30° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La notte successiva a quella lezione sugli alberi da te impartitami con grande amore, fu lunga, interminabile… e così, senza fare rumore, andai in soggiorno e presi dai cassetti tutti gli album delle nostre foto: dal matrimonio della mamma sino alle ultime, scattate nei tradizionali giorni di festa.

Mi soffermai a lungo sulle immagini che ritraevano noi due, o te e la nonna, o tutti insieme, e mi ricordai delle volte in cui chiedevi a qualche passante di scattare una fotografia per noi. Ti avvicinavi in maniera cortese al signore di passaggio, gli porgevi la macchinetta fotografica, gli spiegavi quale pulsante era da premere e ti stringevi forte a noi, alle nostre spalle, alle nostre mani, sorridendo con infinita gioia.

Noi eravamo così, capaci di celebrare anche una semplice passeggiata sul lungomare mentre io mangiavo la pizza calda fumante con la mozzarella filante e tu mi dicevi di stare attenta a non sporcare il prezioso capotto di lana marrone con gli alamari nocciola, capaci di venirci incontro in piazza come se non ci vedevano da anni, anche se ci eravamo separati dieci minuti prima. Dopo lo scatto della foto, anche se ci ritraeva in momenti quotidiani, scontati per gli altri, tu esprimevi sempre il timore che non uscisse bene, neanche se avessimo fotografato chissà quale parte sperduta della terra. Invece era una foto semplice, potevate esserci tu e la nonna davanti le balaustre del lungomare, tu e la mamma in giardino, io e te seduti sulla panchina dalle piccole piastrelle blu.

Scene di vita quotidiana, arricchite dall’amore, profondo e sincero che ci ha sempre unito. Continuai a sfogliare l’album delle foto, la prima immagine che mi venne incontro fu quella del matrimonio della mamma: eravate ritratti voi due fuori al cancello verde di ferro battuto, tu eri elegantissimo e visibilmente emozionato. Sin da bambina non ero mai abbastanza sazia di quelle immagini, di quel sorriso della mamma alla quale amavo dire che se la felicità avesse avuto un volto, avrebbe avuto il suo, il giorno delle nozze. Mi piaceva guardarvi prima che nascessi io, non so per quale recondito motivo, adoravo poi confrontare quelle foto con quelle successive alla mia nascita. Forse per vedere sui vostri volti, su dei miei genitori, su quello della nonna e sul tuo, quello sprazzo di gioia in più, una volta fatta la mia conoscenza.

29° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Mi limitai a scendere giù per le scale tra il trillo degli uccelli che svolazzavano felici tra i rami degli alberi in giardino, inconsapevoli di quanto stava accadendo dietro i vetri di quella persiana che tante volte avevano lambito durante i loro voli radenti.

La porta-finestra era socchiusa, già potevo intravedere la tua ombra proiettata, dalla luce dell’abat-jour, sul muro, vicino l’armadio. Non eri più a letto ma adagiato sulla poltrona e, per nascondere alla mia vista la magrezza delle tue gambe, te le copristi abilmente con quel plaid marrone.

Mi facesti segno di accomodarmi sul letto, era ancora caldo, questo vuol dire che avevi lasciato coperte e lenzuola solo per me, solo per parlare con me.

Facesti, come era nel tuo stile, un breve preambolo, riassumesti quanto avevamo fatto nell’orto, non senza esserti complimentato con me per l’ottimo lavoro svolto tra piantine e vanghe.

C’era un’ultima cosa che dovevo sapere: quando far potare gli alberi. Capii, solo in quel momento, che la tua morte era ormai sempre più vicina, più vicina ancora di quanto il tuo stato di salute potesse far presagire. Gli alberi, in 50 anni, avevano conosciuto solo la tua mano, a me permettevi, d’estate, di annaffiarli, e sempre sotto la tua super-visione.

Quante volte mi hai ripetuto, da bambina, che gli alberi sono come le persone: bisogna rispettarli, averne cura, conoscere le loro necessità per permettere una crescita sana e vigorosa.

