Udine è il suo castello, che sorge su un colle dal quale si vedono i tetti della città e, in lontananza, le Alpi.
Udine è Piazza Libertà, che sembra abbracciarti con la Loggia del Lionello, di spiccato gusto veneto.
Udine è la sua gente, dal cuore gentile.
Udine è anche “frico”, il piatto tradizionale friulano a base di patate e formaggio, accompagnato spesso da un’ottima polenta.
Udine è lo stupore che ti fa suo, quando cammini per le vie centrali e ti fermi ad ammirarne i palazzi.
Udine è sorpresa.
Udine è la città che non ti aspetti, perché se capiti in Friuli Venezia Giulia, la prima cosa che pensi di andare a visitare è la pure straordinaria e mitteleuropea Trieste, con le sue piazze e il Castello Miramare.
Invece Udine è lì, non ti dice “Vienimi a trovare” perché è pudica ed orgogliosa allo stesso tempo, eppure se la vai a visitare lei ti prende subito e la ricorderai per sempre.
Piazza Libertà ne è il cuore, non solo sotto il profilo toponomastico, ma anche per le ricchezze che lì si affacciano, primo tra tutte l’Arco Bollani, sul quale spicca il Leone di San Marco. Il legame che Udine ha con il confinante Veneto è molto forte da un punto di vista architettonico, non è un caso che lo stesso Arco sia frutto del grande estro creativo di Andrea Palladio, il quale ha realizzato le famose ville attorno Vicenza.
Superato l’Arco Bollani ci si incammina per la salita che, costeggiata dalla loggia del Lippomano,conduce al Castello, posto sul punto più alto della città. Ma prima di arrivare allo spiazzale e di passare sotto un altro arco, l’Arco Grimani, si può ammirare la chiesa di Santa Maria di Castello, la più antica di Udine, e il suo campanile alto 43 metri, sul quale spicca l’Arcangelo Gabriele, in rame dorato, il quale non solo ha il compito di proteggere la città, ma anche di indicare la direzione dei venti.
Tra i Musei Civici ospitati proprio all’interno del Castello, spicca l’interessantissimo Museo del Risorgimento ma, nel corso dell’anno, sono allestite anche mostre temporanee.
Nonostante il nome ufficiale sia, appunto, “Castello di Udine”, l’edificio ha più le fattezze di un palazzo che quelle di una costruzione di difesa ed anche qui risiede il suo fascino particolare, che lo si assapora e lo si gusta durante la visita, terminata la quale, si viene ammaliati dal panorama che si gode da lassù, dove sono ben visibili le Alpi.
Sul prato posteriore al Castello, spicca la Casa della Contadinanza, che prende il nome proprio dal fatto che fu sede dell’assemblea dei contadini friulani i quali volevano tutelare, nel XVI secolo, i loro interessi di classe lavoratrice.
Una volta percorsa la strada in senso contrario, si può ammirare, alla sinistra dell’Arco Bollani, la Loggia di San Giovanni con la torre dell’Orologio e i due Mori, anche questi di spiccato gusto veneziano.
Volgendo le spalle alla Loggia, eccone un’altra, la più famosa, quella vista tante volte quando sui libri di geografia delle elementari quando si studiava Udine: la Loggia del Lionello.
La sua facciata, in marmo rosa e bianco, il suo porticato, con il suo gioco di luci ed ombre ti avvolge, così come la bellezza della pavimentazione a scacchiera.
E quando ti addentri per le vie e le piazze di Udine capisci che il suo fascino discreto ti ha conquistato…ormai per sempre.
Rimangono così per dei minuti, io non oso dire niente mi limito a guardarmi intorno per salutare, nell’anima, uno per uno, tutti gli oggetti che mi hanno fatto compagnia in queste due settimane.
Arrivederci vecchio macinacaffè dalla manovella rotta, caro paiolo di rame, carissimo camino, compagno di tante serate.
Non sono triste perché sono certa che non è un addio ma è solo un arrivederci.
Abbraccio anch’io la nonna ed esco da casa con mio padre che non si gira neanche una volta lungo il viale che ci conduce alla strada dove ci sta aspettando il taxi.
