42° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Lo ricordo ancora chiaramente, sì, lo ricordo, e non potrei non farlo…fu un istante e quasi senza accorgermene, tu, nonno, mi prendesti per il polso come facevi quando ero piccola, fino a condurmi davanti alla finestra della tua stanza da letto.

Non dicesti nulla, ti limitasti ad indicare fuori le piantine di pomodoro che avevano conosciuto, proprio in quei giorni di un caldo quasi estivo, una crescita miracolosa: i pomodori erano appena accennati ma sarebbero diventati grandi e rossi. Anche quando sembra non ci sia più un motivo per continuare, qualcosa ti ricorda che gli altri hanno bisogno di te per andare avanti, per crescere e fiorire. E allora sì che la speranza diventa un dovere morale. Sembrava tutto così normale lì fuori nell’orto, sembrava essere nient’altro che una calda giornata di maggio: le piantine, che di giorno in giorno stavano diventando sempre più forti, nulla potevano presagire di quello che di lì a due mesi sarebbe accaduto in quella casa, la natura faceva il suo normale corso, tutto scorreva ed andava avanti, il fiore di zucca stava già timidamente ergendosi sullo stelo spinoso, così come i pomodori aspettavano impazienti il sole di luglio e di agosto, per poter regalare a tutti il loro profumo, il loro sapore.

Leggesti, nonno, nel mio sguardo, il profondo stato di disagio nel quale mi trovavo e mi lasciasti andare, staccasti la tua dolce presa dal mio polso e senza girarti, mi permettesti di allontanarmi da te, da te che eri ancora affacciato al davanzale. Corsi su per le scale, poi però scesi subito di nuovo per andare in giardino a vedere se dall’orto riuscivo a scorgere la tua figura affacciata alla camera da letto. No, non c’eri già più, gli scuri appannati mi avvertivano del fatto che, nonostante fossero appena le undici del mattino e ti fossi alzato dal letto se non poche ore prima, il tuo fisico, ormai stanco, aveva già richiesto altro riposo. Tornai allora di corsa al piano superiore.

E mentre salivo i gradini, riflettei sul fatto che c’è un tempo per tutte le cose, esiste un tempo per vivere, uno per lottare, uno per sperare, uno per rinunciare. Ero pienamente consapevole che stavi attraversando quest’ultima fase del percorso della tua vita terrena. Dopo pranzo scesi nuovamente da te, ma la nonna mi informò prontamente del fatto che stavi ancora dormendo, che non ti eri alzato nemmeno per mangiare e che chiedevi solo dell’acqua perché lamentavi una certa secchezza delle fauci, ma non la bevevi tutta l’acqua del bicchiere, ti limitavi a bagnarti le labbra.

La nonna mentre mi raccontava quest’ultima dolorosissima novità, cominciò a piangere come faceva lei, con la bocca che tremava e con le mani che giravano nervosamente quel piccolo fazzoletto rosso inglese che in inverno era solita nascondere nella manica del vestito di flanella. Cominciò a dire che non era più tanto sicura che saresti guarito, anzi, che forse tra non molto ci avresti lasciato. Poi, appena pronunciate queste parole che sembravano crude e vere come una confessione, si sentì quasi in colpa per averle pronunciate e allora replicò a se stessa ammettendo, candidamente, che forse avevi solo del mal di gola, che eri stanco perché si era passato, quell’anno, troppo velocemente dal freddo al caldo, che saresti stato meglio e poi… e poi che tra dodici giorni sarebbe stato il tuo onomastico.

41° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Fu davvero un pomeriggio speciale, nonno, quello trascorso nella quiete magica del tuo studio, baciato dai tiepidi raggi di sole ed abbracciato dalla brezza che faceva gonfiare la leggera tenda di lino bianca che tu amavi scostare spesso dai vetri, per poter ammirare il petto d’angelo, l’elegante e raffinato arbusto che avevi piantato tanti anni prima.