Ricordi, nonno, quel caldo pomeriggio d’agosto, quando tu e la nonna andaste, come era vostra abitudine fare, a prendere il pesce di paranza al porto e al tuo ritorno mi vedesti che stavo bagnando, con il tubo di plastica, le foglie del limone in giardino?

Mi rimproverasti per aver procurato all’albero un fastidio che avrei potuto comprendere appieno solo se qualcuno si fosse comportato con me come io stavo facendo con il limone. Cosa avrei potuto mai provare se, dopo tante ore trascorse sotto il sole, qualcuno fosse venuto da me per bagnarmi con dell’acqua fredda? Non avrei avuto un sussulto, non avrei provato un profondo senso di fastidio? Allora perché, mi chiedesti, avevo inflitto tutto ciò al povero albero di limone? Lasciai cadere il tubo dell’acqua e ti chiesi scusa per la disattenzione e per non averti aspettato.

Ecco, l’unico intervento permesso sugli alberi del giardino era l’annaffiatura sotto stretta sorveglianza, come scherzosamente dicevo io, e nulla di più.

Adesso tu, invece, stavi insegnando a me quando intervenire su loro rami, consapevole com’eri che non sarebbe stata più la tua mano a potarli a fine stagione. Ebbi la sensazione netta di scappare, ma cosa mai sarei stata davanti ai tuoi occhi? Una codarda, una persona priva di coraggio, incapace di accettare la realtà. Tu prendesti fiato, io accavallai le gambe ma il nervosismo le stava facendo tremare eccessivamente, allora decisi di metterle giù.

Non fu solo una lezione di giardinaggio, quella che mi stava aspettando, ma un sunto della tua vita da bambino, un insegnamento su come il futuro esige la nostra volontà ed il nostro coraggio per diventare realtà. Dietro una terra ben arata, un orto ben coltivato, c’è sempre tanta fatica.

È una continua lotta, quella che l’uomo intraprende con la natura aspra e selvaggia, sempre pronta ad infestare di erbacce un campo coltivato, ma la soddisfazione di un bel raccolto lo ripaga di tutte quelle ore trascorse con la schiena piegata.

Eri uomo di cultura, indubbiamente, imbattibile in greco e in latino, insuperabile in storia, ineguagliabile in letteratura, ma avevi saputo conoscere anche la terra e le sue esigenze. La tua curiosità ti aveva sempre spinto oltre: oltre il dolore, la solitudine, la guerra, le privazioni, e questo tuo innato ottimismo ti aveva sempre ripagato. Quando portavi dalla campagna gli ortaggi invernali o la deliziosa frutta estiva, i fichi settembrini come l’uva, ringraziavi sempre Dio per averti concesso, anche quell’anno, la possibilità di poter condividere i frutti del tuo lavoro con la tua famiglia. Pur amando profondamente la vita non davi mai nulla per scontato, alla mattina come alla sera, ringraziavi il Signore che ti aveva donato un’altra giornata.

Terminasti a fatica la lezione sulla potatura degli alberi: io avevo compreso gli aspetti essenziali ma sarebbe stata poi la pratica a confermarmi se la comprensione era stata adeguata.

28° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La giornata continuò ad essere calda ed invitante e subito dopo pranzo, mentre eravamo affacciati al balcone della cucina, sfilarono tante persone, quasi tutte indossavano magliette colorate con le maniche corte, jeans rivoltati alla caviglia, scarpe leggere, a testimoniare che la primavera era veramente arrivata quel giorno di Pasqua del 2001.

I bambini erano sistemati nei passeggini ed i ragazzini più grandi sfrecciavano lungo la strada con le biciclette, le mamme richiamavano ad alta voce i propri figli, le macchine passavano, gli uccelli cantavano: ognuno continuava la propria esistenza e non nascondo che provai un senso d’invidia per loro, per quelle persone felici, inconsapevoli del mio dolore, del dolore di una nipote che stava per perdere il proprio nonno.

