Così scendemmo le scale e salimmo in macchina, il tuo sguardo si posava su tutti gli alberi che costeggiavano la strada del ritorno, i tuoi occhi stavano sorridendo: era arrivata la primavera, con tutti i suoi colori ed odori, i rami degli arbusti non sembravano più di cartapesta, né le gemme di plastica. Tu eri di nuovo accanto a me, nonno, ed io di nuovo vicino a te, potevamo godere ancora assieme dello spettacolo della natura, per l’ultima volta, certo, ma insieme.
Ci avrebbero aspettati mesi duri, lo sapevamo entrambi, ma eravamo fermamente convinti della necessità di non lasciarci sfuggire un solo secondo, non avremmo regalato alla morte che avanzava, neanche un minuto di più, a me erano concessi ancora tre mesi, solo tre mesi di te e del tuo sorriso, dei tuoi occhi, delle tua mani, del tuo amore.
Parcheggiammo l’auto davanti al piccolo cancello in ferro battuto, lo stesso che ti aveva visto uscire in divisa per tanti anni, con il cappello calato sulla fronte e la fedele bicicletta sulla cui canna legavi la cartella di pelle nera. Scendesti dalla macchina, non suonasti al citofono di casa dove la nonna ti attendeva, ma apristi tu quel cancello, sfilando dalla tasca quel pesante mazzo di chiavi.
Ricordi, nonno, quante volte ti ho chiesto quali misteriose porte aprissero tutte quelle chiavi. Tu, con tanta pazienza, mi facevi sedere sulle ginocchia, e mostrandomele una ad una, elencavi la loro funzione: questa era del cancello piccolo, quell’altra del cancello grande e poi, ancora, la chiave della campagna, quella del ripostiglio in giardino.
Un giorno ti chiesi quale fosse la chiave del tuo cuore, per poterci entrare e rimanere lì, per sempre, ma tu mi rispondesti che il tuo cuore, nonostante le difficoltà che la vita ti aveva posto davanti, si era spalancato il giorno della mia nascita, ed io da allora, pur senza saperlo, ero lì dentro, in ogni suo singolo battito.
Il giorno successivo il medico ci comunicò che le tue condizioni di salute erano incompatibili con un possibile intervento, continuò dicendo che avevi già firmato per uscire dall’ospedale.
Mi precipitai in reparto, tu non c’eri già più, un’infermiera mi disse che ci stavi aspettando all’ingresso.
Eccoti lì, vicino ai tuoi piedi la valigia di pelle color nocciola e la borsa grigia, l’impermeabile piegato sul braccio e negli occhi il desiderio di tornare a casa ma anche la consapevolezza che quella sarebbe stata l’ultima tua lotta. Presi le tue valigie, ti mettesti sotto braccio a me e, prima di scendere le scalette che ci avrebbero condotto verso la macchina, mi facesti promettere che qualsiasi cosa fosse potuta accadere, l’ultima immagine che avresti voluto portato via, sarebbe stata quella del maestoso nespolo e dell’albero di limoni carico di quegli agrumi profumati. Io non ti risposi subito, perché erano troppo forti, per me, le parole che stavi pronunciando: stavano aprendo una voragine nel mio animo e spaccando il mio cuore.
Per me, sin da bambina, eri immortale, nonno…senza età, senza tempo, senza una dimensione spaziale che potesse racchiuderti o circoscriverti.
Non ce la feci più a sentire parlare di queste cose e scoppiai in un pianto dirotto, tu, allora, mi accarezzasti i capelli e mi consolasti del fatto che non avevi né paura di soffrire, né timore di andartene, l’unica cosa che ti dispiaceva lasciare di questo mondo era il sorriso delle persone che più amavi. Mi facesti promettere che, in qualsiasi momento mi avresti abbandonato, io sarei andata avanti per la mia strada, che tu intravedevi lunga, ricca di soddisfazioni e di successi professionali.
Furono queste parole a farmi capire quanto era stato profondo ed unico il nostro legame: “Sai quanto ti ho amato e quanto ti amerò, anche quando non ci sarò più, se avrai bisogno di me tu mi sentirai: io sarò il vento che fa sbattere le finestre, la pioggia che cade sul nostro prato, il sole che bacia le piante del giardino, la notte che cala sulla nostra casa, l’onda che ti sorprende sulla diga, la sabbia che ti entrerà nelle scarpe, il libro che sfoglierai ma, soprattutto, quello che scriverai”.
