12° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Il giorno successivo il medico ci comunicò che le tue condizioni di salute erano incompatibili con un possibile intervento, continuò dicendo che avevi già firmato per uscire dall’ospedale.

Mi precipitai in reparto, tu non c’eri già più, un’infermiera mi disse che ci stavi aspettando all’ingresso.

Eccoti lì, vicino ai tuoi piedi la valigia di pelle color nocciola e la borsa grigia, l’impermeabile piegato sul braccio e negli occhi il desiderio di tornare a casa ma anche la consapevolezza che quella sarebbe stata l’ultima tua lotta. Presi le tue valigie, ti mettesti sotto braccio a me e, prima di scendere le scalette che ci avrebbero condotto verso la macchina, mi facesti promettere che qualsiasi cosa fosse potuta accadere, l’ultima immagine che avresti voluto portato via, sarebbe stata quella del maestoso nespolo e dell’albero di limoni carico di quegli agrumi profumati. Io non ti risposi subito, perché erano troppo forti, per me, le parole che stavi pronunciando: stavano aprendo una voragine nel mio animo e spaccando il mio cuore.

Per me, sin da bambina, eri immortale, nonno…senza età, senza tempo, senza una dimensione spaziale che potesse racchiuderti o circoscriverti.

Non ce la feci più a sentire parlare di queste cose e scoppiai in un pianto dirotto, tu, allora, mi accarezzasti i capelli e mi consolasti del fatto che non avevi né paura di soffrire, né timore di andartene, l’unica cosa che ti dispiaceva lasciare di questo mondo era il sorriso delle persone che più amavi. Mi facesti promettere che, in qualsiasi momento mi avresti abbandonato, io sarei andata avanti per la mia strada, che tu intravedevi lunga, ricca di soddisfazioni e di successi professionali.

Furono queste parole a farmi capire quanto era stato profondo ed unico il nostro legame: “Sai quanto ti ho amato e quanto ti amerò, anche quando non ci sarò più, se avrai bisogno di me tu mi sentirai: io sarò il vento che fa sbattere le finestre, la pioggia che cade sul nostro prato, il sole che bacia le piante del giardino, la notte che cala sulla nostra casa, l’onda che ti sorprende sulla diga, la sabbia che ti entrerà nelle scarpe, il libro che sfoglierai ma, soprattutto, quello che scriverai”.

Misi la mia mano sulla tua bocca, come quel gesto che facevo da bambina quando tu parlavi di cose a me non gradite, come a dire: “Basta, nonno, basta così. Ho capito, la tua morte è vicina, lo sai tu, così come lo sento io. L’abbiamo compreso entrambi lo scorso Natale, quando non ti ho lasciato neanche per un attimo la mano mentre le portate sfilavano sulla tavola.

Basta, nonno, sì te lo prometto, quando verrà quel giorno in cui ti riconoscerò nel vento che fa sbattere le finestre, nella pioggia che cade, nelle onde del mare e nella sabbia, scriverò quel libro che mi hai chiesto di scrivere, e parlerà di me e di te, di te che non ci sei più ma continui a vivere dentro di me e di me, di una nipote che non si stancherà mai di cercarti tra le pieghe dei ricordi, in una mareggiata d’inverno o in una pianta che regala i suoi frutti”.

11° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Ti chiesi cosa ti avessero dato da mangiare e tu indicasti con un gesto rapido del mento delle vaschette di plastica sigillate che avevi poggiato sul comodino, sull’etichetta bianca era riportato il contenuto: pasta al pomodoro, verdure e carne lessa, pera cotta. Non avevi sollevato neanche un lembo di quella plastica, non avevi neanche voluto sentire l’odore di quel pasto ospedaliero perché, per te, l’importante era stato sempre non cosa mangiare ma con chi mangiarlo.

E tu, di pranzare con il pigiama a righe, seduto su di un lettino che non era il tuo, portare alla bocca anonime forchette di plastica e consumare quel pasto da solo, senza avere accanto qualcuno che amavi, non ci riuscivi proprio.

Ti feci notare che non avresti certo potuto continuare a tenere quell’atteggiamento di rifiuto verso il pranzo fornito dall’ospedale, ti chiesi allora se potevo portarti io qualcosa da casa ma tu dicesti che, lontano da quelle stanze dove avevi trascorso mezzo secolo, nulla, neanche il pranzo di un re avrebbe potuto avere sapore. Insistetti perché tu mangiassi almeno qualcosa, allora mi chiedesti di tirare fuori da quella borsa di pelle grigia che avevi portato con te, insieme alla valigia color nocciola, qualche fetta di pane con la caciotta di pecora. Frugai velocemente tra quelle tasche, sai, non ero abituata a mettere le mani tra le tue cose, le consideravo sacre e toccarle era per me come un sacrilegio ma il permesso di aprire quella borsa me lo stavi dando proprio tu.