Ricordo quello che leggemmo un giorno nella Lettera sulla felicità di Epicuro che ti avevo regalato. In poche e semplici parole, Epicuro affermava che non dobbiamo avere paura della morte perché quando non c’è lei ci siamo noi e quando c’è lei siamo noi a non esserci più. Ci salutasti, terminato il pranzo, ringraziandoci uno ad uno come mai avevi fatto sino ad allora, per esserti stati vicino, poi andasti via nella tua camera da letto mentre la nonna era intenta a sistemare la lasagna che non avevi consumato in un piccolo contenitore d’alluminio, nella speranza che poi, la sera, l’avresti mangiata.

La nonna ragionava ancora basandosi sul passato, su quello che era stato ma non sarebbe stato più. Tutto stava tragicamente cambiando attorno a noi, a noi, che rimanemmo inebetiti da cotanto straziante spettacolo di un uomo di buona forchetta costretto dalla malattia a giocherellare mestamente con le posate e a far rimanere, per un tempo eccessivamente lungo, la deliziosa lasagna sui rebbi della forchetta.

Mi complimentai con la nonna per quell’ottimo pranzo, la strinsi a me e mi accorsi, così facendo, che stava tremando. Era impaurita, intimorita perché la vita senza di te le sarebbe sembrata troppo vuota ed inutile. Salutai tutti i commensali e corsi su nella mia camera dove rimasi a leggere per un po’ qualche passo di un libro preso a caso.

Solo più tardi salii in terrazzo ad ammirare il tramonto mozzafiato che quella tristissima giornata mi stava, in ogni caso, regalando. Il cielo passava senza soluzione di continuità dall’arancione al rosso vivo mentre gli uccelli sembravano rincorrersi e trillavano felici e liberi.

Tu invece eri ancora nel letto e non avevi ancora lasciato quelle lenzuola. Avevo persino pensato di non scendere da te quella sera, per lasciarti riposare ma, proprio mentre stavo riflettendo su ciò, la nonna venne a chiamarmi: tu volevi parlare con me.

Quel giorno avrei ascoltato senza fiatare, perché avevo terminato tutte le parole ed i pensieri che pure sino ad allora mi avevano, a tratto, fatto compagnia. Non immaginavo neanche cosa volessi dirmi, dopo una giornata così faticosamente trascorsa tra le nostre speranze e la cruda realtà, tra le nostre paure ed il tuo stato di salute sempre più malfermo.

27° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

La mattina di Pasqua scesi di corsa le scale per venirti a dare il buongiorno: eri già seduto sulla poltrona della camera, in attesa che fosse trasmessa la Santa Messa.

Con dolore ammettesti che quella era la prima volta che non assistevi di persona alla messa di Pasqua e quanto ti piaceva farlo, con tutti i preparativi che concerneva! La nonna si lasciò sfuggire un: “Sarà per l’anno prossimo”.

Io e te ci guardammo, poi ognuno girò la testa verso la parte opposta a quella dell’altro, come a dire che non ci sarebbe stata nessuna altra volta, nessuna altra Pasqua.

La giornata era splendida, il sole caldissimo, era una di quella mattine che tanto ci piacevano, con il cielo spazzato da ogni nuvola, con gli uccelli che, vibrando a mezz’aria, sfrecciavano davanti le finestre di casa per andarsi poi ad appoggiare sugli alberi del giardino. Ma preferii, nonostante l’invitante giornata, rimanere in casa con te, per assistere alla Santa Messa in tua compagnia, mi misi seduta sul tappeto, vicino ai tuoi piedi e per tutto il tempo ti strinsi la mano.

Sembravi sereno, meno addolorato del solito, sentivi caldo, tanto che ti levasti anche il gilet e rimanesti in camicia e calzoni: questo tuo privarti degli abiti superflui offrì al mio sguardo il tuo corpo magro. Nel frattempo erano rientrati tutti dalla messa e dalla passeggiata sul lungomare: ebbero la gradevole sorpresa di vederci uno accanto all’altra, intenti nell’apparecchiare la tavola di Pasqua.