Dopo aver concluso ilnostro lavoro che mi aveva consentito di imparare a memoria l’intera poesia da recitare il giorno successivo a scuola, rimanemmo nella stanza dai marmi rosa e bianchi ancora per un po’, rapiti da quella luce che ho visto solo nelle nostre case, nonno. Ancora oggi mi succede di poterla godere, nel grande soggiorno al piano superiore, nella cucina che si affaccia sul giardino, nel tuo studio, nel salone con il divano in pelle e legno, nella camera da pranzo con l’imponente lampadario di cristallo.

Ho visitato molte case, nonno, ma in nessuna sono riuscita mai a captare quell’inclinazione particolare della luce che entra nelle nostre stanze: è un fascio che entra di traverso e che va a posarsi sull’angolo del tavolo di noce, sulla sedia di paglia, sull’anta della libreria, sulla chiave della credenza.

Entra prepotentemente e gentilmente si adagia sul pavimento, sul mobilio, sulla cornice di un quadro e rimane lì, quasi a voler godere anch’essa di quell’armonia, di quella serenità che, nonostante tutti gli avvenimenti, ancora regna nella nostra casa. Questa luce un po’ speciale è da mezzo secolo l’ospite non invitata ma molto gradita delle nostre giornate, delle nostre mattine trascorse in cucina a preparare il pranzo, dei nostri pomeriggi passati a lucidare l’argenteria.

È la stessa luce che s’incunea tra i rami del limone e va a adagiarsi sulla palma, è la stessa luce della quale andavo alla ricerca per tutta casa quando ero bambina, nei caldi pomeriggi d’estate. Tutto è cambiato, nonno, e tu ben lo sai. Eppure, io continuo ad amare quella luce che sembra riportarmi indietro alle nostre giornate felici.

È quasi inspiegabile, nonno, questa continuità delle sensazioni che provo, questo esserci nella vostra assenza che pesa sino, delle volte, a diventare insopportabile. E proprio nel momento in cui ci si lascia afferrare dalla disperazione, nessuno di noi ne cade vittima, perché, all’improvviso, viene quella mano dal cielo in aiuto, proprio come nella poesia de ”Il Cinque Maggio”. E allora tutto quello che è rimasto, rivive vivificato dal ricordo di te e di chi non c’è più, e quella stessa luce che entra ancora nelle nostre case, ci dona sollievo e ci induce a pensare che è la stessa che anche voi potete vedere da lassù. Siamo un po’ tutti Napoleone nel corso della nostra vita, eppure la speranza è un obbligo, se si decide di non soccombere, di continuare a vivere, non a sopravvivere, ma a vivere, nella speranza e nella gioia.

40° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Sì, ci regalammo un pezzo della mia infanzia, quel mattino, quando tornammo indietro con la mente a quel 5 maggio 1984…ricordi, nonno, io, dopo essere rientrata da scuola, mi precipitai nel tuo studio dicendoti che avrei dovuto imparare a memoria, per il giorno successivo, l’intera poesia del Manzoni, accompagnata anche da una serie di considerazioni personali.

Continuavo a camminare nervosamente per l’elegante studio con a terra i marmi rosa e bianchi. Tu mi seguivi con lo sguardo sino a quando mi invitasti a tornare giù da te e dalla nonna per mangiare le fettuccine con i ceci che tanto mi piacevano, poi, dopo pranzo, ci saremmo messi a studiare insieme la poesia nello studio dominato da quel bellissimo arbusto che ancora arricchisce di verde e di fiori candidi le mie giornate di scrittura.

Così feci, ma anche quel prelibato primo piatto preparato dalla nonna sembrava privo di sapore perché la mia mente era lì, adagiata su quei fogli di quaderno zeppi di parole da imparare a memoria. Quel giorno fu veramente un giorno particolare perché, per placare la mia preoccupazione di bambina, rinunciasti persino al tuo sonnellino pomeridiano. Non mangiammo neanche il secondo io e te, ma ci precipitammo nello studio ad aprire quel quaderno minaccioso.