Misi la mia mano sulla tua bocca, come quel gesto che facevo da bambina quando tu parlavi di cose a me non gradite, come a dire: “Basta, nonno, basta così. Ho capito, la tua morte è vicina, lo sai tu, così come lo sento io. L’abbiamo compreso entrambi lo scorso Natale, quando non ti ho lasciato neanche per un attimo la mano mentre le portate sfilavano sulla tavola.
Basta, nonno, sì te lo prometto, quando verrà quel giorno in cui ti riconoscerò nel vento che fa sbattere le finestre, nella pioggia che cade, nelle onde del mare e nella sabbia, scriverò quel libro che mi hai chiesto di scrivere, e parlerà di me e di te, di te che non ci sei più ma continui a vivere dentro di me e di me, di una nipote che non si stancherà mai di cercarti tra le pieghe dei ricordi, in una mareggiata d’inverno o in una pianta che regala i suoi frutti”.
Ti chiesi cosa ti avessero dato da mangiare e tu indicasti con un gesto rapido del mento delle vaschette di plastica sigillate che avevi poggiato sul comodino, sull’etichetta bianca era riportato il contenuto: pasta al pomodoro, verdure e carne lessa, pera cotta. Non avevi sollevato neanche un lembo di quella plastica, non avevi neanche voluto sentire l’odore di quel pasto ospedaliero perché, per te, l’importante era stato sempre non cosa mangiare ma con chi mangiarlo.
E tu, di pranzare con il pigiama a righe, seduto su di un lettino che non era il tuo, portare alla bocca anonime forchette di plastica e consumare quel pasto da solo, senza avere accanto qualcuno che amavi, non ci riuscivi proprio.
Ti feci notare che non avresti certo potuto continuare a tenere quell’atteggiamento di rifiuto verso il pranzo fornito dall’ospedale, ti chiesi allora se potevo portarti io qualcosa da casa ma tu dicesti che, lontano da quelle stanze dove avevi trascorso mezzo secolo, nulla, neanche il pranzo di un re avrebbe potuto avere sapore. Insistetti perché tu mangiassi almeno qualcosa, allora mi chiedesti di tirare fuori da quella borsa di pelle grigia che avevi portato con te, insieme alla valigia color nocciola, qualche fetta di pane con la caciotta di pecora. Frugai velocemente tra quelle tasche, sai, non ero abituata a mettere le mani tra le tue cose, le consideravo sacre e toccarle era per me come un sacrilegio ma il permesso di aprire quella borsa me lo stavi dando proprio tu.
In fondo a questa riuscii a riconoscere quel tovagliolo a quadri rosa, azzurro e verde: avvolto dentro a quel quadrato di stoffa colorata erano adagiate due fettine di pane, quasi trasparenti, ed un pezzo doppio di formaggio dal colore deciso, afferrai quell’involucro e te lo porsi, tu prendesti quello che era l’avanzo della tua colazione fatta in casa, prima di venire in ospedale, e tentasti di mangiarlo. Lo avvicinasti alla bocca, desti qualche morso, masticasti quel boccone svogliatamente, impiegandoci più del tempo dovuto, ed inghiottisti velocemente.
Capii che stavi facendo tutto questo solo per farmi contenta, per placare la mia preoccupazione davanti al tuo rifiuto di mangiare il pasto dell’ospedale, ma non avevi né fame, né voglia. Un altro morso ancora e posasti quelle fettine di pane sul comodino, non prima di avermi promesso che avresti terminato di mangiarle appena fossi andata via.
L’ora trascorse troppo in fretta, io uscii dalla tua stanza mentre tu mi accompagnavi con lo sguardo, fino a quando girai l’angolo che dal reparto portava alle scale.
Mi incamminai verso l’uscita, scesi da sola quelle scale senza colore dell’ospedale, senza di te al mio fianco, sfilai in senso contrario alla nostra entrata, davanti a tutti quei reparti con le lettere adesive blu e mi infilai in macchina e solo lì, quelle lacrime trattenute in ospedale, riuscirono a venir giù, con tutto il dolore e tutta la disperazione possibile.
