano costruendo una casetta in campagna, dove ci saremmo trasferiti l’anno successivo ma, con la scomparsa di papà, dovemmo bloccare tutto. Fummo persino costretti a lasciare l’appartamento dove eravamo in affitto per andare in un sottoscala umido e dal quale vedevamo soltanto le scarpe delle persone che passavano in strada”.

Non furono le privazioni e le restrizioni ad abbattere Franca, quanto quello che dovette sopportare a scuola.

Cominciarono a farmi pesare le mie scarpe vecchie, il fatto che non avevo più un diario, perché tutto, in quel momento, anche pochi spicci, facevano la differenza tra mangiare o restare digiuni. Meno che mai potevo acquistare gli album delle figurine che tanto andavano di moda in quegli anni. E la mia merenda non era più il pezzo di pizza rossa acquistata al forno vicino scuola, ma una fettina di pane con un formaggino. Fu così che i miei compagni di classe cominciarono a farmi sentire diversa, a prendermi di mira, a chiamarmi “la pezzentella”. Nessuno più voleva venire a casa mia, anche se io, di tempo da dedicare alle compagne di classe, ne avevo sempre pochissimo”.

Un disegno di Franca realizzato in quinta elementare: un albero con choime di fuoco viola, un sole nero, delle nuvole blu, dei lampi e quella casa sbiadita, disegnata e cancellata più volte…

Quando un giorno l’insegnante formò i gruppi per la consegna di un cartellone di geografia, nessuno la volle nel proprio, adducendo il fatto che i suoi abiti puzzassero di chiuso.

“Nessuno voleva sedersi accanto a me al banco, nonostante l’amorevole intervento della maestra la quale decise, un giorno, di  farmi mettere vicino alla cattedra  con banchetto singolo,  ma questo non migliorò la situazione, tanto che i miei compagni si divertivano, appena l’insegnante si voltava per scrivere alla lavagna, a lanciarmi, con la biro di plastica, dei pezzetti di carta. Fu  un anno durissimo, e di questo non potevo ovviamente parlare con mia madre, già oberata di lavori pesanti e sfiancanti”.

Poi le cose lentamente migliorarono quando i nonni materni decisero, l’anno successivo all’incidente, di trasferirsi da loro, riuscendo a finire anche i lavori di quella casa tanto agognata; nel frattempo, la madre ottenne un lavoro fisso da operaia in fabbrica.

“Eppure, ancora oggi sento addosso  quel disprezzo che mi vomitavano addosso tutti i giorni i miei compagni di classe. Era bullismo… anche se all’epoca non aveva questo nome. E quando oggi leggo storie di bambini vittime dei bulli mi sento impotente e triste, perché sono cose che rimangono impresse a fuoco nell’anima, per sempre”.

Franca ha parlato per tutto il tempo con la voce rotta da dolore antico eppur presente, stringendo le mani, una nell’altra, in maniera ritmica. E, nonostante  oggi la sua casa sia piena di luce, con un bel terrazzo pieno di piante che cura lei personalmente, e nonostante i tre figli e il nipotino che arriverà tra breve, dentro di sé quelle ferite, di quando per gli altri era “la pezzentella”,  urlano ancora nella notte dei ricordi con la loro voce stridula, sgradevole, perché dal bullismo non si guarisce mai completamente, perché il passato torna, anche se a chiamarlo è un minuscolo, impercettibile dettaglio.

Alessandra Fiorilli

 

 

31° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Il sole era particolarmente caldo quel giorno di Pasquetta del 2001, allora ti invitai ad uscire fuori, in veranda, per accomodarci attorno al tavolo dalle piastrelline arancioni, sotto l’albero del cachi e del nocciolo che proprio in quei giorni stavano mettendo le giovani e verdi foglie alla loro chioma e così, per non scontentarmi, accettasti il mio invito e appoggiandoti a me, scendemmo i gradini del balcone.

Poi, quella richiesta…quella richiesta che non avresti mai fatto se non avessi sentito vicino la tua fine: chiamare qualcuno per far portare via le reti richiudibili che per decenni avevi conservato in cantina. Sì, proprio quelle reti… le stesse che per anni avevano accolto il bisnonno, gli zii, i vostri parenti. Le avevi conservate per così tanto tempo che sembravano far parte di te, della tua vita, della nostra storia.

Le tenesti giù in cantina per anni, tra le botti e le bottiglie, perché la vita è anche questo sperare che qualcuno ti venga a trovare, è anche questa disponibilità verso gli altri, questa ospitalità che sapeva di brande pieghevoli e di pranzi preparati dalla nonna, di sonnellini e di caffè pomeridiani, di pizza napoletana mangiata insieme in veranda, sotto un cielo stellato.

Quel giorno, invece, capisti che la morte avrebbe trascinato tutto con sé, come fa un’alluvione, e prima ancora che qualcuno si prendesse il disturbo di buttare quelle reti, lo facesti tu, chiedendo a me di cercare qualcuno per portarle via, tanto, dicesti, non sarebbero servite più a nessuno. Non ti saresti mai disfatto di quelle reti se solo avessi avuto il minimo sentore di poter continuare a vivere, non avresti mai negato la possibilità a qualche parente di stare un po’ con te e con la nonna, anch’ella meravigliata da questa inaspettata richiesta.

Cercammo, così, quell’uomo che guidava un vecchio camioncino con il quale andava a svuotare le cantine di oggetti, di cose di cui la gente voleva disfarsi. Venne da noi un pomeriggio di primavera, entrammo nel locale sottostante la casa per prelevarne una ad una come fossero state prigioniere di un speranza, ma erano incastrate tra loro e non volevano saperne di lasciare per sempre la tua cantina. Erano malconce ma sembravano essere felici, felici di averti reso lieto per tutti quegli anni. Ora, però era il momento dell’addio, tu eri poggiato con le braccia sulla balaustra del balcone di casa, la cantina era proprio lì sotto e stavi aspettando di vedere uscire da lì quelle brande.

Tu le guardasti una ad una quasi a riconoscerle, quasi a volerle salutare amorevolmente. Se per molti erano solo delle reti di ferro malandate, per te rappresentavano la vita che ti stava lasciando, la vita che avevi trascorso con tua moglie, le estati della tua età matura quando davi ospitalità ai bisnonni, e poi agli zii. Prima di dirigermi verso il camioncino che non aspettava altro che di caricare le brande, mi girai verso di te come a chiederti se volevi ancora che si compisse quel gesto, quasi a sperare che ti fosti pentito nell’affidare le tue reti a quell’uomo.

Lui era lì, ad aspettare e, vista la mia titubanza, non ci pensò su due volte a venirmi incontro per levarmi di mano le reti. Le addossò una all’altra, malamente, le legò strette con una corda di fortuna, si accertò che non cadessero lungo il tragitto, chiese i soldi e se ne andò. E noi rimanemmo lì, tu, affacciato al balcone, io, fuori il cancello a vedere il vecchio camioncino che si stava allontanando dalla nostra casa, portando via, per sempre, quelle reti che sembravano salutarci. La rete più piccola, quella a una piazza, aveva persino tentato di rimanere in cantina, essendosi incastrata più volte tra il torchio ed una botte, forse pensava che se avesse opposto resistenza, avremmo deciso di ospitarla ancora per un po’ nel locale sottostante la casa.

Credevamo entrambi, nonno, che anche le cose avessero un’anima, che sentissero, che percepissero le nostre emozioni. Lo credo ancora oggi.