Tu mi invitasti a leggere la poesia per intero, facendo attenzione ad ogni singola parola e dando la giusta intonazione. Feci quello che mi dicesti di fare, senza polemiche o senza dubbi, perché i tuoi consigli avevano sempre dato buoni frutti, a noi tutti bastava seguirli e tutte le paure, tutte le preoccupazioni, sembravano svanire di fronte a quella sicurezza che tu riuscivi ad infondere nell’animo di tutti. Cominciai a leggere ad alta voce, le parole che uscivano dalla mia bocca stavano prendendo forma e, mentre la lettura della poesia procedeva, la mia fantasia costruiva un percorso parallelo, fatto di immagini mute che accompagnavano quelle parole scritte con la penna blu. Sembrava di vederlo Napoleone, prima vittorioso e spavaldo, poi solo e disperato nell’Isola di Sant’Elena, in esilio.

La poesia mi stava piacendo, sembrava essere un’altra ode rispetto a quella che avevamo letto in classe, tra le proteste dei miei compagni e l’irremovibilità della maestra, la quale continuava a ripetere che il giorno successivo avrebbe interrogato tutti, non ammettendo nessuna giustificazione. Io alzavo di tanto in tanto la testa da quel quaderno e ti vedevo assorto, talvolta chiudevi gli occhi per assaporare ogni singola parola, eri un uomo eccezionale, nonno, capace di provare un’emozione anche di fronte ad una poesia che tu sapevi a memoria. In questo sta la grandezza di una persona, solevi ripetermi spesso: nella capacità di essere leali di fronte ai bisogni del proprio animo, coerenti e fedeli verso ciò di cui la nostra mente ha bisogno per sentirsi viva, libera e felice. Scontato emozionarsi di fronte ad un paesaggio mozzafiato, ad un’opera d’arte che si ammira per la prima volta, difficile far rivivere quell’emozione ogni qualvolta si guardi quel paesaggio o quel quadro. In questo risiede la vera felicità, quella che ci rapisce e ci porta lontano, al di sopra della meschinità, della falsità, della retorica, delle frasi dette e non pensate, dei pensieri pensati e non detti. Questo significa amare, ma amare per davvero, senza infingimenti o condizioni di comodo, senza secondi fini, senza pensare che una nostra azione debba necessariamente essere seguita da un’altra simile, compiuta dalla persona alla quale l’abbiamo donata liberamente e con gioia. Ecco, tu eri così, nonno: il tuo animo era puro, talmente puro da emozionarsi all’ascolto di una poesia che conoscevi sin dai tempi delle elementari.

39° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Era la mattina del 5 maggio, e tu, affacciandoti dalla finestra della camera mi chiamasti, pregandomi di scendere giù da te. Mi precipitai per le scale e mille pensieri affollarono la mia mente, le mani erano tremanti e sudate, la testa sembrava di piombo, nulla faceva presagire che quel tuo invito mattutino potesse essere, nonostante la tua malattia ormai avanzata, così straordinariamente piacevole.

La prima, inaspettata, sorpresa l’ebbi quando ti vidi seduto sulla poltroncina di pelle marrone del corridoio e non sdraiato nel tuo letto. Mi regalasti un’immagine serena di te, impaziente com’eri di iniziare un altro giorno con me. La porta-finestra era già aperta e proprio nel momento in cui la spalancai, mi accogliesti con un sorriso, invitandomi a prendere posto sull’altra poltroncina di pelle, felice ed orgogliosa testimone di tante nostre chiacchierate.

Dunque era il 5 maggio, possibile mai che questa data non mi suggerisse niente? Passai rapidamente in rassegna tutti i compleanni, tutti gli onomastici, tutti gli anniversari, tutte le date più importanti e rilevanti per la nostra famiglia, ma nessun evento particolare era datato 5 maggio.

Tu intanto, di fronte al mio imbarazzo crescente, sorridevi bonariamente fino a quando, dopo l’infruttuosa attesa, pronunciasti il nome di Alessandro Manzoni. Ma certo, Manzoni, Il Cinque Maggio, la poesia che parlava di Napoleone! Come non pensarci prima! Mi sorprendesti una volta di più quel giorno perché, nonostante la tua malattia avesse reso insicuri i passi e il respiro affannoso, la tua mente era ancora lì, con me, tra i libri che tanto amavi ancora sfogliare, con le date storiche, con gli avvenimenti più importanti della storia dell’uomo, con la voglia di ricordare, di recitare a memoria la famosa poesia del Manzoni, di essere vivo e presente con la mente, con l’anima, nonostante il tuo corpo affermasse il contrario.