Erano le undici di mattina, il sole brillava in cielo e si posava su tutti gli alberi in fiore e sulle gemme che si stavano aprendo a nuova vita.
Era arrivata la primavera, ma quel sole non sembrava essere lo stesso che ci baciava mentre eravamo seduti in giardino sulla panchina, i rami degli alberi sembravano di cartapesta, le gemme di plastica. Capii allora, nel preciso momento di quel primo distacco da te, nonno, che le cose belle, quelle che ci piacciono di più e la cui vista ci fa sentire felici, hanno valore solo se possono essere condivise con le persone che più amiamo.
Invece, io ero in macchina, sulla strada di casa, e tu in ospedale. Le ore che mi separavano dall’orario di visita, sembravano andare al rallentatore, le tre del pomeriggio non arrivavano mai, tanto che alle due e mezza io ero già lì, fuori il reparto, seduta accanto a quella porta dai vetri sabbiati che impedivano la vista all’interno.
Ti immaginavo là dentro, sdraiato sul tuo lettino, in attesa che qualcuno ti portasse un sapore, un odore che sapeva di casa. Il personale dell’ospedale spalancò la porta d’accesso e ci dissero che la visita ai pazienti durava solo un’ora. Contrariamente a quanto avevo pensato sino ad allora, entrai nella stanza dove eri stato ricoverato e vidi con piacere che stavi chiacchierando con il tuo vicino di letto.
Quando mi vedesti arrivare mi presentasti subito al tuo nuovo conoscente, gli avevi già parlato di me perché quando allungai la mano per stringergliela, lui non mi fece finire neanche di dire il mio nome che prontamente osservò che ero la prima nipote, la più grande d’età, quella che faceva la giornalista. Annuii e con sorriso cortese mi congedai dal tuo vicino di letto per sedermi vicino a te, non c’erano sedie disponibili, allora tu mi invitasti ad accomodarmi sul lettino, vicino alle tua gambe. Te le massaggiai un po’, poi mentre le mie mani stavano cercando di trasmettere calore alle caviglie freddissime, mi dicesti che era passato il medico poco prima del mio arrivo, per comunicarti che dopo due giorni ti avrebbero operato. Eri sereno in quel momento, il viso disteso, di nuovo pieno di speranze.
Il mattino seguente, quello del tuo ricovero, ci confidammo di non essere riusciti a chiudere occhio e, così dicendo, ci incamminammo verso la macchina.
Sulle gradinate d’accesso, ritratti di varia umanità ci vennero incontro: un volto coperto di bende, una gamba ingessata, il sorriso di un bambino, il pianto di un altro, il viso sereno di una donna, quello teso di un ragazzo.
Dovevamo salire al secondo piano, non prendemmo l’ascensore perché da sempre avevano paura entrambi di rimanere intrappolati in quel piccolo abitacolo, e così, seppure a fatica, cominciammo la nostra ascesa verso quell’uomo, con indosso un camice bianco, che forse avrebbe potuto comunicarci la notizia che aspettavamo entrambi: che stavi bene, che tutto si sarebbe risolto senza problemi.
Chi avrebbe mai potuto separare un nonno ed una nipote come noi due, chi avrebbe mai potuto chiedermi di rinunciare per sempre a te, chi mi avrebbe privato dei tuoi gesti e della tua voce? “Andrà tutto bene, tutto bene”, continuavamo a ripeterci senza sosta, mentre i nomi dei reparti e dei loro primari ci sfilavano davanti, piano dopo piano.
Eravamo finalmente arrivati, il medico ci aspettava nel suo studio, io non entrai, anche questa volta rimasi fuori, il dottore ti prese sotto braccio e andasti con lui, mentre mi cercavi con lo sguardo da quello spiraglio che si stava lentamente chiudendo. Io poggiai la tua valigia sulla panca di plastica verde acqua e subito dopo cominciai a camminare nervosamente, non ricordo i pensieri di quei momenti, non li ricordo proprio, nonostante tutti gli sforzi, forse non pensai nulla. So soltanto che mi misi a pregare, a pregare per te, nonno, con un’intensità che neanche io conoscevo. Il mio cuore stava battendo in maniera convulsa e violenta, sembrava aver occupato tutta la cavità toracica, il mio corpo ne percepiva i battiti come il suono di tam-tam che si propagava dappertutto: nella testa, nelle gambe, nel ventre e più il cuore batteva, più le forze sembravano abbandonarmi.
