La tradizione natalizia campana: pizza di scarola, struffoli, roccocò, mostaccioli

La tradizione è quell’anello che unisce due sponde egualmente importanti nella vita dell’uomo: il passato e il futuro. E così, ciò che è appartenuto agli avi diventa di nuovo nostro, nel presente, ed è pronto a tuffarsi nel futuro, laddove le nuove generazioni raccoglieranno il testimone fatto di sapori, emozioni, momenti di convivialità che si vivono, si assaporano, si ricordano.

La pizza di scarola in preparazione (foto per gentile concessione di Maria Umili)

E cos’è il Natale se non la massima espressione di condivisione e di tradizioni che strizzano l’occhiolino e che ci chiamano, ci ammaliano, ci rapiscono?

La pizza di scarola appena sfornata (foto per gentile concessione di Maria Umili)

L’articolo di oggi apre una serie di storie legate alle tradizioni natalizie italiane: iniziamo con quella napoletana, fatta di un pranzo del 24 “di magro”, dove la pizza di scarola è la protagonista, pronta, poi,  a passare il testimone ai dolci il cui nome fa subito Natale: struffoli, roccocò e mostaccioli.

…e gustata dai commensali (foto per gentile concessione di Rita Umili)

Ma iniziamo dalla prelibata pizza di scarola che affonda le sue radici in centinaia e centinaia di anni fa, quando le donne di Napoli, per il pranzo della Vigilia, impastavano gli ingredienti della classica pizza con friarielli (che verranno poi abbandonati) e scarola, le due verdure più diffuse sulle tavole dei napoletani. Il cenone che sarebbe arrivato in tavolo la sera richiedeva stomaci sgombri da ogni prelibatezza e così all’ora di pranzo, le famiglie erano solite mangiare la pizza di scarola arricchita da uvetta passa, pinoli, olive, capperi, e anni dopo, anche con acciughe sotto sale debitamente diliscate.

E così il classico piatto povero per eccellenza, ovvero la verdura condita accompagnata dal pane, si era trasformata in una pizza alta, soffice, umida e morbida che solo chi  l’ha gustata almeno una volta ne conosce l’inconfondibile sapore.

Ma Natale è anche e soprattutto dolci…dolci che non sono solo da gustare ma da ammirare, quasi fossero opere d’arte le quali nascono, ancora oggi, non solo in tutte le pasticcerie, ma anche e soprattutto nelle case dove le mamme non hanno mai relegato in un angolo le tradizioni  della propria famiglia, ma la continuano a portare avanti, con gioia e pienezza d’animo.

Proprio come le sorelle Maria, Rita e Rosa le quali, in prossimità delle feste natalizie, inondano le proprie case di odori e sapori che non sanno solo di zucchero, miele, cioccolato ma di tradizioni, di desiderio di voler continuare a fare ciò che la madre e le nonne erano solite fare per loro.

Immancabile ad arrivare sulle loro tavole, la pizza di scarola :” Che dava la possibilità alle donne, di impiegare tutto la giornata del 24 nella preparazione del cenone”, come dichiara Maria.

Ma l’aria si riempie di buonissimi odori molti giorni prima di Natale, con quei dolci che:” Vengono preparati con largo anticipo in quanto, essendo secchi e senza creme al loro interno, si conservano senza problemi”.

E quando si parla di dolci natalizi, immancabile sulle tavole, il re: gli struffoli : “Palline di pasta con farina uova, zucchero che vengono fritte e poi, una volta raffreddate, colate di miele e decorate con confettini colorati”.

Struffoli appena fritti ( foto per gentile concessione di Rosa Umili)

La tradizione vuole che il nome struffoli derivi dal greco, ma non si esclude un legame anche con la lingua e la tradizione spagnola che ha tra i suoi dolci la pinonate, che molto ricorda i nostri struffoli.

Un trionfo di struffoli (foto per gentile concessione di Rita Umili)

Francese sembra invece essere l’origine del nome roccocò, altro famosissimo dolce natalizio campano: “Un impasto di farina, zucchero, mandorle o nocciole e pisto, ovvero un mix di spezie”.

I roccocò appena sfornati (foto per gentile concessione di Maria Umili)

Delizia per il palato e “uno tira l’altro” i mostaccioli, rombi di pasta morbida con la variante al rum e cosparsi di glassa al cioccolato.

Una tavola di mostaccioli appena colati con il cioccolato (foto per gentile concessione di Rosa Umili)

E così, quando arriva Natale, con lui giungono da un remoto passato anche quegli antichi gesti, sapori, odori, sapori che ci prendono ancora per mano, accompagnandoci verso il futuro.

                                      Alessandra Fiorilli

A Cividale del Friuli dove Storia, leggende, e bellezze naturali si fondono come in un quadro d’autore

Tra Udine e la valle dell’Isonzo, la cui parte alta sconfina in territorio sloveno, proprio ai piedi di quei colli che ad osservarli bene ti parlano di battaglie della Grande Guerra con le sue trincee, ecco proprio lì, sopra le sponde del fiume Natisone, Cividale del Friuli ti accoglie tra le sue mura e i suoi palazzi.

Uno scorcio di Cividale del Friuli dal Ponte del Diavolo (foto di Lorenza Fiorilli)

Le sue origini affondano in epoca romana, quando Giulio Cesare, dà a questo centro geograficamente strategico, il nome di Forum Iulii, nome che verrà cambiato nel corso dei secoli a seconda della dominazione che subirà. La denominazione attuale, molto probabilmente, deriva dal nome che prenderà nel X secolo: quello di Civitas vel Castrum Foroiulianum, che verrà abbreviato dalla popolazione in Civitate, e poi, trasformato dal dialetto locale, in Sividat, Zividat, Cividat, nome, quest’ultimo, molto simile a quello attuale.

Uno dei palazzi che si affacciano sul Corso principale (foto di Lorenza Fiorilli)

Se il suo diventare centro con tanto di nome risale all’epoca romana, i primi insediamenti umani, in realtà,  sembrano risalire già al Paleolitico, ma sarà la discesa dei Longobardi in Italia, nel 568 d.C. a dare un’impronta regale a Cividale, dopo che il re Alboino la sceglie come capitale del ducato longobardo in Italia. Di questo periodo, Cividale conserva lo splendido Tempietto e l’Ipogeo Celtico che svolgeva, secondo la tradizione, funzione di prigione in epoca longobarda, essendo scavato nel sottosuolo.