La tovaglia era quella destinata alle occasioni speciali, il servizio era quello di porcellana bianca, immancabile, poi, la bottiglia del vino prodotto da te con l’uva della tua campagna, sistemata al centro della tavola, tra la caraffa dell’acqua ed il cestino del pane che stavo affettando. Eravamo pronti ad andare a tavola quando ci invitasti a disporci in fila lungo il corridoio per celebrare l’usuale rito della benedizione: prendevi una boccettina di vetro trasparente con l’acqua benedetta, un rametto d’olivo distribuito durante la messa della domenica delle Palme e con rapidi gesti della mano cospargevi con quell’acqua, aiutandoti con il rametto d’ulivo, il capo di tua moglie e dei tuoi figli.

A me spettava ricevere quelle gocce di acqua benedetta dalle mani della mamma e di papà, ma esigevo sempre che anche tu, nonno, cospargessi il mio capo. Potevamo, dopo la conclusione del rito, accomodarci a tavola mentre la nonna sistemava nei piatti la prelibata lasagna, della quale tutti chiedevano sempre il bis.

Quella volta gli occhi erano rivolti a te, seguivamo con trepidazione ogni tuo gesto e tu, pur di non deluderci, tentasti di mangiarne un pezzo. Stentavi ad inghiottire quel boccone mentre nervosamente giravi nel vuoto la forchetta che cercava di tagliarne un altro pezzetto. Fu così anche per la pastiera di grano. Tu notasti la nostra preoccupazione ma ci invitasti a godere di questa giornata di festa.

L’uovo di Pasqua fece, al termine della sfilata delle portate, il suo ingresso sulla tavola e proprio in quel preciso istante avrei voluto fuggir via, con le lacrime agli occhi, ad urlare il mio dolore in faccia al mondo che continuava la sua vita, senza sapere nulla di noi, ma rimasi lì, accanto a te, a te che stavi distribuendo a tutti i commensali un pezzo di cioccolata.

La Pasqua in Sicilia: a Ragusa arrivano in tavola le Cassatedde e la Scaccia

 

Senza passato, il futuro è una nebulosa dai contorni sfocati. Senza tradizioni, chi ci ha preceduto nel percorso della vita terrena, scompare nel susseguirsi di giorni privi, ormai, di radici.

E’ per questo che, quando nel corso delle mie interviste, antichi usi e consuetudini, ma anche gesti carichi di una profonda valenza, non solo emergono, ma assumono fattezze di una quotidianità ancora semplice, sono lieta di parlarne.

E’ quello che accade ancora in Sicilia, ad Ispica, in provincia di Ragusa, dove vive la signora Giusy, la quale, insieme alla sua famiglia d’origine e alla sue figlie, onora la Pasqua di Resurrezione preparando rigorosamente in casa, due tipici piatti di questa Festività che accompagna l’inizio della Primavera: le “Cassatedde Ragusane”, o cassatine di ricotta, e la Scaccia.

Le Cassatine di ricotta appena sfornate dalla Signora Giusy

“Le cassatine di ricotta, da noi conosciute con il loro nome tipico di Cassatedde  ragusane– racconta Giusynascono proprio da un’antica tradizione pasquale, anche se oggi possiamo trovarle in ogni periodo dell’anno. Questi dolci noi li prepariamo tra il Giovedì e il Sabato Santo e li portiamo in tavola sia il giorno di Pasqua che quello di Pasquetta. La preparazione è semplice: la pasta viene divisa in panetti che vengono stesi e dai quali si ricavano, con un coppapasta, dei cerchi i cui margini vengono rialzati. All’interno si versa un ripieno a base di ricotta, uova, zucchero, cannella e gocce di cioccolato.   Una volta sfornate, sono una delizia per gli occhi e per il palato”.