Io invece mi giro verso il casolare e posso scorgere la nonna che, intanto, alitando sul vetro della finestra, ha scritto queste parole: “E’ giusto che sia così”.
Non è passato neanche un anno da quando, invece, aveva scritto sul vetro:
“Non è giusto”.
Oggi, dopo che papà è riuscito dopo tanti anni a esprimere alla nonna tutto il suo profondo amore, ha capito che le cose stanno andando com’è giusto che vadano.
E così noi tre a Chicago, e la nonna in questo casolare, in attesa, però, che lei riesca a vincere la paura del volo e ci venga a trovare nella città del vento.
Salgo sul taxi e senza farmi vedere da papà, alito sul vetro, poi, però, non scrivo più nulla, allora penso di essere cresciuta, finalmente.
Basta messaggi sul vetro, sono grande ormai, e quando sentirò la necessità di dire qualcosa la dirò e non lo affiderò a un vetro appannato.
Il taxi parte e dietro di noi il casolare della nonna diventa sempre più piccolo, sino a scomparire del tutto.
“Non puoi rimanere neanche un giorno, figliolo?” gli chiede la nonna al papà.
“No, mamma. Lo so quello che stai pensando, che è da pazzi arrivare da Chicago e ripartire tra qualche ora ma il lavoro che stiamo portando avanti è importante ma non è importante solo per mia equipe ma per l’umanità intera. I sacrifici che ci sta imponendo questa ricerca possiamo sopportarli solo nella piena consapevolezza che il nostro impegno ci condurrà verso mete inimmaginate sino a qualche anno fa”, dice queste parole mio padre mentre scosta una sedia dal tavolo e si mette seduto.
“Vedi, mamma, io non ho preso caratterialmente né da te né da papà. Voi due, sempre così aperti e schietti, pronti sempre a dire: TI VOGLIO BENE. Di carattere sono stato sempre chiuso e adesso che siamo stati lontani per tutti questi mesi, ho sentito forte la tua assenza e tante sere sono stato assalito dalla nostalgia di te e di questi luoghi nei quali sono nato e cresciuto. Il Natale appena trascorso è stato il primo senza di te e non sai cosa avrei dato per sedermi vicino a te e per assaporare la tua polenta. Ma la vita ci impone dei sacrifici e credo che riusciamo ad accettarli solo perché ci sentiamo forti grazie all’amore di chi tiene a noi. Sei sempre stata con me, mamma, sei sempre con me, in metropolitana, mentre cammino per i viali alberati, quando pattino sul Lago Michigan ghiacciato, quando sono chiuso in laboratorio per le mie ricerche. Non credo torneremo più in Italia, ma l’idea di poterti vedere solo per alcuni giorni l’anno mi fa star male terribilmente. Perché non trascorri qualche mese da noi? In primavera, sì, mamma, in primavera, quando le brezze soffiano sull’acqua del lago oppure…vieni quando vuoi basta che ci vediamo…”.
Accidenti, mio padre che fa una dichiarazione d’amore alla nonna così palese! La lontananza da noi due credo, gli abbia fatto bene.
La nonna prende il fazzolettino a quadri dalla tasca del grembiule e dopo essersi soffiata il naso, abbraccia mio padre.
Ci sono malattie attorno alle quali si scivola spesso in luoghi comuni capaci, però, di trasformare una patologia in qualcosa di irreversibile, davanti alla quale si può solo abbassare il capo ed accettarla senza far nulla. E’ il destino al quale è andata incontro, per anni, anche l’Osteoporosi, da sempre legata, nell’immaginario comune, alla fine dell’età fertile della donna.
Per far luce su questa malattia, mi sono avvalsa della grande esperienza del Professor Luigi Sinigaglia, Medico Specialista in Reumatologia e Medicina Interna, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Reumatologia presso l’Istituto Ortopedico Gaetano Pini (Milano), presso la quale struttura riveste anche l’incarico di Direttore del Dipartimento di Reumatologia e Scienze Mediche del Centro Specialistico Ortopedico Traumatologico. Il Professor Sinigaglia è stato anche Presidente della Società Italiana dell’Osteoporosi e delle malattie metaboliche dello scheletro, attualmente è Presidente della Società Italiana di Reumatologia, autore di oltre 200 articoli su riviste Nazionali e Internazionali e Relatore a oltre 300 Congressi Nazionali ed Internazionali di argomento reumatologico.