Particolare di un palazzo (foto di Lorenza Fiorilli)

Con il Trattato di Campoformio del 1797, Cividale passa sotto il dominio dell’Impero Asburgico e solo nel 1866, in seguito alla vittoriosa Terza Guerra di Indipendenza Italiana, viene annessa al Regno d’Italia, per la cui Bandiera combatterà lotte impervie e sarà teatro, specie con quei colli che si vedono in lontananza, di battaglie passate alla storia.

In lontananza, i monti sui quali si combatterono molte battaglie della Grande Guerra (foto di Lorenza Fiorilli)

Città di confine nel periodo della Guerra Fredda tra il blocco dell’Ovest e quello dell’Est, e dopo il terremoto del 1976 che pure l’ha colpita, anche se non in maniera pesante come le vicine Venzone e Gemona, oggi accoglie con la sua mirabile bellezza, fatta di valli, mura antiche, pace e silenzio i turisti che, immancabilmente si regalano una foto sotto il cartello del Ponte del Diavolo, che collega le due sponde del fiume Natisone sul quale sorge Cividale. La leggenda vuole che, essendo talmente impervia la costruzione dell’opera, i cittadini chiesero aiuto al Diavolo il quale, in cambio, chiese l’anima del primo che fosse transitato proprio sul ponte.  Terminata l’opera, il primo a passare non fu un cittadino cividalese, ma un animale , la cui anima fu presa dal Diavolo così ingannato.

Il cartello all’inizio del Ponte del Diavolo (foto di Lorenza Fiorilli)

Affacciarsi dal Ponte del Diavolo è un’esperienza unica: il fiume Natisone che scorre lungo la valle, e sulle cui  sponde si può accedere tramite una scalinata, il campanile del Duomo di Santa Maria Assunta che svetta sulle case, e i colli teatro di tante battaglie della Grande Guerra.

Il fiume Natisone (foto di Lorenza Fiorilli)

Inoltrandosi nelle vie della città, si rimane ammaliati da cotanta bellezza dei palazzi, in primis il Palazzo Comunale, un edificio gotico tutto a mattoni davanti al quale svetta la statua di Giulio Cesare, fondatore della città. Si tratta di una copia bronzea di un’opera originale in marmo custodita a Roma, nel Campidoglio.

Il Palazzo Comunale e la statua bronzea in onore di Giulio Cesare (foto di Lorenza Fiorilli)

Regalarsi una giornata a Cividale del Friuli, nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco dal 2011, significa assaporare la storia di un luogo immerso in una pace e in silenzio che canta ancora, se si tende bene l’orecchio ai monti circostanti, i cori dei soldati italiani che combatterono contro lo straniero.

Alessandra Fiorilli

                                                                   Alessandra Fiorilli

A San Gimignano come in un presepe…

Il tempo che ci lasciamo alle spalle, a Firenze, non fa presagire il diluvio che incontreremo quando, superate le colline del Chianti, ci avviciniamo a San Gimignano. Piove, piove di una pioggia severa, che a stento i tergicristalli dell’auto riesce a togliere dal parabrezza. Siamo quasi tentati di invertire la rotta quando, ecco, stagliarsi, all’orizzonte, le inconfondibili sagome delle sue sue torri celebri in tutto il mondo.

E mentre saliamo verso Porta San Giovanni, la pioggia cessa di cadere copiosa e diventa sempre più lieve e la bellezza di questo scrigno toscano medievale perfettamente custodito, non solo ci fa dimenticare il diluvio che ci ha accompagnato per un buon tratto di strada, ma ci accoglie come un abbraccio.

Porta San Giovanni: uno degli access di San Gimignano (foto di Alessandra Fiorilli)

A destra e a sinistra le tipiche botteghe artigianali di ceramica, del cuoio, così come quelle dei tradizionali prodotti enogastronomici della zona, fanno da cornice alla strada, resa lucida dalla precedente pioggia.

Particolare di Porta San Giovanni (foto di Alessandra Fiorilli)

Camminiamo fino all’Arco dei Becci che ci conduce nella Piazza della Cisterna, vero cuore di San Gimignano. Originariamente destinata al mercato e ai tornei cittadini, è così chiamata perché ospitava una cisterna risalente alla fine del 1200, cisterna sulla quale sorgeva quel pozzo che ancora oggi è visibile e cornice immancabile di tante foto ricordo dei turisti che ogni anno visitano San Gimignano.

Scorcio (foto di Alessandra Fiorilli)
L’Arco dei Becci che immette in Piazza della Cisterna (foto di Alessandra Fiorilli)

Lasciata alla spalle Piazza della Cisterna ad attenderci è Piazza del Duomo, sul quale si affaccia non solo il Palazzo Comunale (o del Podestà) e la Torre Grossa,  ma anche la Collegiata di Santa Maria Assunta, più nota come il Duomo, la cui facciata in stile romanica non fa presagire la ricchezza degli affreschi che incantano, ammaliano, lasciano senza fiato.

Il pozzo in Piazza della Cisterna (foto di Alessandra Fiorilli)

Due i nomi che hanno lasciato le loro opere immortali nel Duomo di San Gimignano: Domenico Ghirlandaio, il quale ha affrescato la Cappella di Santa Fina e Benozzo Gozzoli, autore de “Il Martirio di San Sebastiano”.

Un particolare del Palazzo del Podestà (foto di Alessandra Fiorilli)

Uscite dal Duomo, i lampioncini sono già accesi lungo le vie del borgo toscano, e, mano a mano che la luce naturale si affievolisce, ci si trova catapultati in un presepio.

Particolare di una delle Torri di San Gimignano (foto di Alessandra Fiorilli)

La pioggia lieve lieve accompagna la nostra visita e ogni angolo è una sorpresa, una coccola per l’animo.  

Ripercorriamo al contrario il tragitto che ci ha regalato un tuffo in un tempo fuori dall’ordinario, del già visto, e quando usciamo da Porta San Giovanni, il nostro sguardo va verso la vallata che San Gimignano domina con le sue tredici torri, il cui profilo sono diventati il simbolo di questo affascinante e ammaliante borgo medievale nel cuore della Toscana.

                                  Alessandra Fiorilli

“Crocchè”, Montanare e frittatine di maccheroni: le protagoniste indiscusse del cuoppo, simbolo dello street-food napoletano

Dalla necessità di un popolo è nato il simbolo dello strett food napoletano: il cuoppo, o per dirla in dialetto, o’ cuopp.