Tu eri ancora qui, con me, la tua voce meno stentorea ma vibrante, in grado ancora di dare un significato alle parole dell’ode, regalandogli un’intonazione diversa a seconda del contenuto. Avvenne un fatto straordinario: la forza travolgente della cultura, la bellezza incomparabile del sapere vinsero, quel mattino, sulla tua malattia.

Non c’era più nulla della tua sofferenza: la cosa che avrei ricordato per sempre, di quel 5 maggio 2001, sarebbe stata quella poesia recitata all’unisono e quella lezione di vita che ne scaturì. Credo che lo facesti anche tu, quel giorno, il gioco di annullare una dimensione spaziale fatta di dolore e sofferenza, perché la pelle del tuo viso era tornata distesa, il tuo sorriso pieno e schietto, i tuoi occhi con le pagliuzze d’oro.

38° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Poi, nonno, tu mi dicesti che avresti voluto riposare un pò, io allora accostai gli scuri delle finestre, ti sistemai le lenzuola sulle gambe, ti aiutai a mettere per bene il cuscino sotto la tua testa, tu mi stringesti la mano, ma prima di chiudere l’uscio dietro di me, mi chiamasti per lanciarmi il bacio con le dita unite come per consolarmi della tua sofferenza, come per dirmi di andare avanti.

Fuori la camera da letto ad aspettarmi c’erano la mamma e la nonna entrambe preoccupate, entrambe con gli occhi gonfi di lacrime trattenute a stento. Loro avrebbero voluto chiedere ma non lo fecero, io avrei voluto consolarle ma non lo feci, tu avresti voluto rimanere con noi, con le tue donne, come amavi chiamarci sempre, ma non potevi.

La vita è proprio questo camminare come funamboli sul filo di un’emozione, per poi rimanere lì, immobili, senza muoversi, senza riuscire a prendere una decisione: camminare o cadere giù.

Allora si decide di rimanere fissi ad osservare quel punto quasi a voler fermare il tempo, quasi ad aspettare che qualcun altro venga in nostro aiuto e prenda una decisione anche per noi. Invece non è mai così, siamo sempre e solo noi gli unici artefici del nostro destino, unici responsabili delle nostre decisioni. Io mi limitai a dire alla mamma e alla nonna che, nonostante tutto, eri consapevole e sereno. Di cosa, lo sapevamo tutte e tre. La nonna andò in cucina e tentò di preparare la cena. Aveva comprato due mozzarelle di bufala…due nonno, una per lei e una per te, pur sapendo che non avresti cenato, pur sapendo che ti avrebbe trovato nel vostro letto, pur sapendo che avrebbe dovuto apparecchiare per una sola persona.

Tutto sembrava, in quei giorni, così difficile… ma poi ritornò alla mente quella tua frase: “Sursum corda”, che in latino significa “In alto i cuori”. E allora tornò il coraggio di riprendere in mano la nostra vita.

37° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Nella fretta di correre da te, nonno, inciampai nel lembo del tappeto, sbattendo violentemente le ginocchia a terra e tu, sempre con infinito amore, mi chiedesti se mi fossi fatta male ed io, con le ginocchia rosse, minimizzai l’accaduto. Fu allora che, dopo esserti messo seduto sul bordo del letto e aver sorseggiato la tua acqua minerale, cominciasti a ricordare, a voce alta, quel mio piccolo indicente con la bicicletta di tanti e tanti anni prima.