Iniziamo dalla definizione scientifica di Osteoporosi: “L’Osteoporosi è la più frequente delle malattie dello scheletro, che determina una fragilità scheletrica per alterazioni quantitative e qualitative della massa ossea, le quali conducono alla possibilità di fratture sia per traumi minimi o anche in assenza di traumi.Le fratture osteoporotiche più frequenti interessano il radio distale, l’omero prossimale, i corpi vertebrali e, nei pazienti più anziani, il collo del femore”.
Il Professor Sinigaglia ci aiuta anche a comprendere come, benché la menopausa sia il principale fattore di rischio, esista in medicina un’Osteoporosi primaria :”Chiamata Osteoporosi primitiva, cioè non condizionata da alcuna malattia di base” ed altre dette secondarie perché legate :” A malattie che sono di natura reumatica, metabolica, endocrina, gastro-enterologica, ematologica”.
La differenziazione di questa malattia non si esaurisce tra primaria e secondaria, infatti come sottolinea il Professor Sinigaglia:”Esiste anche un gruppo di Osteoporosi geneticamente determinate. Queste forme sono solitamente precocie il loro trattamento dipende dalla identificazione della malattia di base e dalla sua terapia. Ci sono poi Osteoporosi correlate all’impiego protratto di molti farmaci che possono danneggiare lo scheletro”.
Tra i fattori di rischio, nella donna, spicca la menopausa:”Questa rappresenta un momento rilevante, in quanto coincide con la deprivazione in estrogeni. I suddetti ormoni hanno infatti un potente effetto protettivo sullo scheletro e quando cessa la produzione di estrogeni si attivano meccanismi cellulari che incrementano il riassorbimento osseo con sottrazione di minerali dallo scheletro. Lo stesso meccanismo, anche se con minore evidenza, si verifica nel maschio, quando anche gli androgeni vanno incontro ad una diminuzione con l’avanzare dell’età.”.
In conseguenza di ciò, chi va in menopausa precoce o anticipata, ha un rischio maggiore, come ci illustra il Professor Sinigaglia: “La menopausa anticipata o precoce è un potente fattore di rischio per Osteoporosi, specialmente se la menopausa è indotta da terapie mediche o dalla asportazione chirurgica delle ovaie. Queste pazienti devono essere controllate e trattate precocemente per evitare la fatale comparsa di fratture. Un’altra categoria di donne a rischio elevato è rappresentata da pazienti che sono in terapia con i cosiddetti inibitori dell’ aromatasi per un pregresso tumore al seno. Queste terapie hanno come fine quello di azzerare la produzione di estrogeni nell’organismo e queste donne, se non trattate convenientemente, sono esposte ad un elevatissimo rischio di frattura”
Eppure la fine dell’età fertile non è l’unico fattore di rischio, ma ne esistono altri, come ci dice il Professor Sinigaglia:” Lo scarso introito di Calcio con la dieta, la scarsa attività fisica, la magrezza, la familiarità, il fumo, il consumo eccessivo di alcolici, l’uso prolungato di farmaci cosiddetti “osteopenizzanti”, primi fra tutti i cortisonici”. E se la menopausa è un fattore di rischio non eliminabile, sugli altri è possibile intervenire:” La correzione di questi fattori di rischio è parte integrante di un programma di prevenzione e trattamento”, tanto che possiamo parlare, anche per questa malattia, di prevenzione:” La prevenzione dell’Osteoporosi si basa sulla correzione dei principali fattori di rischio e deve iniziare già in giovane età: dieta ricca in Calcio e attività fisica sono i capisaldi della prevenzione della fragilità scheletrica”.
L’Osteoporosi, inoltre, : “ E’ per un lungo periodo asintomatica, tanto che è stata definita una malattia dalla “epidemiologia silenziosa”. I sintomi compaiono quando intervengono le fratture e sono rappresentati da dolori, limitazione funzionale, possibili conseguenze da invalidità permanente oltre che da riduzione della aspettativa di vita”.