Particolare delle famose “Cassatedde Ragusane”

Ciascuna  provincia siciliana ha le proprie Cassatedde: “E se a Ragusa si preparano come dei piccoli cestini di pasta  ripieni di ricotta, a Trapani e a Palermo differiscono per forma e per ripieno. Qui in Sicilia ci sono forti tradizioni locali strettamente legate alla provincia di appartenenza”.

Mentre le “Cassetedde” sono tra i dolci più consumati e graditi, lo scettro del rustico pasquale spetta alla Scaccia ragusana.

La Scaccia preparata dalla Signora  Giusy

La scaccia era rigorosamente preparata in casa, dove, chi aveva la fortuna di possedere un forno a pietra, lo metteva a disposizione anche delle altre famiglie. L’uso del forno serviva durante l’anno anche per  il pane, elemento principe di un’alimentazione comunque povera e legata soprattutto alla terra. Oggi i  tradizionali forni a pietra li si trovano soprattutto nelle case di campagne, ma non pochi, compresa la mia famiglia, continuano la tradizione-racconta Giusy, la quale aggiunge- “La scaccia ragusana è sinonimo di casa, di quando un tempo, prima delle festività, ci si riuniva tra famiglie e se ne preparavano in grande quantità, anche perché sarebbero state le protagoniste della Pasquetta: la Scaccia come torta rustica, le cassatine di ricotta  come dolce e davvero non avevi bisogno più di nulla per la scampagnata del Lunedì in Albis”.

…di nuovo la tipica Scaccia…

La tradizionale Scaccia ragusana è una sorta di pizza-pane preparata con farina di semola di grano duro, lievito di birra e sale. Impastato il tutto e una volta fatta crescere, la si lavora nuovamente aggiungendo dell’olio extra vergine di oliva, la si divide  in tanti panetti che vengono spianati. Poi si comincia a preparare il ripieno: la ricetta vuole che ci sia, al suo interno,  la ricotta, le cipolline, l’uomo sbattuto e il formaggio. Il composto viene poi messo nella sfoglia di pasta e arrotolato sui bordi. Dopo aver passato sulla superficie un po’ d’olio, sono pronte per essere infornate per circa mezz’ora.

…e un suo particolare…

E se anche la Scaccia, così come le cassatine di ricotta,  sempre più di frequente la si prepara e la si trova durante tutto l’anno, quando la si mangia insieme alla propria famiglia, riunita  in occasione della Pasqua, allora sì che ha tutto un altro sapore…

Alessandra Fiorilli

26° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Nei giorni precedenti l’ultima Pasqua andammo la nonna ed io a fare la spesa, in ogni negozio nel quale entravamo c’era sempre qualcuno che chiedeva di te, del Cavaliere e così, tra una lode ed un’altra, ti mandavano a salutare. La nonna diventò molto triste e cacciò frettolosamente dalla sua borsa un fazzoletto a quadri bianchi ed arancione. Soffiò energicamente il naso, mentre con l’altra mano si asciugò le lacrime. Mi chiese di riaccompagnarla a casa: la spesa avrei dovuta terminarla io.
Ma cosa ci facevo mai in strada con quel mezzo foglio protocollo a righe sul quale, nonno, eri solito segnare le indicazioni della spesa, cosa avremmo mai dovuto festeggiare? Fui assalita dallo sconforto più profondo, nulla sembrava avere più un significato, poi però, pensai a te, al tuo desiderio di trascorrere una Pasqua in famiglia, tra le persone che più amavi, secondo antichi rituali e allora mi venne il coraggio necessario per entrare nell’alimentari per acquistare il grano e gli ingredienti per la pastiera, oltre alla mozzarella che, strato su strato, avrebbe arricchito la prelibata lasagna.

Rincasai con le buste della spesa che rischiavano di rompersi a causa del peso eccessivo, suonai al citofono e la nonna mi venne incontro.

Era più serena e pensai che fossi stato tu, con le tue solite parole d’incoraggiamento, ad infonderle la necessaria forza per andare avanti.