In fondo a questa riuscii a riconoscere quel tovagliolo a quadri rosa, azzurro e verde: avvolto dentro a quel quadrato di stoffa colorata erano adagiate due fettine di pane, quasi trasparenti, ed un pezzo doppio di formaggio dal colore deciso, afferrai quell’involucro e te lo porsi, tu prendesti quello che era l’avanzo della tua colazione fatta in casa, prima di venire in ospedale, e tentasti di mangiarlo. Lo avvicinasti alla bocca, desti qualche morso, masticasti quel boccone svogliatamente, impiegandoci più del tempo dovuto, ed inghiottisti velocemente.

Capii che stavi facendo tutto questo solo per farmi contenta, per placare la mia preoccupazione davanti al tuo rifiuto di mangiare il pasto dell’ospedale, ma non avevi né fame, né voglia. Un altro morso ancora e posasti quelle fettine di pane sul comodino, non prima di avermi promesso che avresti terminato di mangiarle appena fossi andata via.

L’ora trascorse troppo in fretta, io uscii dalla tua stanza mentre tu mi accompagnavi con lo sguardo, fino a quando girai l’angolo che dal reparto portava alle scale.

10° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Mi incamminai verso l’uscita, scesi da sola quelle scale senza colore dell’ospedale, senza di te al mio fianco, sfilai in senso contrario alla nostra entrata, davanti a tutti quei reparti con le lettere adesive blu e mi infilai in macchina e solo lì, quelle lacrime trattenute in ospedale, riuscirono a venir giù, con tutto il dolore e tutta la disperazione possibile.

Erano le undici di mattina, il sole brillava in cielo e si posava su tutti gli alberi in fiore e sulle gemme che si stavano aprendo a nuova vita.

Era arrivata la primavera, ma quel sole non sembrava essere lo stesso che ci baciava mentre eravamo seduti in giardino sulla panchina, i rami degli alberi sembravano di cartapesta, le gemme di plastica. Capii allora, nel preciso momento di quel primo distacco da te, nonno, che le cose belle, quelle che ci piacciono di più e la cui vista ci fa sentire felici, hanno valore solo se possono essere condivise con le persone che più amiamo.

Invece, io ero in macchina, sulla strada di casa, e tu in ospedale. Le ore che mi separavano dall’orario di visita, sembravano andare al rallentatore, le tre del pomeriggio non arrivavano mai, tanto che alle due e mezza io ero già lì, fuori il reparto, seduta accanto a quella porta dai vetri sabbiati che impedivano la vista all’interno.

Ti immaginavo là dentro, sdraiato sul tuo lettino, in attesa che qualcuno ti portasse un sapore, un odore che sapeva di casa. Il personale dell’ospedale spalancò la porta d’accesso e ci dissero che la visita ai pazienti durava solo un’ora. Contrariamente a quanto avevo pensato sino ad allora, entrai nella stanza dove eri stato ricoverato e vidi con piacere che stavi chiacchierando con il tuo vicino di letto.

Quando mi vedesti arrivare mi presentasti subito al tuo nuovo conoscente, gli avevi già parlato di me perché quando allungai la mano per stringergliela, lui non mi fece finire neanche di dire il mio nome che prontamente osservò che ero la prima nipote, la più grande d’età, quella che faceva la giornalista. Annuii e con sorriso cortese mi congedai dal tuo vicino di letto per sedermi vicino a te, non c’erano sedie disponibili, allora tu mi invitasti ad accomodarmi sul lettino, vicino alle tua gambe. Te le massaggiai un po’, poi mentre le mie mani stavano cercando di trasmettere calore alle caviglie freddissime, mi dicesti che era passato il medico poco prima del mio arrivo, per comunicarti che dopo due giorni ti avrebbero operato. Eri sereno in quel momento, il viso disteso, di nuovo pieno di speranze.

9° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Il mattino seguente, quello del tuo ricovero, ci confidammo di non essere riusciti a chiudere occhio e, così dicendo, ci incamminammo verso la macchina.

Sulle gradinate d’accesso, ritratti di varia umanità ci vennero incontro: un volto coperto di bende, una gamba ingessata, il sorriso di un bambino, il pianto di un altro, il viso sereno di una donna, quello teso di un ragazzo.