Proprio per questo suo essere asintomatica, è necessario arrivare ad una diagnosi prima che la paziente si trovi a dover fronteggiare le fratture, la cui incidenza aumenta in concomitanza con l’Osteoporosi: :” I pazienti affetti da tale malattia hanno un elevato rischio di frattura che a volte può intervenire anche senza un vero e proprio trauma. L’obiettivo della terapia è quello di prevenire la prima frattura o di ridurre significativamente il rischio di una frattura successiva. Tutte le fratture osteoporotiche comportano dolore, possibile invalidità e correlano con una riduzione della sopravvivenza”.
A tal proposito, il Professor Sinigaglia ci dice come si giunge ad una diagnosi di Osteoporosi:”Ci si basa su una serie di accertamenti. Intanto è necessario eseguire alcuni esami del sangue generali e relativi al metabolismo fosfo-calcico per escludere ogni altra causa di fragilità scheletrica. Nell’Osteoporosi questi esami sono solitamente negativi. L’esame che poi conferma la diagnosi è la Densitometria Ossea. L’organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito che esiste un valore soglia densitometrico al di sotto del quale è possibile porre diagnosi di Osteoporosi. Il valore è rappresentato da un indice ( il T-score) che deve essere inferiore a – 2.5 deviazioni standard ed esprime la differenza del valore che si riscontra nel nostro paziente rispetto al valore atteso nella popolazione adulta giovane dello stesso sesso. Attenzione però al fatto che un valore basso di T-score non sempre significa Osteoporosi ma può essere espressione di altre malattie in grado di determinare una fragilità dello scheletro. In altre parole la diagnosi di Osteoporosi primitiva è sempre una diagnosi di esclusione che non può essere posta senza opportuni accertamenti”.
La Densiometria Ossea, esame che conferma la diagnosi di Osteoporosi, è conosciuta con il suo acronimo MOC, Mineralometria Ossea Computerizzata : “ Il metodo migliore e più accettato è la MOC a raggi X ( nota anche come DXA). Le misurazioni possono essere attuate alla colonna lombare, Al femore prossimale o al radio distale. Nei soggetti più giovani l’esame di scelta è la MOC della colonna Lombare”.
Chiedo al Professor Sinigaglia se, una volta accertata la diagnosi di Osteoporosi, esistano delle cure:” Sì, e sono cure anche molto efficaci che possono essere iniziate anche in soggetti con Osteoporosi ma che non hanno ancora avuto fratture, a giudizio del medico. La cura è invece mandatoria in tutti i casi in cui si siano già verificate fratture da fragilità perché questi pazienti sono particolarmente a rischio di nuove fratture. Le terapie che abbiamo a disposizione sono straordinariamente efficaci. I dati dei trials registrativi dei diversi farmaci ci dicono che con queste terapie è possibile ridurre il rischio di fratture vertebrali del 70 % e di frattura del collo del femore del 40 %. Questi dati impongono una scelta terapeutica molto oculata da parte del clinico perché una terapia corretta può davvero cambiare la vita dei nostri pazienti”.
Quando si parla di Vitamina D, talvolta la si associa anche ad una cura, ma è sufficiente, se si scopre in tempo l’Osteoporosi, curarla solo con aumentato apporto della suddetta vitamina? :” La Vitamina D è un ormone prodotto dal nostro organismo( in particolare dalla cute quando viene esposta al sole) ed ha come funzione principale quella di consentire l’assorbimento intestinale del Calcio e del Fosforo. Tra i pazienti con Osteoporosi, soprattutto i più anziani, esiste una elevata prevalenza di pazienti con bassi valori circolanti di Vitamina D e questa condizione deve essere corretta, quando presente, con una suppplementazione. La terapia con Vitamina D tuttavia non cura l’Osteoporosi, ma una condizione di normovitaminosi D è essenziale perché i farmaci per l’Osteoporosi possano lavorare al meglio. Una volta che si è iniziata una cura i tempi della terapia sono necessariamente lunghi ma con alcuni farmaci , quando il paziente è del tutto uscito da una fase di rischio elevato di frattura, è possibile, con cautela, ipotizzare una “ vacanza terapeutica” tenendo però il paziente sotto stretto controllo clinico e densitometrico”.