Tu eri seduto già attorno al tavolo della cucina, respiravi in un modo strano ma tentasti di parlare d’altro, esaltando oltremisura le mie doti improvvisate della “brava massaia” di ritorno dalla spesa. Tirai accuratamente fuori dalle buste di plastica uno ad uno tutto quello che c’era scritto sulla lista. Seguivi con amore ogni mio gesto ed esigevi annusare, toccare, tastare tutto quello che mi avevi chiesto di acquistare per accertarti della qualità, sino a quando mi dicesti che sì, anche quella prova l’avevo egregiamente superata. Fu la volta del grano, delle uova, della farina, della mozzarella per le lasagne.

Al termine di questa carrellata gastronomica tu mi regalasti il tuo battito ritmato delle mani mentre accompagnavi il suono con un: “Brava, brava!”. Aiutai la nonna a sistemare il tutto nel frigorifero mentre seguivi ogni mio gesto con sguardo amorevole. La Pasqua ci attendeva.

25° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Dunque, stava per arrivare la Pasqua e mi dicesti che volevi regalarmi un uovo, come quando ero bambina. Mi chiedesti di conservare per sempre il regalo che avrei trovato all’interno, così come conservavo ancora quello del primo uovo che mi avevi regalato. Ero restia ad accontentarti, mi sembrava sciocco ed inutile ricordarmi di te attraverso una banale sorpresa di Pasqua, poi capii tutto all’improvviso: mi ricordai di quell’anno, quando tu, invece del solito uovo, mi desti del denaro che avrei potuto spendere come meglio credevo.

Ci rimasi molto male quella volta, ma avevo 15 anni ormai e pensasti di farmi cosa gradita. Ti rimproverai allora il fatto di essere passata in secondo ordine rispetto a mia sorella più piccola di me, alla quale avevi già comprato l’uovo, tu quella volta non rispondesti e facesti bene, perché era l’accusa di una ragazza sciocca, accecata dalla gelosia.

Ti limitasti a dire che quello era stato l’unico nostro “litigio” e che non sarebbe mancata occasione di farti perdonare. Ecco quello che mi stavi chiedendo di fare, quell’ultima Pasqua della tua vita: stavi cercando il mio perdono per quell’uovo mancato, dirottato in altre mani.

Non c’era bisogno di quel gesto, nonno, ti avevo già perdonato ma tu rispondesti che dovevo assolutamente scegliere per me un uovo che mi piacesse. Girai un po’ tutti i supermercati ma non era mia intenzione farti spendere molti soldi così scelsi uno di medie dimensioni. Lo portai a casa, mancavano cinque giorni alla Pasqua ma ti chiesi se potevo aprirlo subito, tu annuisti ed io, in preda ad una gioia quasi infantile, cominciai a slegare quei laccetti micidiali che non volevano saperne di staccarsi dall’incarto. Andai allora in cucina a prendere delle forbici, riuscii a togliere tutti quei fiocchi e fiocchetti e, finalmente, prelevai l’uovo di cioccolata dal coloratissimo incarto.

Era grande, lucidissimo, emanava un buon odore che anche tu volesti annusare. Con un colpo netto della mano lo aprii, mentre dei pezzettini di cioccolato volarono sul tavolo della cucina: all’interno c’era un pacchettino di plastica che un minuscolo ciondolo d’argento.

Poi mangiammo un po’ di quella cioccolata, a te piaceva molto, nella credenza della cucina non ne mancava mai un pezzo fondente. Adoravi farla scioglierla sotto al palato, dopo il sonnellino pomeridiano che seguiva il pranzo, ma soprattutto amavi offrirla alle persone che più amavi. Era un modo per dire: “ Seguiamo insieme questo rituale…”. Inoltre avevi brevettato anche un sistema per placare paure o per fermare le lacrime delle donne della tua famiglia: se ci vedevi in difficoltà, era sufficiente che ci porgessi un bicchiere d’acqua fresca accompagnata da un pezzetto di cioccolato ed ecco che il momento di difficoltà sembrava dileguarsi magicamente e scivolare via, dietro quelle mani, dietro quel sorriso che ci spronava a riappropriarci della giusta dose di serenità. Il segreto non stava in quello che ci offrivi, ma nel modo in cui ti avvicinavi a noi, ci accarezzavi la testa e dividevi con noi la cioccolata. È sempre stato il tuo amore a sorreggerci e ad incoraggiarci. Ancora oggi facciamo con la mamma un gioco: quando non sappiamo cosa fare, pensiamo a cosa diresti tu in quel momento e torna il sorriso.