Dovevamo salire al secondo piano, non prendemmo l’ascensore perché da sempre avevano paura entrambi di rimanere intrappolati in quel piccolo abitacolo, e così, seppure a fatica, cominciammo la nostra ascesa verso quell’uomo, con indosso un camice bianco, che forse avrebbe potuto comunicarci la notizia che aspettavamo entrambi: che stavi bene, che tutto si sarebbe risolto senza problemi.

Chi avrebbe mai potuto separare un nonno ed una nipote come noi due, chi avrebbe mai potuto chiedermi di rinunciare per sempre a te, chi mi avrebbe privato dei tuoi gesti e della tua voce? “Andrà tutto bene, tutto bene”, continuavamo a ripeterci senza sosta, mentre i nomi dei reparti e dei loro primari ci sfilavano davanti, piano dopo piano.

Eravamo finalmente arrivati, il medico ci aspettava nel suo studio, io non entrai, anche questa volta rimasi fuori, il dottore ti prese sotto braccio e andasti con lui, mentre mi cercavi con lo sguardo da quello spiraglio che si stava lentamente chiudendo. Io poggiai la tua valigia sulla panca di plastica verde acqua e subito dopo cominciai a camminare nervosamente, non ricordo i pensieri di quei momenti, non li ricordo proprio, nonostante tutti gli sforzi, forse non pensai nulla. So soltanto che mi misi a pregare, a pregare per te, nonno, con un’intensità che neanche io conoscevo. Il mio cuore stava battendo in maniera convulsa e violenta, sembrava aver occupato tutta la cavità toracica, il mio corpo ne percepiva i battiti come il suono di tam-tam che si propagava dappertutto: nella testa, nelle gambe, nel ventre e più il cuore batteva, più le forze sembravano abbandonarmi.

Poi, d’improvviso, la porta dello studio si spalancò, il dottore l’aprì con fermezza e decisione ed entrò frettolosamente nella stanza di un collega, io, allora, potei finalmente vederti: avevi l’espressione abbattuta e stanca, eri rimasto seduto su quella sedia dall’anima in ferro verniciata di bianco e l’imbottito color carta da zucchero, ti stavi riannodando la cravatta sulla camicia che la mamma ti aveva regalato per la festa del papà, le scarpe avevano invece i lacci sciolti, allora io mi accovacciai sulle ginocchia per allacciarti ed in quel momento entrò il medico, il quale ci informò che stava disponendo, con un suo collega, il ricovero.

Avrei voluto accompagnarti sino in corsia, ti avrei portato io la valigia, avrei sistemato io i tuoi vestiti nell’armadietto ma non mi permisero di farlo, mi dissero di lasciarti lì, in attesa che qualcuno facesse, per spirito di servizio, quello che avrei fatto io per amore.

Aspettai con te che arrivasse la persona preposta alla tua sistemazione nel reparto, nell’attesa ci accomodammo tutte e due su quell’anonima panchina color verde acqua, io strinsi la tua mano e tu stringesti la mia, come facevano quando sedevamo vicini su quelle poltroncine di pelle del corridoio, non dicemmo nulla, i nostri sguardi non si incontrarono neanche una volta, i miei occhi erano gonfi di lacrime che non riuscivano a scendere giù per le gote, a rigarmi il viso. Anche tu eri triste, lo capii da quel gesto inconfondibile di corrugare le labbra in maniera ritmica. Arrivò, dopo dieci minuti l’uomo che stavamo aspettando il quale ti chiese se eri tu quel signore che doveva ricoverarsi. Annuisti con il capo, lui allora prese la valigia che io gli porsi, ti aiutò ad alzarti e ti condusse con lui. Domandai quando sarei potuta venire a trovarti e lui mi rispose: “Alle tre, quando c’è l’orario di visita”.

8° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Ti accompagnai io personalmente ma non salii con te dal medico, anzi, mi pregasti di restare ad aspettarti giù al palazzo. Mi misi a sedere sulla balaustra della discesa a mare, il tempo sembrava dilatarsi a dismisura e per distogliere il mio sguardo da quella stanza, dove il medico ti stava visitando, con delle pesanti tende bianche tirate, cominciai a leggere tutte quelle frasi scritte con il pennarello nero sul travertino bianco. Erano modi di dire d’uso comune tra gli adolescenti, promesse d’amore eterno…e riflettei sul fatto che i miei sentimenti, i miei stati d’animo, le miei gioie, i miei dolori li avevo sempre comunicati a te, e così ti immaginai, in quel momento, come una preziosissima statuetta d’oro sulla quale la mia memoria aveva inciso una frase, un ricordo, a testimonianza di una bella giornata o di una da dimenticare.