I tre indiscussi protagonisti del tradizionale “cuoppo” napoletano: le pizzette Montanare, le crocchette di patate e le frittatine di maccheroni (foto per gentile concessione di Rita Umili)

Si narra, infatti, che il popolo partenopeo acquistasse dai pescatori di ritorno dall’uscita in mare, del pesce di piccole dimensioni che non avrebbe trovato spazio sul mercato ittico. Proprio questo pesce di piccolo o piccolissimo taglio, andava a finire nelle padelle delle famiglie più povere che provvedevano, per dargli più gusto, a friggerlo.

La preparazione di alimenti fritti, in primis il semplice impasto della tradizionale pizza, divenne persino un’attività lavorativa per molte donne che , fuori dalle loro case, vendevano le famose e caldissime  pizze fritte, celebrate dalla grande Sofia Loren nel film  “L’oro di Napoli”.

Soldi ce ne erano sempre pochi e così il piazzaiolo vendeva la pizza e segnava su un quadernino i nomi di coloro che si impegnavo e saldare il debito contratto al massimo entro otto giorni.

Ecco il motivo per il quale il famoso cuoppo napoletano è conosciuto anche con il suo secondo nome di “oggi a otto”.

Il turista che si inoltra per le vie di Napoli, non può fare a meno di notare come in ogni angolo ci siano pizzerie che vendono le pizze a portafoglio, ovvero una classica pizza napoletana di dimensioni minori e che essendo poi piegata a portafoglio, appunto, può essere mangiata anche in strada. Ma immancabili sono anche le friggitorie che offrono i famosi cuoppi, i quali possono essere di due tipi: di mare, con gamberetti, alici, calamari, e di terra,  con pastecresciute, Montanare, verdure pastellate (melanzane, zucchine, cavolfiori, peperoni, carote),  arancini di riso,  crocchette e frittatine  di maccheroni.

La frittatina di maccheroni (foto per gentile concessione di Rita Umili)

L’abito del cuoppo è la carta paglia che viene avvolta a forma di cono dal quale l’acquirente, come un abile prestigiatore, tira fuori, talvolta aiutandosi con un lungo spiedino di legno, tutte queste prelibatezze, figlie della migliore tradizione gastronomica napoletana.

Le protagoniste indiscusse del cuoppo sono soprattutto le frittatine di pasta, le pizzette fritte chiamate Montanare e le crocchette di patate, il famoso crocchè.

Le prime sono la versione monoporzione della famosa frittata di maccheroni: si presentano come dei dischetti di pasta, di solto bucatini tagliati, arricchiti con besciamella, dadini di prosciutto e pisellini. Le Montanare, invece, sono le classiche pizzette fritte che devono il loro nome ai montanari, i quali, scendendo dalle colline, arrivavano a Napoli con il questo gustosissimo cibo da asporto.

Le Montanare (foto per gentile concessione di Rita Umili)

A differenza della pizza cresciuta, che viene fritta, alle Montanare viene aggiunta, sopra, la salsa di pomodoro, il pecorino in scaglie e una foglia di basilico.

Le crocchette di patate, noti anche con il nome di panzarotti ma che a Napoli sono chiamati con il loro diminutivo “crocché”, sono invece un impasto a base di patate, uova, formaggio e pepe.

Le “crocchè” pronte per essere fritte (foto per gentile concessione di Rita Umili)

E quando anche l’ultima verdura pastellata scomparirà dal cono di carta paglia si avrà la certezza non solo di avere gustato un trionfo di sapori, ma anche di  aver mangiato un pezzetto di storia partenopea.

Alessandra Fiorilli

Fibromialgia: ce ne parla il Professor Umberto Tirelli, Oncologo e Senior Visiting Scientist presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN) Direttore Centro Tumori, Fibromialgia, Stanchezza cronica, Ossigeno Ozono Terapia e Crioterapia della Clinica TIRELLI MEDICAL Group.

Una definizione, quella della Fibromialgia, che da sola riesce a circoscrivere non solo il quadro clinico di chi è affetto da tale patologia invalidante, ma anche tutti gli effetti prodotti dalla FBM nella sfera psichica del paziente: Condizione cronica non infiammatoria caratterizzata da dolorabilità diffusa, rigidità o dolore muscolare o articolare, dove ad esser colpiti sono i muscoli, i tendini e non le articolazioni” come ci dice il  Professor Umberto Tirelli, Oncologo e Senior Visiting Scientist presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN) nonché Direttore Centro Tumori, Stanchezza cronica e Ossigeno Ozono Terapia della Clinica TIRELLI MEDICAL Group, con sede a Pordenone.

Il Professor Umberto Tirelli (Foto per gentile concessione ddel Professor Umberto Tirelli)

Procediamo con ordine: “Oltre alla condizione cronica suddetta, altri sintomi della Fibromialgia sono la stanchezza, la spossatezza, i disturbi di concentrazione e di memoria, le parestesie, ai quali vanno ad aggiungersi quelli di tipo psichiatrico (ansia, depressione ed attacchi di panico), dispepsia, colon irritabile e, nelle donne, vaginismo e dismenorrea”.

L’American College of Rheumatology aveva, nel 1990, legato la diagnosi di Fibromialgia a due condizioni particolari: un dolore diffuso simmetrico che durava da almeno tre mesi e la dolorabilità alla digitopressione di almeno 11 dei 18 tender point, anche se  :” Di recente lo stesso American College ha scelto di eliminare la valutazione sui tender point preferendo quella dei sintomi disfunzionali che comunque non sono propri solo  del quadro della fibromialgia,  ma comuni anche ad altre sindromi disfunzionali come la quella da stanchezza cronica”.

 Il dolore diffuso, la rigidità e il dolore muscolare o articolare, protratto nel tempo:” Fa sì che il soggetto affetto da Fibromialgia riscontra una inabilità a svolgere anche le più comuni attività quotidiane e, anche laddove queste vengano compiute, il recupero delle forze può richiedere un tempo imprecisato”.

Il Tirelli Medical Group (Foto per gentile concessione del Professor Umberto Tirelli)

 I 2/3 dei pazienti affetti da Fibromialgia, alla domanda su cosa avvertono sul proprio corpo, rispondono: Un dolore ovunque, dalla testa ai piedi. E non si tratta di un dolore qualunque, ma con specifiche caratteristiche: scottante, bruciante, vibrante, battente, martellante, profondo, tagliente, frequentemente viene riferita la sensazione di “ammaccatura”, o “corpo battuto”.