Poi, d’improvviso, la porta dello studio si spalancò, il dottore l’aprì con fermezza e decisione ed entrò frettolosamente nella stanza di un collega, io, allora, potei finalmente vederti: avevi l’espressione abbattuta e stanca, eri rimasto seduto su quella sedia dall’anima in ferro verniciata di bianco e l’imbottito color carta da zucchero, ti stavi riannodando la cravatta sulla camicia che la mamma ti aveva regalato per la festa del papà, le scarpe avevano invece i lacci sciolti, allora io mi accovacciai sulle ginocchia per allacciarti ed in quel momento entrò il medico, il quale ci informò che stava disponendo, con un suo collega, il ricovero.
Avrei voluto accompagnarti sino in corsia, ti avrei portato io la valigia, avrei sistemato io i tuoi vestiti nell’armadietto ma non mi permisero di farlo, mi dissero di lasciarti lì, in attesa che qualcuno facesse, per spirito di servizio, quello che avrei fatto io per amore.
Aspettai con te che arrivasse la persona preposta alla tua sistemazione nel reparto, nell’attesa ci accomodammo tutte e due su quell’anonima panchina color verde acqua, io strinsi la tua mano e tu stringesti la mia, come facevano quando sedevamo vicini su quelle poltroncine di pelle del corridoio, non dicemmo nulla, i nostri sguardi non si incontrarono neanche una volta, i miei occhi erano gonfi di lacrime che non riuscivano a scendere giù per le gote, a rigarmi il viso. Anche tu eri triste, lo capii da quel gesto inconfondibile di corrugare le labbra in maniera ritmica. Arrivò, dopo dieci minuti l’uomo che stavamo aspettando il quale ti chiese se eri tu quel signore che doveva ricoverarsi. Annuisti con il capo, lui allora prese la valigia che io gli porsi, ti aiutò ad alzarti e ti condusse con lui. Domandai quando sarei potuta venire a trovarti e lui mi rispose: “Alle tre, quando c’è l’orario di visita”.
Ti accompagnai io personalmente ma non salii con te dal medico, anzi, mi pregasti di restare ad aspettarti giù al palazzo. Mi misi a sedere sulla balaustra della discesa a mare, il tempo sembrava dilatarsi a dismisura e per distogliere il mio sguardo da quella stanza, dove il medico ti stava visitando, con delle pesanti tende bianche tirate, cominciai a leggere tutte quelle frasi scritte con il pennarello nero sul travertino bianco. Erano modi di dire d’uso comune tra gli adolescenti, promesse d’amore eterno…e riflettei sul fatto che i miei sentimenti, i miei stati d’animo, le miei gioie, i miei dolori li avevo sempre comunicati a te, e così ti immaginai, in quel momento, come una preziosissima statuetta d’oro sulla quale la mia memoria aveva inciso una frase, un ricordo, a testimonianza di una bella giornata o di una da dimenticare.
Tu eri il depositario delle mie emozioni, sapevi tutto di me, di quello che ti avevo detto, ma anche di quello che ti avevo taciuto perché, tanto, le cose me le leggevi nell’anima. Era un pomeriggio di quelli che non si dimenticano facilmente: il sole era tiepido, in cielo neanche nuvola, la brezza che arrivava dal mare contrastava con il mio stato d’animo vorticosamente inghiottito in una tempesta di domande senza risposta. Uscisti poi dal palazzo, io attraversai la strada per venirti incontro e mi dicesti che il medico aveva disposto per te un ricovero in ospedale, il mattino successivo, per degli accertamenti di routine.