Anche per l’Osteoporosi una dieta adeguata riveste la sua importanza: :”I consigli dietetici principali sono quelli di consumare quotidianamente alimenti che contengano adeguate quantità di calcio. In primo luogo bere latte e consumare latticini ( yogurth, formaggi freschi o parmigiano), bere acqua minerale con elevato contenuto in Calcio ( almeno 250 mg per litro) e consumare anche alimenti come broccoli e cavolfiori, pesce azzurro e frutta secca che sono ricchi in calcio”.
E mai tralasciare il movimento:” Va privilegiato l’esercizio fisico in aria ( non in acqua perchè l’assenza di gravità riduce lo stimolo sullo scheletro). Ginnastica dolce in palestra, cammino a passo spedito per almeno mezz’ora al giorno. In caso di pazienti che hanno avuto fratture il programma deve essere personalizzato e graduale, spesso è necessaria l’assistenza di un fisioterapista”.
Come per tutte le altre malattie, la diagnosi e la cura sono importanti anche per l’Osteoporosi: ” “Diagnosticare e curare adeguatamente l’Osteoporosi significa quindi in ultima analisi anche contribuire ad un allungamento della vita dei nostri pazienti”.
Ringrazio il Professor Sinigaglia per la disponibilità e la grande capacità di illustrare in maniera così eccelsa, efficace ed esauriente tutto quello che riguarda l’Osteoporosi.
“Verrò presto da te a Chicago, Ludovica, te lo prometto!”
“Non è la stessa cosa che vederti tutti i giorni, nonna. Fammi rimanere qui con te!” la supplico tra le lacrime.
“Devi stare con i tuoi genitori, come tutti gli altri bambini”
“No, non è giusto….”
Piangiamo fino a singhiozzare ma il ticchettio delle nocche di mio padre al portone mi avverte che è giunto il momento di andare via.
Ci asciughiamo le lacrime e la nonna apre.
Il papà entra, mi abbraccia forte come non aveva mai fatto e mi sussurra in un orecchio:
“Quanto ci sei mancata e quanta è stata lunga e triste la notte di Natale senza di te. Sono felice che torni con noi”.
Bastano queste parole a farmi capire che avrei dovuto ributtare indietro la richiesta che avevo pensato di fargli: rimanere al casolare con la nonna.
Non avrei mai potuto privare papà e mamma della mia presenza, e poi, forse, se fossi riuscita a convincerli di lasciarmi al casolare, la sera, quando mi sarei affacciata alla finestra della mia camera, avrei pensato a tutte quelle centinaia di luci che provengono dalla selva dei grattacieli e mi sarebbero mancati i miei genitori.
Devo partire: questa è l’unica certezza che ho nel momento stesso in cui il papà abbraccia la nonna e mi prende la valigia.
Non c’è verso di prender sonno, tanto vale alzarsi.
Mi dirigo verso lo scrittoio e, aprendo il cassetto, vedo che c’è ancora un quaderno a quadretti di scuola mai usato.
Piego più volte una pagina fino a ricavarne un quadratino piccolo sul quale scrivo:
“Spero tanto di vederla presto, signora Mila”.
Lo ripiego in due: quando tra qualche ora la nonna andrà giù in cucina e indosserà il suo grembiule, io lo metterò nella sua tasca, senza farmene accorgere: sarà il nostro arrivederci.
Mi corico nuovamente, sento di essere stanca ma la tristezza di dover lasciare di nuovo la nonna è più forte della stanchezza.
Attendo che l’alba del nuovo giorno inondi di luce la mia stanza.
Arriva così mattina, arriva così il momento dei saluti.
Sento la nonna scendere in cucina, ha il passo pesante, sembra essere diventata all’improvviso più stanca.
Mi alzo dal letto e mi vesto: tra meno di un’ora mio padre verrà a prendermi con il taxi per andare in aeroporto.
Piego il pigiama di flanella, metto in ordine il letto, prendo la valigia e vado dalla nonna.
Lei non parla mentre sta riscaldando il latte della colazione.
“Una fetta di ciambellone, Ludovica?” mi chiede la nonna.
“No, grazie ho lo stomaco chiuso”, rispondo.
Poi la nonna si mette a sedere vicino a me e mi accarezza i capelli all’indietro, come faceva anche il nonno.