L’intensità del dolore non sempre è la stessa, infatti ci sono situazioni che lo fanno aggravare, rendendolo ancora più insopportabile: L’ansia e lo stress hanno un ruolo determinante nel peggioramento del quadro clinico, così come anche l’umidità il freddo, il sovraccarico ma anche l’inattività”.

La qualità del sonno peggiora moltissimo: “Tipico della Fibromialgia è la cosiddetta fatica al risveglio, causata da un sonno non ristoratore perché disturbato dal dolore. Dobbiamo dire che la fatica, piuttosto comune nella Fibromialgia, e che è presente nei pazienti con una percentuale che varia dal 75% al 90%, la si avverte soprattutto al mattino. Non a caso i pazienti si svegliano sentendosi già stanchi o più stanchi di quando sono andati a letto.”.

La Fibromialgia non colpisce in egual misura i due sessi “Il rapporto donne –uomini è di 8:1”.

Ancora sconosciute le cause scatenanti della fibromialgia: Potrebbe esserci lo stress, l’ansia, il sovraccarico di lavoro ma si è affacciata anche l’ipotesi di una ipersensibilità del cervello al dolore. Eppure, a tutt’oggi, la medicina non può indicare ancora una causa scatenante. Potrebbe trattarsi anche di una causa di tipo immunologico, forse legata ad un fatto infettivo che potrebbe essere scatenato persino da una situazione stressante”.

Ma come si giunge ad una diagnosi di Fibromialgia? Trascorsi 6 mesi dalla prima manifestazione di questo dolore invalidante ed entro 1 anno dall’insorgenza dello stesso, il medico, dopo aver escluso qualsiasi patologia legata ai muscoli e ai tendini, giungerà ad una diagnosi di Fibromialgia.  E’ da evidenziare come ci possa esser una sovrapposizione con la sindrome da fatica cronica (CFS), dove la spossatezza prevale sul dolore, che è invece prevalente nella Fibromialgia. E’ stato stimato che il 20/ 70% dei pazienti con Fibromialgia soddisfi anche i criteri per la CFS e viceversa, il 35%-70% dei pazienti con CFS presenti anche una FBM concomitante. Rispetto ai pazienti affetti solo da Fibromialgia, quel che soddisfacevano i criteri per entrambe le sindromi erano sottoposti ad un peggior decorso della malattia, una peggiore salute generale, un maggior numero di sintomi diversi tipici della CFS ed un maggiore impatto sulla qualità della vita. Di fronte a ciò alcuni ricercatori hanno evidenziato come queste due condizioni debbano essere considerate come differenti manifestazioni degli stessi processi biomedici e psicosociali”.

Cosa può fare il paziente di fronte ad una diagnosi di fibromialgia? “I trattamenti usati fino ad ora, ascrivibili alla sfera degli antidolorifici o degli ansiolitici o degli antidepressivi, non hanno prodotto grandi benefici. Da 2 anni, presso il nostro Centro di Pordenone, applichiamo l’Ossigeno Ozono Terapia sui pazienti affetti da Fibromialgia, con un miglioramento sul 70% dei pazienti trattati e con una pubblicazione su una rivista indicizzata. C’è da dire che l’Ossigeno Ozono Terapia è un antinfiammatorio, antidolorifico, energetico, usato anche per alleviare la fatica oncologica, perché purtroppo la chemioterapia, l’ormonoterapia, l’immunoterapia, la radioterapia, come effetti collaterali, hanno spesso anche quella di causare stanchezza”.

L’Ossigeno Ozono Terapia, con le sue proprietà antinfiammatorie ed analgesiche, prevede l’introduzione di una miscela di ossigeno e ozono nell’organismo del paziente: Per autoemotrasfusione e per insufflazione rettale, due volte a settimana per un mese e poi due volte al mese come terapia di mantenimento, secondo i protocolli della SIOOT (Società Italiana Ossigeno Ozono Terapia). Abbiamo registrato un incremento significativo della riduzione della sintomatologia nel 70% dei pazienti trattati, nessuno dei quali ha riportato effetti collaterali: questo a dimostrazione di come l’Ossigeno Ozono Terapia rappresenti un efficace trattamento per la Fibromialgia”

                                     Alessandra Fiorilli

“Tiere Motus” a Venzone: un Museo, un Sacrario della memoria, un grande esempio di come si rinasce dopo un terremoto disastroso.

Entrare nel Museo “Tiere Motus”, ospitato nel Palazzo Orgnani- Martina, a Venzone, borgo a circa 30 km da Udine, è entrare nell’animo, nei cuori, nelle menti, persino in ogni singolo battito del cuore di coloro i quali hanno vissuto il tremendo terremoto del 6 maggio 1976.

Appena se ne varca la soglia, le foto, alcune in bianco e nero, altre a colori, nonché i titoli a caratteri cubitali dei principali quotidiani nazionali, sembrano accoglierti nel loro grembo, fatto sì di dolore, ma anche di tanta dignità, e di una volontà ferrea che farà del Friuli terremotato un simbolo per tutta Italia.

Una delle sale del percorso espositivo del Museo “Tiere Motus” di Venzone (Foto per gentile concessione di “Tiere Motus”- Centro di Documentazione Venzone), dove campeggia una significativa frase: “Il Friuli ringrazia e non dimentica”

“Tiere Motus” è un Museo, ma anche una sorta di Sacrario della memoria e quando sei lì, ad osservare l’esposizione fotografica, quasi ti verrebbe spontaneo chiedere il permesso di osservare tutte quelle immagini, perché trasudano una sofferenza unita ad una forza che permetterà al Friuli di risorgere.

A raccontarci la storia di questo Museo è la Direttrice dello stesso, la Dottoressa Floriana Marino, architetto, siciliana d’origine, veneziana per studio, avendo frequentato l’Università nel capoluogo veneto, e friulana per amore verso questo popolo che tanto le ha insegnato.

“Sono arrivata a Venzone quando ancora si stava compiendo la ricostruzione e da allora non sono andata più via. Prima di questo incarico, sono stata responsabile del gruppo di lavoro e ho partecipato alla codirezione del Centro di Documentazione sul Terremoto del 1976, dal quale poi nascerà il Museo grazie alla volontà dell’Associazione Comuni Terremotati e Sindaci della Ricostruzione del Friuli. “Tiere Motus” è un luogo  dedicato alla memoria storica, dove tutta l’esperienza del terremoto e degli anni successivi al sisma, trova qui la sua sede.”