Tu eri il depositario delle mie emozioni, sapevi tutto di me, di quello che ti avevo detto, ma anche di quello che ti avevo taciuto perché, tanto, le cose me le leggevi nell’anima. Era un pomeriggio di quelli che non si dimenticano facilmente: il sole era tiepido, in cielo neanche nuvola, la brezza che arrivava dal mare contrastava con il mio stato d’animo vorticosamente inghiottito in una tempesta di domande senza risposta. Uscisti poi dal palazzo, io attraversai la strada per venirti incontro e mi dicesti che il medico aveva disposto per te un ricovero in ospedale, il mattino successivo, per degli accertamenti di routine.

Tornammo a casa, informammo tutti dell’esito della visita. Sembravi sollevato, forse speravi in quel momento, di fronte ad una diagnosi benigna, che c’era una possibilità di guarigione anche per te, come per quel tuo vecchio collega. Anch’io mi sentii in colpa per il modo in cui avevo vissuto il Natale appena trascorso e credevo fermamente che l’allarme sarebbe rientrato e che saresti tornato l’uomo forte di sempre. Così ti dirigesti verso il tuo studio per tirar fuori dall’armadio quella tua valigia di pelle che tanto piaceva anche a me: di dimensioni ridotte ma capiente, con il tuo nome ed indirizzo scritto a penna, con la fodera grigia a pois blu. Ricordi, nonno, la lasciasti sul divanetto, aperta, e sembrava essere un bambino affamato, pronto ad ingoiare il tuo pigiama, la tua giacca da camera, il tuo rasoio elettrico, le piccole forbici, il dopobarba, il nostro libro di letture, il mio cuscino. Mentre eri intento a sistemare tutto ciò nella valigia di pelle color nocciola, la stessa che avevi portato con te nei viaggi, fatti con la nonna, sempre troppo brevi, impaziente com’eri di tornare a casa, il cuscino di lana bianca e grigia che ti avevo regalato per Natale lo lasciasti fuori perché avevi il timore che, compresso tra gli elastici, si sarebbe potuto rovinare.

7° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Qualche giorno dopo, di ritorno da Roma, vidi da lontano, appena imboccata la strada, la nonna che mi aspettava impaziente sul balcone, aveva il grembiule a righe colorate annodato dietro al collo e nervosamente asciugava con il lembo del tessuto ora una mano ora un’altra… capii che era tesa, preoccupata, tanto che appena mi vide arrivare, si precipitò fuori dal cancello e, venendomi incontro, mi disse, con le lacrime agli occhi e con la voce tremante, che eri caduto in cantina e che lamentavi uno strano dolore.

Corsi verso casa, quei pochi metri che mi separavano da te sembrava non finissero mai, le mie gambe erano di colpo diventate pesanti mentre nella mia mente si affollavano strani pensieri e presentimenti che cominciavano ad assumere contorni certi ed inconfutabili.

Salii le scalette a due a due, spalancai la porta, lasciata socchiusa dalla nonna che aveva raccolto da terra la borsa lasciata lì, accanto al cancello, e ti trovai in cucina a mangiare del riso in bianco: non eri né più triste, né più allegro degli altri giorni, eri solo desideroso di sapere come fosse andata la mia giornata. Io, senza risponderti, mi inginocchiai vicino alla tua sedia, presi le tue mani tra le mie e ti pregai, con la voce rotta dal pianto, di farti controllare da qualche medico e tu, davanti alla mia disperata richiesta, mi incaricasti di prendere contatto con un dottore del quale un tuo vecchio collega ti aveva parlato molto bene. Telefonai io, come di chiedesti di fare tu, e chiesi di fissare un appuntamento.

6° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Era martedì grasso, ricordi nonno… ti trovai seduto su quella poltroncina di pelle del corridoio, i piedi li tenevi incrociati all’indietro, le mani erano giunte, il tuo sguardo fissava la cravatta a righe rosse e blu che avevi già sapientemente annodato sulla camicia ed eri triste, ma fu sufficiente il mio picchiettare sui vetri della porta-finestra a farti tornare il sorriso. Ti precipitasti ad aprirmi e quando ti chiesi se ti andava di uscire insieme a me, rispondesti di andare, di cominciare ad incamminarmi da sola verso la piazza perché se fossi rimasta ad aspettarti, avrei rischiato di perdermi la sfilata dei carri. La verità è che non ti andava di mischiarti a quella festa di colori e di risate, di musica e di maschere, la verità è che il tuo corpo cominciava già ad abbandonarti, diventando sempre più pesante ma anche più fragile.