24°Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Pasqua ci stava già attendendo, quando ti dissi che avremmo potuto risparmiare alla nonna tutta la fatica che la preparazione del tradizionale pranzo richiedeva, esonerandola, così, dalla lasagna con la mozzarella e le polpettine fritte, dalla pastiera di grano preparata ancora secondo l’antica ricetta della bisnonna, dal tradizionale casatiello ma tu fosti irremovibile: quella Pasqua, la tua ultima Pasqua, si sarebbe dovuta celebrare ugualmente secondo gli antichi rituali, secondo la tradizione della nostra famiglia.

Mentre stavamo scrivendo su un foglio tutti gli ingredienti da comprare per la preparazione del ricco pranzo di Pasqua, tu mi raccontasti delle prime festività trascorse nella nuova casa, quando eravate solo tu, la nonna e la mamma a sedere attorno ad un tavolo imbandito.

Le vostre famiglie erano lontane e tu avevi il tuo lavoro, un lavoro che onoravi e rispettavi così tanto da meritarti il titolo di Cavaliere, quello al quale eri più legato e che ti rendeva pieno d’orgoglio.

I primi anni trascorsi nel tuo paese d’adozione, nella casa che avevi costruito mattone su mattone, eravate in tre a festeggiare Pasqua e Natale, solo in tre, tanto che la nonna, delle volte, si lasciava prendere dallo sconforto perché sentiva il peso della solitudine e la lontananza dai propri genitori ma tu riuscivi sempre a tranquillizzarla, prospettandole un futuro nuovo, ricco d’affetti e di persone che si sarebbero sedute, assieme a voi, attorno al tavolo della cucina.

È quello che sarebbe avvenuto non molti anni dopo, quando la tua famiglia s’allargò ma soprattutto quando la mamma, appena ventenne, decise di sposarsi e di mettere al mondo subito un figlio.

Nacqui io e tutta la solitudine di quegli anni, quando il giorno di Natale e di Pasqua eravate solo in tre, passò subito, perché c’era una neonata con voi, e non ti stancavi mai di dirmi di come fosse stato facile, per te e per la nonna, amarmi. Ero la luce delle vostre giornate, il sole nel grigiore invernale, la risata nei momenti tristi, la festa nei giorni mesti. Non eravate più soli, e la tavola cominciò ad arricchirsi di più piatti, di più bicchieri, di più posate: la famiglia, era finalmente cresciuta e nei giorni di festa saremmo stati in tanti. La tua determinazione ha reso possibile molte cose, il tuo coraggio lo hai dato un po’ a tutti, e ciascuno oggi, porta con sé una parte di te, nonno.

23° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Quanta felicità condivisa con te, nonno!

Poi delle volte mi soffermo a pensare dove sia finita, se la serbo ancora gelosamente dentro la mia anima, tra le pieghe dei miei ricordi o se sia stata lavata via dalla tempesta del dolore.

Ci rifletto un po’ su’ e poi dico a me stessa che quella gioia è ancora dentro me, anzi sono io, sono io quando sorrido ad un anziano, quando aiuto gli altri, quando curo le nostre piante, quando scrivo una pagina dei miei libri. È tutta quella felicità immagazzinata nel corso degli anni che mi ha permesso di superare le barriere della disperazione e le incognite del futuro.