Tornammo a casa, informammo tutti dell’esito della visita. Sembravi sollevato, forse speravi in quel momento, di fronte ad una diagnosi benigna, che c’era una possibilità di guarigione anche per te, come per quel tuo vecchio collega. Anch’io mi sentii in colpa per il modo in cui avevo vissuto il Natale appena trascorso e credevo fermamente che l’allarme sarebbe rientrato e che saresti tornato l’uomo forte di sempre. Così ti dirigesti verso il tuo studio per tirar fuori dall’armadio quella tua valigia di pelle che tanto piaceva anche a me: di dimensioni ridotte ma capiente, con il tuo nome ed indirizzo scritto a penna, con la fodera grigia a pois blu. Ricordi, nonno, la lasciasti sul divanetto, aperta, e sembrava essere un bambino affamato, pronto ad ingoiare il tuo pigiama, la tua giacca da camera, il tuo rasoio elettrico, le piccole forbici, il dopobarba, il nostro libro di letture, il mio cuscino. Mentre eri intento a sistemare tutto ciò nella valigia di pelle color nocciola, la stessa che avevi portato con te nei viaggi, fatti con la nonna, sempre troppo brevi, impaziente com’eri di tornare a casa, il cuscino di lana bianca e grigia che ti avevo regalato per Natale lo lasciasti fuori perché avevi il timore che, compresso tra gli elastici, si sarebbe potuto rovinare.
Qualche giorno dopo, di ritorno da Roma, vidi da lontano, appena imboccata la strada, la nonna che mi aspettava impaziente sul balcone, aveva il grembiule a righe colorate annodato dietro al collo e nervosamente asciugava con il lembo del tessuto ora una mano ora un’altra… capii che era tesa, preoccupata, tanto che appena mi vide arrivare, si precipitò fuori dal cancello e, venendomi incontro, mi disse, con le lacrime agli occhi e con la voce tremante, che eri caduto in cantina e che lamentavi uno strano dolore.
Corsi verso casa, quei pochi metri che mi separavano da te sembrava non finissero mai, le mie gambe erano di colpo diventate pesanti mentre nella mia mente si affollavano strani pensieri e presentimenti che cominciavano ad assumere contorni certi ed inconfutabili.
Salii le scalette a due a due, spalancai la porta, lasciata socchiusa dalla nonna che aveva raccolto da terra la borsa lasciata lì, accanto al cancello, e ti trovai in cucina a mangiare del riso in bianco: non eri né più triste, né più allegro degli altri giorni, eri solo desideroso di sapere come fosse andata la mia giornata. Io, senza risponderti, mi inginocchiai vicino alla tua sedia, presi le tue mani tra le mie e ti pregai, con la voce rotta dal pianto, di farti controllare da qualche medico e tu, davanti alla mia disperata richiesta, mi incaricasti di prendere contatto con un dottore del quale un tuo vecchio collega ti aveva parlato molto bene. Telefonai io, come di chiedesti di fare tu, e chiesi di fissare un appuntamento.
Era martedì grasso, ricordi nonno… ti trovai seduto su quella poltroncina di pelle del corridoio, i piedi li tenevi incrociati all’indietro, le mani erano giunte, il tuo sguardo fissava la cravatta a righe rosse e blu che avevi già sapientemente annodato sulla camicia ed eri triste, ma fu sufficiente il mio picchiettare sui vetri della porta-finestra a farti tornare il sorriso. Ti precipitasti ad aprirmi e quando ti chiesi se ti andava di uscire insieme a me, rispondesti di andare, di cominciare ad incamminarmi da sola verso la piazza perché se fossi rimasta ad aspettarti, avrei rischiato di perdermi la sfilata dei carri. La verità è che non ti andava di mischiarti a quella festa di colori e di risate, di musica e di maschere, la verità è che il tuo corpo cominciava già ad abbandonarti, diventando sempre più pesante ma anche più fragile.
Ti incontrai più tardi, seduto su di una panchina del lungomare: eri riuscito solo ad arrivare in piazza e a fatica ti eri trascinato sino davanti al palazzo comunale alla disperata ricerca di un posto dove sedere, per riposarti. Ti accorgesti che ero preoccupata per te e così, tendendomi una mano, prendesti la mia e, mostrandomi con l’altra tutta quella festa di colori e musica, mi invitasti a godermela: “Bella bambina, sta allegra! Non vedi che bello spettacolo stanno facendo?”. Non ricordo più nulla di quella giornata di festa, la mente si chiuse su di te, il mio sguardo abbracciò e cullò quella tua immagine triste, nonno, mentre eri incurvato su di una panchina con gli occhi a terra, incurante persino dei bambini che avrebbero potuto imbrattare, con la schiuma da barba utilizzata per spruzzarsi, il tuo amato impermeabile.