Ebbi modi di constatare quanto fosse ancora viva la tua memoria e quanto fosse per te importante ricordare perché la memoria, amavi dire spesso, ci permette di riconoscere un pericolo e di schivarlo: essa non è solo la custode del nostro passato ma anche la sentinella del nostro futuro, la memoria può farci ricordare con la stessa intensità momenti spiacevoli ed altri bellissimi, ma poi sono sempre questi ultimi a darci la forza per non farci trascinare via dalla disperazione. Dunque, tu cominciasti a raccontare di quel piccolo incidente e della mia prima bicicletta che avevo ricevuto senza dover faticare molto, perché, nella nostra famiglia, da sempre, tutti ne avevano avuta una e ciascuno l’aveva amata come fosse stata un’amica, una fedele compagna.

Non poteva essere altrimenti, visto che eri stato proprio tu, nonno, ad infonderci la passione per le due ruote, le stesse che ti avevano condotto al lavoro per 40 anni. La bicicletta era un’altra cosa, solevi dirci con gli occhi sognanti… la bicicletta non è solo un mezzo di locomozione, è libertà, è assaporare la fatica di una salita ed il gusto di una discesa, è il vento nei capelli, è la camicia che si riempie d’aria, è il foulard che svolazza, è come dovrebbe essere la vita: semplice e lieve.

Poi ecco il ricordo che serbavi ancora nella mente: l’immagine di me, piangente a terra, con il ginocchio sanguinante a causa della caduta su dei sampietrini appuntiti che stavano sistemando lungo la strada. Tutto si risolse con un mio fragoroso pianto ma per fortuna non ci fu bisogno neanche dei punti.

Nell’istante stesso in cui stavi ricordando l’accaduto di tanti anni fa, nonno, sembrava non esistesse più nulla: la tua malattia, le mie lacrime notturne, le incognite del futuro e io ero di nuovo bambina, e tu il mio nonno forte, l’uomo che infondeva coraggio e fiducia, l’instancabile Cavaliere che non conosceva sosta…allora pensai che eri ancora tu e sempre tu, nonostante il vigore fisico non sarebbe stato più fedele compagno dei tuoi giorni. Ma eri ancora tu, sì, tu con il tuo amore, con il tuo modo di parlare e di farci vedere sempre il meglio delle cose.

36° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Un pomeriggio, nonno, uno dei tanti di quella primavera del 2001, mi trovavo nell’ingresso della tua casa, in attesa che la nonna tornasse dalla spesa quotidiana. Tutto si consumò in un attimo: un bagliore fortissimo, una luce pura, limpidissima, splendente come non mai, entrò dalla vetrata sovrastante il portone in legno dell’ingresso.

E fu così, nonno, che all’improvviso, mi ricordai di quel racconto narrato sempre a metà, sempre sottovoce: riguardava tua madre, nonno, la tua amatissima mamma e del giorno in cui ti lasciò per sempre. Dicesti che quel pomeriggio tuo padre, presagendo la fine ormai prossima della moglie, ti lasciò nell’ingresso di casa, che un po’ somigliava a quello che tu avresti poi fatto costruire nella tua abitazione, ti fece sedere su una poltroncina e mentre tu potevi solo assistere, mesto ed impotente, al via vai di medici e parenti, all’improvviso entrò una luce fortissima dalla vetrata colorata, era un bagliore strano, indescrivibile.

Ti affacciasti fuori al balcone per vedere se potesse provenire dall’esterno ma ciò era impossibile, essendo una triste giornata di pioggia, uggiosa e grigia. Dopo qualche minuto, tuo padre dovette darti la triste notizia, la notizia che nessun bambino di sei anni dovrebbe mai ricevere. Quel bagliore, nel tuo immaginario infantile, lo ricollegasti all’anima tua adorata mamma: pensasti che quella luce era la luce divina che la stava chiamando a sé e che tutti i Santi fossero scesi in quel momento sulla vostra casa per accompagnare la tua adorata mamma. Pensieri da bambino, pensieri dettati dalla consapevolezza che una persona così speciale come tua madre, meritava che tutti la portassero in trionfo, mentre si avviava verso l’ingresso del Paradiso.

Non so, nonno, se quella luce che entrò nell’ingresso della tua casa quel giorno di tanti anni prima era simile a quella che vidi io quel pomeriggio…so solo che anche in quel momento il tempo era uggioso, piovoso, mesto…ebbi paura di perderti ma poi sentii la tua voce che arrivava dalla tua camera e che mi stava chiamando.

35° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Nonostante la mia ferrea volontà di regalarti un giorno di festa, nonno, quel 1° maggio fallii miseramente nel mio tentativo. Tutto terminò con quel pane fragrante spezzato e lasciato lì, sulla tovaglia che sembrava, all’improvviso, aver perso tutti i suoi colori.

Ti accompagnai in casa, e tu, mestamente, ti dirigesti verso la tua camera. Andai in cucina e sfogliai il calendario e sapevo, ormai, che in un giorno qualsiasi mi avresti lasciato. Era certa solo di una cosa, nonno: ti avevo amato moltissimo, sin da bambina, e continuavo a farlo, ecco perché il mio dolore, quel 1° maggio 2001, sembrava essere un abisso nel quale mi trovavo, senza più aria, senza più luce, senza più speranza.

Tu riuscisti a leggere nei miei pensieri e proprio in quel momento mi dicesti che avrei dovuto continuare a scrivere, sempre, che non avrei mai dovuto smettere di farlo. Ma scrivere con il cuore, scrivere parole vere, scrivere di sentimenti e di sorrisi, di risate e di dolore, di inquietudine e di gioia, di pienezza e di solitudine. Capii che non ti riferivi al mio lavoro da giornalista ma non riuscii a comprendere quello che tu intendevi. Solo adesso, nonno, solo ora che sto seduta davanti al computer e racconto di noi e parlo di te, solo nel momento in cui sul terminale appare quella lineetta nera che lampeggia ad intermittenza, invitandomi a far scorrere le mie dita sui tasti, capisco cosa significa scrivere. Non l’ho mai fatto prima d’ora, con quella intensità che solo l’anima può regalare, con quella forza che solo i sentimenti veri sanno offrire, con quel desiderio di far partecipe gli altri della nostra storia, del nostro amore, che non è andato via e che sento ancora sulla mia pelle, che leggo nei miei occhi, soprattutto quando, seppur orami molto raramente, mi sento abbandonata dalla speranza, quella stessa speranza che tu mi hai intimato, sino all’ultimo, di non perdere mai, perché la vita stessa è speranza.

34° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Ti eri subito innamorato di questa terra, nonostante fosse brulla e spoglia, eppure pensasti che sotto le tua mani avrebbe ripreso a vivere, a dare i suoi frutti. Così avvenne. La tua determinazione vinse anche quella volta, cominciasti a prenderti cura di tutti quegli alberi e in breve tempo il pero, il melo, il nespolo, il fico, il pesco, il susino, il ciliegio ma anche la vite e le piantine, che di volta in volta mettevi a dimora a seconda della stagione, sbocciarono come per miracolo, divenendo forti e portando sempre grandi quantità di frutta. Eri riuscito a diventare un loro amico, si erano subito affezionate alle tua mani, alla tua presenza, al tuo modo di raccogliere dai loro rami i frutti. L’amore profuso verso quegli alberi e quelle piante era contenuto negli ortaggi e nei frutti che orgogliosamente portavi a casa ogni giorno.

D’estate andavi via anche alle cinque e mezza del mattino e tornavi intorno alle dieci. Poi tu arrivavi con la tua macchina, acquistata qualche mese prima della mia nascita. Sbucavi dalla stradina a sinistra e ti fermavi sotto casa. Scendevi rosso in viso, con gli stivali di gomma sporchi di terra e la maniche arrotolate della camicia, il cappello di paglia in testa, aprivi il cancello del garage e vi posizionavi sotto dei fermi in legno. Salivi nuovamente nell’auto, inserivi la marcia indietro e sterzando tutto verso sinistra ti inabissavi nel garage. Ogni giorno era una sorpresa: già, perché nel portabagagli c’era sempre qualcosa di nuovo, specie d’estate. La nonna ti veniva a dare una mano nel portare sopra casa le cassette di legno, nelle quali sistemavi i frutti mentre io mi limitavo a sbirciare cosa ci fosse dentro. Sistemati gli attrezzi da lavoro in cantina, salivi anche tu con la nonna in casa e cercavi di mettere quei preziosi doni della campagna nelle fruttiere di vetro. Qualcosa però finiva nel frigorifero, perché sarebbe stato impossibile, per noi, riuscire a mangiare tutta quella frutta. La nonna spesso si lamentava per quella pacifica invasione di pesche e susine, prugne ed albicocche, uva e fichi ma la terra stava dando i suoi frutti e noi certo non potevano lasciarli indietro. Era necessario celebrarla tutta quella ricchezza ed era proprio la nonna la più golosa di quella frutta colorata e saporita. Tu e la campagna: un binomio vincente ma mai scontato, un rapporto vero, forte, tenace, sanguigno: tu, padrone e amico di quegli alberi che non tardavano mai a regalarti, quasi in segno di ringraziamento, quei frutti così saporiti.

33° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Intanto, anche il mese di aprile ci stava lasciando e maggio ti avrebbe regalato le ultime calde giornate di sole, un sole benevolo per quelle piantine dell’orto che stavano rigogliosamente crescendo grazie alle mie cure. Anche il 1° maggio, così come avevo fatto per il mattino di Pasqua e di Pasquetta, decisi di trascorrerlo con te.

Quel giorno ti trovai seduto in cucina, indeciso se mangiare o meno quelle fettine di pane colorite da un sottilissimo velo di marmellata. Non avevi molta voglia di fare colazione, tanto che fui costretta a registrare come la tua perdita di appetito fosse diventata costante e stava, anzi, aumentando ogni giorno di più. Cercai di non farti pesare ciò e ti invitai ad uscire in giardino con me: avremmo ricreato fuori, tra gli alberi e le piante, quell’atmosfera gioiosa che molte persone avrebbero vissuto in quel giorno di sole, seduti sui plaid, stesi sull’erba o in spiaggia in riva al mare.

Noi ci saremmo sistemati sulla nostra panchina e sarei andata a prendere il tavolo pieghevole di legno nel ripostiglio di casa. La tovaglia da stendervi sopra doveva intonarsi con la giornata, nessuna tovaglia di lino ricamato, dunque, né di fiandra, ma una bella colorata, sullo scozzese, come quella che avevo regalato alla nonna qualche anno prima, in occasione del Natale. Sarei andata a comprare delle fave e del buon pecorino romano proprio nel negozio dove abitualmente ti servivi tu. Sarei poi scesa in cantina a prendere una bottiglia di vino, magari invecchiata, perché quel giorno doveva essere speciale.

Ti ubriacai di parole, di sorrisi, di progetti, d’ottimismo e tu, di fronte al mio entusiasmo, non riuscisti a tirarti indietro. Allora rimanesti lì, seduto sulla nostra panchina, ad assistere al mio buffo andirivieni con il tavolino, la tovaglia, i piatti, i bicchieri, le fave, il formaggio, il pane fresco, il vino, il tuo vino. Invitammo anche gli altri a partecipare alla nostra celebrazione del 1° maggio ma rifiutarono l’invito perché vollero regalarci una giornata solo per noi.

Mi assentai per mezz’ora, giusto il tempo necessario per andare a comprare la pagnotta di pane cotto a legna, fragrante e profumata, il pecorino saporito, le fave fresche di campo. Apparecchiammo il nostro tavolino che prese un po’ di colore e vivacità grazie a quella tovaglia a quadri e vi sistemammo sopra i piatti, le forchette, i coltelli, il mio bicchiere, la tua fedele brocca in vetro. Cominciammo a prendere dalla busta di plastica color carta da zucchero, le fave e mentre le sgusciavi portandone alla bocca i semi, un velo di tristezza transitò per qualche secondo nei tuoi occhi: guardare questi ortaggi e pensare che la tua campagna era rimasta lì, da sola, senza che nessuno si prendesse più cura di lei, ti dispiaceva molto. Allora fu invitabile che il discorso scivolò su quella distesa di terra che ti aveva visto, per 20 anni, suo amico fedele.