“Tiere Motus” viene inaugurato nel 2009: Dopo anni di un lavoro molto intenso con un gruppo operativo molto qualificato con il quale abbiamo collaborato bene. E’ stato indubbiamente un grande lavoro e ha richiesto un grande sforzo, ma siamo stati molti soddisfatti del risultato”.

Un’altra Sala (foto per gentile concessione di “Tiere Motus”- Centro di Documetazione, Venzone)

Nella mostra fotografica: “Che ha richiesto due anni e mezzo per l’allestimento”, le immagini scelte “Tra migliaia e migliaia di foto,   sono corredate da didascalie non messe in evidenza, questo perché abbiamo deciso che sarebbero state le foto a parlare, foto che esprimono, pur nella loro drammaticità, il carattere e la determinazione della gente friulana”.

Il lavoro certosino svolto: Ci ha visti impegnati nel volere raccontare gli accadimenti del ’76 e della ricostruzione, facendo attenzione a non essere autoreferenziali e sforzandoci di essere, nella narrazione, il più obiettivi possibili. Abbiamo cercato un continuo confronto e condivisione, proprio per far emergere le diverse voci”.

 E così nel museo di Venzone, il terremoto: Come evento intimo di tutti quei friulani che hanno perso case e congiunti, è diventato un luogo della memoria, depositario di ricordi individuali, che necessariamente sono diventati collettivi. Abbiamo voluto far conoscere come il Friuli e la sua gente abbia saputo voltare pagina e raccogliere la sfida della ricostruzione”.

Nonostante l’immane distruzione causata dal sisma del 1976 : Che ha interessato ben 137 comuni, 45 disastrati nella cosiddetta area cratere, con 989 vittime”, le foto esposte testimoniano il grande desiderio di tornare alla normalità : “Tra le tante, c’è una immagine che riguarda la fabbrica di arredamento Fantoni, anch’essa, come moltissime, pesantemente danneggiata dal terremoto, e che ritrae un documento, datato luglio 1976, dove si invitano gli operai ad un brindisi per il primo mobile nato dopo il sisma. Questo è uno dei tantissimi esempi della  determinazione e della grande forza d’animo di persone che, dopo aver perso tutto, si sono ritrovate a ricominciare daccapo, impegnandosi e lottando. Aggiungo, che la ricostruzione è stato un periodo intenso ma anche duro, fatto di scontri e discussioni accese.”.

 Prima la forza, dunque, poi la partecipazione collettiva al grande processo di ricostruzione che è testimoniato sempre dalle foto esposte al museo, visitato anche da molti turisti stranieri, i quali :“Possono, così, vedere da vicino e comprendere  una delle pagine di storia recente del Friuli, fatta di macerie, distruzione, dolore ma anche di impegno, ordine, compiutezza”.

“Tiere Motus” non è solo un percorso espositivo, ma si compone anche di una sala molto particolare: La sala del simulatore  è nata ancora prima del museo. Ricostruire in realtà virtuale il crollo del Duomo di Venzone la notte del 6 maggio 1976 e gli effetti sonori del terremoto  ha richiesto circa 2 anni di lavoro. Il visitatore viene catapultato, nell’istante stesso in cui cade giù il duomo di Venzone, a quella notte. Il suono assordante delle migliaia di pietre che vengono giù, delle vetrate della chiesa che vanno in frantumi,   ha un grande impatto sui visitatori. Ma l’effetto sonoro più rilevante è dato dal terrificante boato che nasce dal cuore della terra, l’ “Orcolat” per i friulani, il terribile mostro. La sala di proiezione è dotata di un impianto di diffusione in grado di generare frequenze infrasoniche che fanno rivivere la spaventosa voce del terremoto. Una curiosità: la prima volta che lo mettemmo in funzione, tutti uscirono fuori spaventati, ecco perché il volume è tenuto  al minimo per non creare panico tra la gente di Venzone”.

La Sala Simulatore (foto per gentile concessione di “Tere Motus”, Centro di Documentazione, Venzone)

Ringrazio la Dottoressa Floriana Marino non solo per la disponibilità, ma anche per la grande capacità di raccontare un dolore così grande: “Non dimentichiamo che  quasi tutte le famiglie dei comuni disastrati hanno pianto la perdita di un proprio congiuntocon garbo, sensibilità per far capire come “Dietro la lucidità del disastro ci sia stata una forza così grande”.

Alessandra Fiorilli

 

 

La storia del supplì romano che ha conquistato anche l’ipertecnologica Tokio

E’ il 1874 quando i clienti di una delle tante trattorie di Roma leggono, per la prima volta, nella lista dei piatti proposti, “Souplis di riso”.

Incuriositi dal nome, che tradisce una qualche vaga parentela con la lingua francese, non a caso sembra derivare dal termine d’Oltralpe “surprise”, ovvero, sorpresa, ne ordinano uno… eccolo arrivare: è caldo, profuma di fritto, ha un volto rassicurante e al tempo stesso malizioso.

La sorpresa la si ha quando lo aprono, con le mani, a metà : al suo interno custodisce un cuore di mozzarella filante capace di legare le due parti di questo alimento preparato con il riso.

Il supplì…semplicemente (foto di Alessandra Fiorilli)

Dalla trattoria romana il balzo che la ricetta farà in tutte le case, prima dei romani poi di tutta Italia, sarà tanto breve quanto duraturo.

Le mamme lo preparano con gli avanzi del riso e del sugo di carne della domenica, ma nessuno considererà mai il supplì come un modo per riciclare ciò che è rimasto nelle pentole del pranzo di un giorno di festa.

Due le correnti di pensiero sulla pianatura: chi lo infarina, lo passa nell’uovo e poi nel pangrattato, chi invece usa solo l’uovo e pangrattato.

Il classico colore della panatura appena fritta (foto di Alessandra Fiorilli)

Il classico supplì fronteggia oggi la concorrenza di alcune varianti: c’è chi aggiunge al suo interno delle verdure, chi della pancetta, ma l’intramontabile supplì che ha incantato prima i romani e poi l’Italia e il mondo intero, è sempre il classico, con riso al sugo e mozzarella.

IL cuore di mozzarella custodito all’interno di ogni supplì che si rispetti (foto di Alessandra Fiorilli)

Il supplì riesce a superare il suo essere solo un alimento perché sa diventare poesia, il simbolo di una parentesi gustosa e sfiziosa tra il pranzo e la cena, il compagno di un’attesa, un momento di puro gusto.