Difficile, quasi impossibile andare via da Vietri sul Mare, delizioso borgo della costiera amalfitana a pochi chilometri da Salerno, senza aver acquistato l’immancabile souvenir in ceramica.
Tra i tanti negozi che si snodano lungo le viuzze del centro storico, c’è né uno che non è solo una semplice rivendita di oggetti realizzati nella tipica ceramica vietrese, ma una fabbrica vera e propria che è riuscita ad attraversare secoli di storia e che parla di ben tre generazioni di un’unica famiglia, quella dei Pinto. Nell’ omonimo palazzo su Corso Umberto a Vietri sul Mare, sono esposte le loro opere su una superficie di 400 metri quadrati, prodotte nei 1000 metri quadri dove nascono le famose piastrelle e tutti i complementi di arredo e l’oggettistica, tutti rigorosamente firmate con la dicitura “V.PINTO-VIETRI” che ne garantisce l’autenticità.
Entrare all’interno della loro attività è, al tempo stesso, un tuffo del passato e un lancio nel futuro, perché ogni singolo lavoro esposto parla di quest’antica passione per la lavorazione della ceramica che li ha portati ad esportare i loro prodotti in tutto il mondo.
Oggetti dai più minuti a dei veri e propri capolavori : ecco quello che la famiglia Pinto offre a coloro i quali visitano il Palazzo che sembra esso stesso un’opera d’arte.
Ma iniziamo il racconto da quel lontano 1870 quando, proprio a Vietri sul Mare, Vincenzo Pinto inizia la propria attività nella frazione di Molina di Vietri, dove apre una fabbrica di cotto. Gli affari vanno bene e decide, così, di espandersi: prende in affitto una fabbrica posta al piano terra del Palazzo Pizzicara, che prenderà poi, dopo l’acquisto della proprietà da parte di Vincenzo, il nome di Palazzo Pinto.
Negli anni ’20 il nome della famiglia arriverà fino in Europa, grazie alla famose piastrelle prodotte dai Pinto, così come ci dice Giovanni Alessandro, marito di Rosaura Pinto, rappresentante della terza generazione: “La fabbrica nasce da artigiani che lavorano la ceramica. La produzione più importante è legata, però alla famose piastrelle e ai complementi di arredo. Ovviamente, abbiamo anche una ricca esposizione di oggetti, dai piatti ai complementi di arredo, dalle statue alla piccola oggettistica”.
Negli anni ’30 un salto di qualità: Vincenzo Pinto chiama a dirigere la fabbrica il Professor Renato Rossi che fonda nella vicina Salerno la Scuola di Ceramica.
Gli anni ’50 vedono un altro nome importante affiancare la famiglia Pinto nella produzione di manufatti in ceramica: la direzione artistica viene affidata allo scultore ungherese Amerigo Tot, il quale elabora bozzetti che diventeranno il bassorilievo che decora ancora oggi il fronte della Stazione Termini di Roma.
Sul finire degli anni ’60 la fabbrica Pinto si amplia con la costruzione di due nuovi edifici. Intanto la fornace a legno viene sostituita con un forno a tunnel a gasolio.
La fabbrica Pinto è pronta a decollare sulle ali del boom economico degli anni ’60: la produzione delle loro ormai famose mattonelle, grazie all’innovazione introdotta, aumenta notevolmente e, sempre in quel decennio a Vietri, presso Palazzo Pinto, arriva Giovannino Carraro, importante artista vietrese del 1900, che realizza il pannello che ricopre il Palazzo.
La loro capacità di attraversare secoli di storia risiede: “Nel saper tener fede a ciò che siamo e al nostro lavoro che non è legato ad un singolo artigiano, ma è un grande lavoro d’equipe”.