“Sei stanca, non hai dormito?” mi chiede.
Io non vorrei dirglielo ma poi lo faccio, mi butto tra le sue braccia e grido tutto il mio dolore per la nostra separazione.
Se penso che nessuno dei miei nuovi compagni di classe non hanno mai provato l’ebbrezza di stare a contatto con la natura e di poter ascoltare la voce del silenzio, quasi mi viene da piangere per loro.
Chiudo la persiana, poi la finestra e mi corico nuovamente nel mio letto, ma il sonno non vuole saperne di arrivare.
Troppo forte è la nostalgia che già provo per queste settimane trascorse.
Eppure l’avevo promesso alla nonna che avrei dormito, oggi sarà una lunga giornata: mi attende l’aereo per tornare a Chicago.
La valigia è già pronta, eccola, posso scorgere la sua inconfondibile sagoma proprio lì, vicino al mio scrittoio.
I vestiti li ha messi, uno accanto all’altro, la nonna proprio ieri sera prima di scendere in cucina per la cena.
Li ha piegati e li accarezzati, quasi per ricordare, nei giorni in cui saremo lontane, la morbidezza dei miei maglioncini di lana.
Sulla sedia ci sono i miei jeans, la camicia bianca, il gilet blu, i calzini multicolori e i miei stivaletti di cuoio.
La valigia l’ho chiusa io, nonostante la nonna mi abbia detto di non farlo perché avrei poi dovuto sistemarvi dentro il pigiama di flanella che ho indosso.
Ma ho deciso: non lo poterò con me, voglio che lo tenga la nonna, voglio che almeno lui possa rimanere qui, con lei, in questo casolare.
Una serata tra amici, una cena improvvisata, ma anche una colazione alternativa o una coccola a metà pomeriggio…è sempre lei ad offrirci la sua leggiadra bontà, a deliziare palato e cuore, a regalarci quella sua capacità di farci sorridere, appena dato il primo morso: la pizza.
Conosciuta ed apprezzata sin dall’antichità, una sua diretta antenata la vede protagonista sulla tavola degli etruschi, dei greci, dei babilonesi e degli egiziani, i quali preparavano, in occasioni di eventi particolarmente importanti, una focaccia arricchita con erbe aromatiche.
E’ però con i Romani che la nostra pizza ha i legami più profondi, sia da un punto etimologico che da quello delle tradizioni: il grande Publio Virgilio Marone, l’autore dell’Eneide, in alcune sue opere parla della preparazione di un impasto, il “libum”, una sorta di focaccia di farro macinato.
Il termine pizza, inoltre, deriva dal participio passato del verbo “pinsere”, ovvero schiacciare, macinare, pestare, verbi che ancora oggi sono strettamente legati al momento della preparazione dell’impasto stesso.
E in molti, nell’antico impero romano, seguivano questo rituale per preparare il libum: s’iniziava con la macinazione dei chicchi di farro, si setacciava la farina così ottenuta, la si impastava con acqua e sale, si aggiungevano erbe aromatiche, la si lavorava sino ad ottenere una sfoglia sottile che veniva poi cotta sulle ceneri del focolare domestico.
Secoli e secoli dopo, la storia decide di fare l’occhiolino all’inventiva del popolo napoletano: è il 1889, il Re d’Italia, Umberto I è a Napoli con la consorte, la Regina Margherita. La coppia reale viene omaggiata dal miglior pizzaiolo della città, Raffaele Esposito, da tre pizze. La prima, la classica, con pomodoro e basilico, la seconda, alla marinara, con pomodoro, aglio e origano, la terza con pomodoro, mozzarella e basilico creata appositamente da Esposito per omaggiare i colori della bandiera italiana. La storia narra come la Regina Margherita, colpita dalla grande maestria del pizzaiolo napoletano, l’abbia voluto incontrare di persona per complimentarsi con lui. E Raffaele, in segno di viva ed eterna riconoscenza per questo gesto, decise di chiamare quella pizza condita con pomodoro, mozzarella e basilico, pizza Margherita, appunto, in onore della Sovrana d’Italia.