Ma è anche l’indiscusso protagonista di una serata in pizzeria tra amici: mentre si attende l’arrivo della pizza, se ne gusta qualcuno caldo caldo.

E se ti trovi in strada e noti da lontano una buona friggitoria e passi lì di fronte, è quasi impossibile resistere alla tentazione di entrare e di acquistarne uno e quando sei lì e lo porti alla bocca, all’improvviso non ti sei senti più solo, perché in quel momento il supplì già ti fa compagnia…e dimentichi le calorie che stai ingerendo, le dieta, l’autobus che devi prendere per tornare a casa: esiste solo lui  e nello stesso istante in cui lo addenti, non puoi fare a meno di chiudere gli occhi.

Lui, il supplì, non concede strappi alla regola: vuole essere mangiato con le mani…è così, infatti,  che lo gustano da un capo all’altro del mondo. Locali  che vendono supplì li troviamo dalle grandi metropoli nordamericane, New York in testa, fino all’ipertecnologica Tokio.

Il supplì: un pezzo di storia romana amata in tutto il mondo (foto di Alessandra Fiorilli)

Anche la filmografia italiana lo ha celebrato in alcuni suoi  film: da “La Parmigiana” con un Nino Manfredi che li addenta con voracità, al più  recente “Poveri ma ricchissimi”, in cui la famiglia protagonista dei Tucci riesce a mangiarne interi vassoi senza stancarsi mai.

E provateci anche voi…sì provateci ad acquistarne uno e a portarlo a casa senza aver avuto la tentazione, nemmeno per un istante, di addentarlo per strada…

Alessandra Fiorilli

 

Firenze: una passeggiata lungo la storia

Firenze…Firenze…Firenze… parte dell’immancabile e classica triade, insieme a Roma e Venezia, che i turisti stranieri non si lasciano sfuggire quando visitano l’Italia, meta di gite scolastiche organizzate per ammirare da vicino i capolavori dei grandi artisti rinascimentali, luogo dove i cinque sensi vengono rapiti da cotanta maestosa bellezza e perfezione.

Quando arrivi a Piazza Duomo, non puoi trattenerti dal rimanere immobile, ammaliato dalla grandiosità della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, del Campanile di Giotto e del Battistero.

Il Duomo, uno scorcio del Campanile e il Battistero (da sinistra nella foto di Lorenza Fiorilli)

E tu sai che per costruire quella cupola, simbolo di Firenze e che domina l’intera città, Filippo Brunelleschi impiegò 16 anni, usando una tecnica costruttiva che oggi, a quasi 7 secoli di distanza, e con tutti i mezzi e le innovazioni di cui si dispone, sembrerebbe un’opera impossibile.

Il capolavoro di Filippo Brunelleschi: la cupola, simbolo di Firenze (foto di Lorenza Fiorilli)

Quel trionfo di marmi bianchi di Carrara, verdi di Pisa e rossi di siena,  che ricoprono l’intera facciata sia della Cattedrale che del Campanile, regalano un’atmosfera, al tempo stesso, dolce ed austera, imponente e magica.

Il Duomo che accoglie i turisti con la sua maestosa bellezza (foto di Lorenza Fiorilli)

Gioco di luci tra il Battistero, il Duomo e il Campanile (da sinistra nella foto di Lorenza Fiorilli)

Nell’istante in cui riesci, seppur a fatica, a staccare lo sguardo da tanta magnificenza nata dall’estro e dalla capacità sovraumane di artisti immortali, ti incammini verso Piazza della Signoria e lì la storia ti viene incontro, ti prende sotto braccio, ti parla dei grandi eventi vissuti dalla città di Firenze e che hanno avuto proprio in questa piazza il loro centro nevralgico.

Palazzo Vecchio in Piazza della Signoria (foto di Lorenza Fiorilli)

Guarda…sembra quasi di vedere il rogo che, proprio in Piazza della Signoria,  Girolamo Savonarola impose, nel 1497, ai libri e dipinti non graditi alla  sua ortodossia, rogo sul quale lui stesso brucerà, l’anno successivo e che sancirà la fine del suo governo.

Pochi decine di metri oltre, ecco gli Uffizi, che possono essere considerati un doppio capolavoro: capolavoro come edificio e capolavoro per le opere ivi ospitate.

Lasciati gli Uffizi alle spalle ci si incammina di nuovo e si sa che lui è lì ad attenderci: lui , il ponte più antico di Firenze, lui, che è stato risparmiato dalla furia distruttrice dei nazisti e che si è salvato dalla piena disastrosa dell’Arno nel   novembre 1966.

Ecco, dunque, Ponte Vecchio le cui botteghe degli orafi che costeggiano le due ali del ponte, sono sormontate dal corridoio vasariano progettato appunto da Giorgio Vasari per consentire il passaggio da Palazzo Vecchio, in Piazza della Signoria, centro nevralgico politico-amministrativo della città, a Palazzo Pitti, dimora della famiglia dei Medici.

Particolare di Ponte Vecchio (foto di Lorenza Fiorilli)

Su Ponte vecchio le botteghe degli orafi presero il posto, dietro ordine di Ferdinando I dei Medici, delle macellerie che furono spostate altrove, in quanto il lezzo che da queste si diffondeva, era ritenuto poco consono alle attività politico-amministrative che si svolgevano nei dintorni.

Firenze da Piazzale Michelangelo (foto di Lorenza Fiorilli)

Non puoi andare via da Firenze senza aver visitato  Palazzo Pitti e il suo Giradino dei Boboli,  anche se  un degno saluto alla città lo puoi fare solo dall’alto, solo da Piazzale Michelangelo e lì…lì ti commuovi, ti commuovi per tanta bellezza, e ti immagini che per quelle stesse vie e piazze dove hai camminato, sono nati, vissuti, e hanno patito le alterne vicende politiche della città, grandi artisti come Benvenuto Cellini, Filippo Brunelleschi, Cimabue, Sandro Botticelli, Dante, Guido Cavalcanti.

Arrivederci Firenze… e grazie per questo tuffo nella storia italiana che ci hai regalato.

Alessandra Fiorilli

 

“Gusti di Frontiera”: a Gorizia, dal 26 al 29 settembre, 413 espositori da tutto il mondo per gustare cibo e tradizioni dei Cinque Continenti.