È come aver fatto un pieno di serenità e gioia che mi permette di andare avanti anche nel deserto. Così è, sicuramente. Non potrebbe essere altrimenti. Perché se non potessimo trattenere i ricordi più belli, le emozioni più intense, il sorriso più dolce, le immagini più care, non potremmo andare avanti nei momenti difficili che si incontrano lungo la strada. Ecco, dunque, dov’è finita tutta quella felicità vissuta con te, nonno: è rimasta impressa a fuoco in maniera indelebile nell’anima, mi sostiene, mi offre una speranza, mi impone di continuare a lottare e a cercare, tra le pieghe di un dolore, altra felicità.

22° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Un giorno, mentre eravamo seduti su quelle poltroncine di pelle marrone del corridoio, mi guardasti dritto negli occhi e mi prendesti il viso tra le mani. Ricordi, nonno?

Mi raccontasti dell’immensa gioia, mista ad emozione, del giorno in cui mi vedesti per la prima volta. Ero in ospedale, il lettino di metallo messo vicino alla mia giovane mamma, indossavo solo una camiciola bianca di cotone e dei calzini perché avevo tentato di dimenarmi quando mi avevano fatto indossare la classica tutina.

Ti sporgesti verso di me, avevo gli occhi aperti, tu mi sorridesti ed io cominciai a muovere le braccia e le gambe come a salutarti. Poi entrò la suora, mi sollevò dalla culla, mi prese in braccio e portandomi in trionfo su e giù per la corsia, esclamò dicendo che non aveva mai visto una pupa come me, così sveglia, attenta e vigile ad appena un giorno di vita. Mi mise sul lettino ed io quasi stavo ritta sui piedini, tu allora, per paura che mi facessi male, mi prendesti tra le tue braccia e pronunciasti il mio nome con gli occhi che ti brillavano.

Quella luce non si è mai spenta, neanche quando, qualche giorno prima della morte, mi facesti segno di avvicinarmi a te per stringerti la mano. Ci siamo subito piaciuti io e te, siamo entrati immediatamente in sintonia, il nostro primo incontro è stato un incontro d’anime.

Sono sempre stata fiera di averti come nonno, lo dicevo a tutti che quell’uomo in divisa sulla bicicletta nera era mio nonno, una persona speciale. Ricordo quando tentavo, in ogni modo, di trovare una somiglianza con te, spulciavo le foto della tua infanzia e, avvicinandole al mio volto, chiedevo alla nonna e alla mamma se non eravamo proprio uguali. Loro due si guardavano e sorridevano bonariamente, dicendomi che era ovvia e scontata la somiglianza giacché io ero tua nipote!

Riguardando quelle immagini in bianco e nero ed analizzandole bene, non era poi così netta la somiglianza di cui andavo alla disperata ricerca ma sono stata contenta di essere cresciuta con questa certezza.

Dal giorno della mia nascita io ero diventata la tua bella bambina, mi chiamavi spesso così, anche dopo la lettura di un articolo o il voto di un esame universitario. Nulla era cambiato dal giorno della mia nascita, l’amore che ci legava cresceva ogni giorno di più. Era talmente palese da sforare l’obiettivo della macchina fotografica: rivedendo tutte le foto non ce n’è una nella quale non ci cerchiamo con lo sguardo, non siamo uno accanto all’altra, non poggi la tua mano sulla mia spalla. La più bella in assoluto, però, rimane quella che ci ritrae il giorno del mio primo compleanno: siamo seduti l’uno accanto all’altra, ci teniamo per mano, tu mi stai guardando ed io sto facendo lo stesso con te. Indosso il vestito bianco e verde, quello goffrato, tu sei elegantissimo con il cardigan color ruggine e le scarpe lucidissime.

Il mio mondo da bambina era tutto concentrato lì, tra le mura della tua casa, la più bella visuale ce l’avevano solo noi, con quegli alberi di pino che si stagliavano fieri all’orizzonte e con quel cielo che ricordava quelli dei presepi allestiti nelle chiese durante il periodo natalizio.