Dal 1889 la pizza Margherita è la pizza per eccellenza, la più richiesta e quella che sempre con grande piacere viene preparata nelle case degli italiani, magari nei lunghi pomeriggi invernali.
Il 2004 è stato l’anno nel quale la pizza napoletana ha ottenuto il marchio Sgt (Specialità tradizionale garantita), proprio per tutelare la modalità di lavorazione e le materie prime che devono essere usate. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’unico macchinario consentito è quello dell’impastatrice nella sola fase di preparazione, mentre i panetti e la sfoglia, che sarà lavorata a disco, dovranno conoscere solo la mano dell’uomo. La cottura dovrà avvenire a forno a legna, ad una temperatura di 485° e la durata sarà compresa tra i 60 e i 90 secondi.
Gli ingredienti per la pizza a marchio Sgt, invece, saranno pomodori pelati o pomodorini freschi, olio extravergine di oliva, aglio, origano, per la Marinara , mozzarella di bufala campana DOP, basilico fresco e mozzarella Sgt per la Margherita.
La pizza: un alimento che affonda le sue radici nella storia dell’uomo e che ancora oggi è capace di scaldarci il cuore.
Dovrò attendere un altro anno prima d’incontrarla nuovamente…ce lo siamo confidate proprio ieri sera: il gioco di Mila e Pila funziona bene solo se siamo noi due, tra queste colline.
L’unico pensiero che mi consola è che la nonna mi ha promesso di venirmi a trovare, durante l’anno che è appena iniziato.
Certo, non sarà la stessa cosa che stare qui, davanti al camino, ma comunque l’importante è non dover attendere un altro anno prima di poterla riabbracciare nuovamente.
Intanto sono qui, in piedi davanti alla finestra aperta, e guardo le stelle…le stelle…sembra così strano che possano essere le stesse che ci sono anche a Chicago.
Non mi è mancata per niente la mia nuova città adottiva e nonostante mio padre e mia madre non hanno perso occasione di dirmi, ogniqualvolta ci siamo sentiti, durante queste settimane per telefono, quanto fosse spettacolare il Lago Michigan ghiacciato, io non ne ho sentito la nostalgia.
Si può sentire nostalgia di qualcosa che non si ama?
Credo proprio di no.
Possiamo avvertire la mancanza di ciò che sentiamo parte di noi, e questa lontananza ci può condurre per mano quasi fino a un dolore fisico, come quello che provo tutte le sere quando a farmi compagnia, dalla grande vetrata del soggiorno della nostra casa di Chicago, sono quelle centinaia di luci che corrispondono ciascuno a una stanza, a una persona, a una vita, costretta a muoversi tra metropolitane e traffico impazzito.
Sono le 2:43 del 2 gennaio, mi sto girando nel letto che sembro un pollo allo spiedo.
Non riesco a prender sonno.
A nulla è valsa la sempre deliziosa camomilla con il miele preparata dalla nonna, così come non mi è servito per niente contare tutte le pecore che pascolano nelle nostre campagne.
Mi agito tra le lenzuola come quelle anguille che durante il periodo natalizio si muovono, l’una sull’altra, in quelle vasche di plastica, pronte a venir prelevate dal retino del pescivendolo.
Non riesco letteralmente a chiudere occhio, eppure sono stanca, e sino a quando sono stata in cucina con la nonna avevo anche sonno, tanto che gli occhi mi si sono chiusi più volte mentre aiutavo la mia Mila a mettere tutto in ordine.
Prima sì, ma non adesso, non riesco ad addormentarmi sapendo che questa è l’ultima notte che trascorrerò in questo letto, perché domani…domani sarò di nuovo in terra americana.
Mi alzo dal letto, anche perché capisco che è del tutto inutile continuare a fare la lotta con il cuscino e con il piumone.
Apro, cercando di fare meno rumore possibile, prima la finestra e poi la persiana e mi affaccio sulla nostra vallata.
Il freddo della notte sembra venirmi incontro, mi abbraccia e vorrei che quella notte non finisse mai.
Se potessi farlo, impedirei al sole di alzarsi in cielo tra qualche ora, lui non lo sa ma i suoi raggi significano per me dover abbandonare questo casolare ma soprattutto mia nonna e la mia amatissima signora Mila.