 

Anche quest’anno Gorizia, nell’ultimo fine settimana di settembre, grazie a “Gusti di Frontiera”, si trasformerà in una vetrina internazionale, dove il cibo e le tradizioni gastronomiche di tutto il mondo accoglieranno i visitatori di una manifestazione che sta crescendo di anno in anno. Non una semplice “fiera”, ma un vero e proprio grande evento di respiro internazionale che taglia il traguardo, proprio quest’anno, della sua 16° edizione.

Uno scorcio del caratteristico borgo medievale di Gorizia e, sulla sinistra, il Castello su cui sventola la bandiera italiana(Foto di Lorenza Fiorilli)

413 gli stands che quest’anno attenderanno i visitatori da giovedì 26 settembre a domenica 29. Una festa di colori, un tripudio di odori, sapori, un’ occasione imperdibile per gustare specialità gastronomiche e per passare, senza aerei né  e treni, da una  nazione all’altra.

Uno stand dell’Europa Orientale, con le tipiche focacce lievitate cotte su piastra (foto di Lorenza Fiorilli)

La manifestazione “Gusti di Frontiera”,  nata 15 anni fa,  è maturata nella consapevolezza che, dopo la caduta della cortina di ferro,  Gorizia non era più solo l’estremo avamposto del blocco dell’Ovest contro quello dell’Est, ma una città nuova, come ci conferma Arianna Bellan, Assessore dei Grandi Eventi, Lavoro e Urbanistica del capoluogo friulano: “Da un punto di vista geografico, Gorizia è ancora una città di confine, ma se per decenni questo ha rappresentato un momento di divisione, oggi si sta cercando di trasformarlo in un’occasione di crescita e di modello di cooperazione europea. Anche una manifestazione come questa, che mette al centro le cucine di tutto il mondo, valorizzando contestualmente quella locale, va in questa direzione”.  

Uno scorcio del Borgo dedicato ai Paesi anglosassoni: in foto uno storico bus rosso inglese (foto di Lorenza Fiorilli)

Nei primi anni “Gusti di Frontiera”, una kermesse il cui motto è “Il Mondo in Tavola”, riuniva nelle vie centrali soltanto: “Espositori provenienti dall’ Italia, dalla Slovenia, dall’ Austria, dall’Ungheria. Poi l’interesse è cresciuto moltissimo e sono pervenute richieste anche da altri Paesi, ciascuno dei quali ha portato a Gorizia proprie specialità gastronomiche che fanno parte integrante della cultura delle singoli nazioni”.

Il Borgo dell’America Latina e il tipico cibo messicano (foto di Lorenza Fiorilli)

Il 2018 è stato un anno importante, una pietra miliare per “Gusti di Frontiera”, in quanto davvero erano presenti, con i propri stands, tutti i Cinque Continenti . Ogni anno, quest’evento così importante per Gorizia, regala ai suoi visitatori una novità, come ci svela l’Assessore Bellan: “Nel  2018 è stata l’Australia, quest’anno sarà l’Africa”.

Lo stand dove gustare l’originale yogurt greco (foto di Lorenza Fiorilli)

L’interesse crescente verso questa manifestazione di respiro internazionale, non si è avuta solo tra “gli addetti ai lavori”, ma anche e soprattutto tra i visitatori che, di anno in anno, affollano sempre più numerosi le vie centrali e le piazze di Gorizia, come ci conferma, numeri alla mano, l’Assessore Bellan:” Lo scorso anno si stima ci siano stati 800000 partecipanti da giovedì, giorno di apertura degli stand, sino alla domenica. Una crescita importante, considerando che, ad esempio, nel 2012 sono accorse a Gorizia 200000 persone”.

Un evento come  “Gusti di Frontiera”, significa non solo una scrupolosa analisi preventiva degli spazi da assegnare alle centinaia e centinaia di espositori, ma anche una valutazione successiva, quando gli stand vengono smontati: “ I sopralluoghi iniziano dal mattino successivo, insieme a tutti gli addetti e al personale coinvolto nella manifestazione. Sono del parere che si lavora meglio quando lo si fa a mente fresca”, dice l’Assessore Bellan.

Un pò di Olanda… (foto di Lorenza Fiorilli)

Un grande sforzo organizzativo che inizia già dal mese di gennaio: “E’ proprio dalle prime settimane del nuovo anno che si comincia a pensare all’edizione successiva”.

Accurata e scrupolosa l’organizzazione della sicurezza: “Che coinvolge non solo le Forze dell’Ordine, ma anche l’Associazione Carabinieri in congedo, la Protezione Civile. Vogliamo offrire la massima serenità alle centinaia di migliaia di persone che accorrono in città nei quattro giorni di Gusti di Frontiera”.

Focacce dell’Europa Orientale da riempire con i tipici grandi hamburger e salse tipiche (foto di Lorenza Fiorilli)

E così Gorizia, durante questa manifestazione, diventa davvero la capitale mondiale del gusto, non solo perché ci sono stands dai cinque continenti, ma  perché arrivano :” Corriere su corriere da tutta Italia e moltissimi da ogni angolo della terra, grazie alla possibilità di raggiungere Gorizia da Trieste, dove c’è l’Aeroporto Ronchi dei Legionari”. Chi preferisce il treno, invece, ci sono collegamenti con i treni Alta Velocità  che raggiungono le vicine città di Udine e Trieste.

il Kurtoskalacs, tipico dolce ungherese dalla tipica forma a cono, cotto su uno spiedo cilindrico  che viene fatto girare sul fuoco. (Foto di Lorenza Fiorilli)

La città di Gorizia, dominata dall’alto dal suo bellissimo castello, (la cui visita, così come quella ai Musei della città, è gratuita durante Gusti di Frontiera) in occasione del grande evento internazionale, è divisa in tanti “Borghi”, ciascuno dei quali ospita gli stands relativi ai Paesi: avremo così il Borgo Francia “Con tante luci sugli alberi”, il Borgo dei Paesi  latini, con la loro paella e la sangria, il Borgo Orientale fino a coprire, così, l’intero globo terrestre.

Non mancherà, anche quest’anno, durante i quattro giorni dell’evento, il “Salotto del Gusto”, con ospiti e talk show sulle mille sfaccettature del cibo.