E le piastrelle, quelle dal quale tutto è iniziato dal lontano 1800, continuano ad essere un elemento di spicco della produzione firmata Pinto :” La decorazione è ancora fatta manualmente”, ci tiene a sottolineare Giovanni Alessandro-“ Così come manuale è la preparazione dello smalto con il quale si garantisce l’elevata resistenza all’abrasione, la morbidezza e la lucentezza di quel bianco particolare, che è noto proprio con il nome di bianco Vietri”.
Sempre Giovanni Alessandro ci illustra il percorso che dalla materia prima giunge al manufatto:” Si parte dall’argilla impastata con l’acqua. L’argilla, poi, viene essiccata e si procede con una prima cottura e diventa, così, terracotta. Si prosegue con la smaltatura e il tutto viene completato dalla decorazione e con una seconda cottura”.
C’è un motivo per cui la lavorazione della ceramica nasce e si sviluppa proprio a Vietri, in questo borgo a picco sulla costiera amalfitana:” A due chilometri dalla città di Salerno ci sono delle cave di argilla. La presenza di uno sbocco a mare, in modo particolare il porto e la vicinanza con Napoli, e l’influenza della Chiesa, tanto che qui vicino c’è l’Abbazia Benedettina di Cava dei Tirreni, hanno reso possibile il grande sviluppo dell’industria della ceramica vietrese. Oggi, purtroppo, l’artigianato sta vivendo una fase difficile, ma noi continuiamo con una forza che ci giunge dal lontano 1800, da quando il nostro Avo Vincenzo iniziò questa attività”.
Ci trovammo così, quel 24 dicembre del 2000, riuniti all’una a mezza intorno alla tavola apparecchiata, tutto sembrava essere uguale all’anno prima e a quello prima ancora: la nonna aveva preparato gli spaghetti con le vongole, scelte da te come sempre, la frittura era stata acquistata nella pescheria di fiducia, il capitone era quello fresco, di quelli che si vedono arrotolarsi dentro le grandi vasche di plastica, in attesa di esser presi con il retino, ma non poteva certo mancare il baccalà in umido con un sugo leggero di capperi ed olive.
Lo dicevi ogni Natale, sempre, non lo scordavi mai, che il baccalà era preparato per la mamma, ghiotta di questo piatto. E poi, ancora, nel ricco menù, cavolfiori, insalata mista, vino della casa e, immancabile, lo spumante che versavi nei bicchieri di tutti… ricordi nonno, poi ne lasciavi un po’ per noi, lo facevi scivolare giù nel mio e poi nel tuo bicchiere, e guardandoci negli occhi dicevi: “Quello che rimane, lo conserviamo per domani a pranzo”. Dunque, tornando a quel Natale del 2000, tutto sembrava essere uguale a quelli passati, ma sentii qualcosa dentro di me quando mi sedetti, come facevo da anni ormai, vicino a te: un freddo dentro, un brivido lungo la schiena e mentre ti vedevo intento nell’eseguire il rituale dell’assegnazione dei posti, nel presentare le portate ad una ad una, mi sembravi già più lontano, come se la morte cominciasse a prendere un po’ di te.
Mangiai per tutto il tempo con la mano appoggiata sulla tua… percepii quasi che quello sarebbe stato l’ultimo Natale e quella, l’ultima volta che mi avresti detto: “Alessandra, la mia bella bambina, seduta qui, vicino a me, vicino al nonno”.
I posti li assegnavi tu, degli anni rimanevano invariati, degli anni cambiavano, io, te lo dico solo adesso, ogni festa comandata che Dio ci ha fatto trascorrere assieme, speravo sempre che tu mi dicessi che il mio posto era alla tua destra, nell’angolo della cucina, vicino alla finestra, era quello più scomodo, certo, ma vicino a me c’eri tu ed il resto non contava niente, non importava se dovevo stare seduta per l’intero pranzo con una gamba attorno ad un tavolo e con l’altra attorno a quello di riserva, più alto di quello lungo che da anni troneggiava in cucina. Se ricordi bene, nonno, mentre tutti entravano nella stanza e chiedevano dove potersi mettere a sedere, io aspettavo che tu decidessi dove volevi che mi mettessi seduta io e rimanevo fuori dalla porta, con le braccia incrociate, la testa reclinata in attesa che tu, come un principe azzurro, allargassi le braccia, mi sorridessi, e mi dicessi che, anche quella volta, mi volevi vicino a te.