La giornata mia e della mamma iniziava presto al mattino, per venire a darti la colazione in ospedale e finiva tardi… poi c’era la notte, che sembrava pesare come un macigno, che sembrava interminabile, angosciante, carica di presagi perché avevamo il timore che proprio all’alba arrivasse quella telefonata dall’ospedale.
Una sera, uscii fuori il balcone del piano superiore: del vento passò tra le chiome folte e verdissime dei pini, allora chiusi gli occhi e mi feci coccolare da quel fruscio inconfondibile che tanto piaceva assaporare anche a te, nonno. In quell’ondeggiare di fronde rividi i nostri ricordi più belli, i momenti trascorsi a parlare di storia nel corridoio, le nostre risate.
All’improvviso mi ricordai di quell’altalena che avevi ingegnosamente fissato sul balcone di casa. Ricordi, nonno, come la chiamavo io l’altalena? Si, proprio così: pittatata. L’avevo coniata così quella corda gialla intrecciata e fissata con due ganci ad un segmento di ferro e con il pianale di legno chiaro. Quel nome strano, pittatata appunto, da piccola mi evocava libertà, vento che accarezzava i capelli, gioia nello stare lì, in quella casa, in quel giardino, su quel balcone, vicino a te. Tentasti varie volte di correggermi, di insegnarmi che quella si chiamava altalena, scandendo bene ogni singola sillaba ma poi demordesti anche tu di fronte alla mia ostinazione di chiamarla così, a modo mio.
Adoravo da piccola coniare nuovi termini, tanto che tu eri diventato nonno Maccano e non Pasquale, una macchina uguale alla tua era agaca agaca a Maccano, ovvero uguale uguale a Pasquale, io ero Iaia, ma la mia fantasia toccò l’apice quando personalizzai la pubblicità di un famoso detersivo in grado di regalare un bianco imbattibile: Mattuenno paito, ovvero due parole strampalate che significavano il massimo grado del pulito.
Ricordo ancora le innumerevoli volte in cui tu, nonno, seduto sulla sedia della cucina, poggiavi una mano sulla fronte e cominciavi, con carta e penna, a scomporre quelle frasi coniate da me per tentare di capire da dove potessero scaturire. Allora scomponevi pazientemente la parola esatta e quella creata da me, le avvicinavi, ci riflettevi un po’ su e poi desistevi dal tentativo, perché io ero troppo testarda ed orgogliosa di quella lingua tutta mia che nessuno riusciva né a parlare né a capire.