Alessandra Fiorilli

 

 

Come prevenire e fronteggiare il diabete: ce ne parla il Professor Riccardo Vigneri, uno dei massimi esperti del campo e Professore Emerito di Endocrinologia all’Università di Catania

Siamo pronti a fronteggiare la pandemia- diabete? E’ una domanda che dovremmo porci tutti perché, nonostante quello di tipo 2 si stia diffondendo in maniera preoccupante tra la popolazione italiana, mezzi per evitare il rischio di ammalarsi ce ne sono e ne parliamo con uno dei massimi esperti del campo: il Professor Riccardo Vigneri, Endocrinologo e Diabetologo, attualmente Professore Emerito di Endocrinologia dell’Università di Catania.

Il Professor Riccardo Vigneri (foto per gentile concessione del Professor Riccardo Vigneri)

Distinguiamo innanzitutto i due tipi principali di diabete: il tipo 1, che è quello più grave, perché trattasi di una malattia autoimmune che distrugge le cellule del pancreas e che riguarda solo il 10% dei pazienti, e quello di tipo 2, che riguarda la maggioranza dei casi. Il tipo 1 è insulino-dipendente, il tipo 2 è insulino-resistente: non manca l’insulina ma i tessuti sono “resistenti” cioè non ne sentono gli effetti. Per il diabete mellito tipo 1, poco possiamo fare perché c’è alla base anche una predisposizione genetica: anche diagnosticando col dosaggio degli anticorpi la fase di predisposizione l’intervento è poco o nulla efficace. Invece, per quello di tipo 2 molto dipende dallo stile di vita del paziente e quindi è possibile intervenire per evitarlo o ritardarlo.

Stile di vita che, purtroppo, negli ultimi anni , è cambiato molto: Mangiamo di più e male e ci muoviamo di meno. Quindi, se potessimo tornare alla dieta mediterranea e  fare i tanto decantati 10000 passi al giorno, che corrispondono a circa 40 minuti di camminata  a passo sostenuto per 5 giorni la settimana, potremmo dire che già stiamo facendo molto ed evitare molti casi di dibaete tipo 2”.

L’obesità, legata allo scorretto stile di vita, è una causa principale del disordine metabolico che può portare all’aumento della quantità di zucchero nel sangue:  Le cellule grasse predispongono all’insulinoresistenza. Ma anche sull’obesità c’è da fare un distinguo: esiste quella androide, tipica del sesso maschile che interessa il tronco e l’addome con forma “a mela”, che è caratterizzata dal grasso viscerale il quale favorisce l’insorgere della sindrome metabolica, e del diabete e l’obesità  ginoide, tipica del sesso femminile che interessa l’area gluteo-femorale con forma “a pera” caratterizzata dall’aumento del grasso sottocutaneo e che è meno dannosa. Infatti solo il grasso viscerale produce sostanze che riducono l’attività dell’insulina, e che ne impediscono l’azione sugli zuccheri ma anche sul metabolismo dei grassi come il colesterolo e i trigliceridi”.

C’è da evidenziare un aspetto molto importante: Il diabete non è una malattia, ma una sindrome con tante forme diverse e diverse fasi. Una fase importante è quando compaiono le complicanze croniche: quando tutti gli organi sono esposti ad una glicemia alta ed all’alterato livello di grassi, le pareti dei vasi si ispessiscono e si irrigidiscono e si hanno le gravi complicanze di difficoltà circolatorie a livello sia micro- che macro-vascolare, con  conseguente insorgenza di patologie gravi come l’infarto e l’ictus cerebrale e, per i piccoli vasi, del rene (il diabete è la prima causa di insufficienza renale) e retina  e il piede diabetico. Nella retina dell’occhio dei diabetici le migliaia di vasi che la irrorano si possono rompere, provocando emorragie, micro-cicatrici e quindi cecità: non a caso il diabete ne è la prima causa nell’adulto. Un’altra complicanza importante è quella del “piede diabetico”. L’insufficienza vascolare degli arti inferiore fa sì che una piccola ferita non si rimargina, si infetta, si ha l’ulcera diabetica che può attaccare l’osso e si può arrivare all’amputazione del piede o anche  dell’arto”

Negli ultimi 10-15 anni sono stati, inoltre,  effettuati degli  studi sulla stretta correlazione tra diabete e cancro: “ Nei diabetici  è aumentato il numero dei tumori per molti motivi, ancora non tutti chiari. Alcuni sono motivi locali, legati all’organo. Per esempio i diabetici hanno più frequentemente  epatiti virali e fegato grasso e ciò aumenta la predisposizione  al tumore al fegato due volte di più rispetto ai non diabetici. Molti altri tumori sono aumentati nel diabete: in generale vi è un aumento del 20-25% del rischio di tumore. Solo un tumore, quello alla prostata, è diminuito nel diabete, probabilmente perché nei diabetici sono spesso ridotti i livelli di testosterone”.  

C’è inoltre un meccanismo che spiega il nesso tumore-diabete: “Le cellule tumorali si sviluppano più rapidamente di quelle normali,  crescono  in maniera sregolata,  ma per crescere hanno bisogno di energia anche sotto forma di zucchero, la cui quantità è ovviamente, più elevata nei diabetici. Così pure alla crescita dei tumori contribuiscono l’insulino-resistenza e la terapia insulinica perché l’insulina è anche un fattore di crescita”

Quali, dunque, i mezzi per prevenire tale sindrome, oltre, ovviamente ad uno stile di vita più salutare? “Gli zuccheri semplici sono da diminuire drasticamente, (qualsiasi tipo, anche quello di canna). E questo vale anche per la frutta che contiene fruttosio. Non bisogna esagerare: la regola è mangiarne 3/4 porzioni equivalenti come volume ad un pugno chiuso evitando quella più zuccherina come fichi ed uva. La farina bianca (e quindi pane bianco e dolci) è da evitare perché produce un picco di assorbimento rapido, facendo aumentare, di colpo, l’insulina. Bene invece la pasta e il pane integrale e ottima la frutta secca: 4/5 noci e 6/7 mandorle al giorno vanno benissimo perché contengono grassi vegetali che aiutano a pulire i vasi, ma bisogna attenersi alle quantità indicate perché la frutta secca è molto calorica”.

Occhio anche allo  stress: “ Fa aumentare ormoni che antagonizzano l’ insulina come cortisolo ed adrenalina: quindi una vita stressata può essere deleteria per chi è predisposto al diabete”.

Ringrazio il Professor Riccardo Vigneri  per il tempo che mi ha dedicato e per il su stile asciutto e facilmente comprensibile.

Alessandra Fiorilli