Ti incontrai più tardi, seduto su di una panchina del lungomare: eri riuscito solo ad arrivare in piazza e a fatica ti eri trascinato sino davanti al palazzo comunale alla disperata ricerca di un posto dove sedere, per riposarti. Ti accorgesti che ero preoccupata per te e così, tendendomi una mano, prendesti la mia e, mostrandomi con l’altra tutta quella festa di colori e musica, mi invitasti a godermela: “Bella bambina, sta allegra! Non vedi che bello spettacolo stanno facendo?”. Non ricordo più nulla di quella giornata di festa, la mente si chiuse su di te, il mio sguardo abbracciò e cullò quella tua immagine triste, nonno, mentre eri incurvato su di una panchina con gli occhi a terra, incurante persino dei bambini che avrebbero potuto imbrattare, con la schiuma da barba utilizzata per spruzzarsi, il tuo amato impermeabile.

2° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Penso spesso a quel Natale, nonno, l’ultimo trascorso insieme, mangiasti poco quella volta e decidesti persino di anticipare il tradizionale cenone al quale tenevi tanto, all’ora di pranzo. Capii che qualcosa non andava appena la nonna ci comunicò quest’inusuale notizia, io corsi allora giù per le scale, con il cuore in gola, e mi precipitai verso di te: avevi poggiato i gomiti sul grande tavolo della cucina, intrisa di frittura e di cavolfiori messi a lessare, il viso lo tenevi tra il palmo delle mani, lo sguardo fissava il grande pino che dominava da fuori tutto l’ambiente circostante, gli occhi erano umidi e quella giacca da camera bordeaux, che solevi portare in inverno, quella mattina mi sembrò l’abito di un malato.

Spalancai la porta, non mi dicesti, come facevi sempre quando la nonna stava preparando il pranzo: “Chiudila, chiudila in fretta, altrimenti va l’odore del cibo cucinato per tutta casa”.

Ti girasti soltanto verso di me, mi sorridesti come solo tu sapevi fare, con quella dolcezza di un uomo forte e con la profondità di un uomo buono, ed esclamasti: “Bella bambina! Che cosa hai?”.

Io non ce la feci proprio a dire, come avrei voluto fare: “Non morire, ti prego nonno, non morire, ci sono tante cose ancora da fare, tante cose da vedere, non mi lasciare, non farmi mancare quei tuoi occhi con le pagliuzze d’oro, quelle mani grandi che tante volte ho misurato con le mie, quella risata trattenuta appena, mentre porti la mano davanti alla bocca, fammi sentire per cent’anni ancora il tuo passo andare su e giù per la casa, lasciami ammirare la tua inconfondibile camminata e la scrittura da letterato, non mi lasciare, non mi lasciare “.

Non dissi niente di tutto questo perché, se avessi veramente detto quelle parole, avresti sofferto per me, che già mi sentivo dilaniare dal dolore. Spalancai la porta, dunque, e ti dissi: “Bella idea, nonno, anticipare il cenone all’ora di pranzo, almeno abbiamo il tempo di digerire, sai… la sera è meglio star leggeri!”. Ecco cosa fa fare l’amore, fa buttare lì un po’ di sciocchezze ed ovvietà scontate pur di non ferire la persona alla quale si tiene così tanto, ma la cosa buffa è che anche tu mi rispondesti a tono: “L’avessimo fatto anni addietro a consumare il cenone a pranzo!”.

Ed io conclusi questo dialogo con una battuta stiracchiata: “E magari chiamarlo pranzone della vigilia!”. Ne avevo fatte di battute migliori ma, scusami, nonno, quel giorno era l’unica che potesse uscire dalla mia bocca.

 

 

1° Puntata del Romanzo “Arri Arri Cavalluccio” di Alessandra Fiorilli

Oggi scrivo di te.

Di te e del nostro amore, non consacrato davanti ad un altare con la benedizione di Dio, non regolato dalle leggi civili, ma scandito dai battiti del nostro cuore, incontratisi, per la prima volta, il giorno della mia nascita e suggellato dall’affinità delle nostre anime. Sono stata la tua prima nipote, sono stata l’ultima persona che hai visto prima di lasciare la vita terrena, a me hai stretto la mano baciandola, facendomi promettere che neanche la morte, oramai prossima, ci avrebbe diviso.
La gente mi fermò per strada, appena lessero il tuo nome sui muri della città, chiedendomi: “Era tuo nonno?”.

Io risposi: “È mio nonno”. Patrizio mi disse, per telefono, che la tua assenza su questa terra non avrebbe potuto cancellare mai quel legame così forte, che saresti rimasto mio nonno per sempre, che le anime rimangono unite per l’eternità. Piansi ininterrottamente mentre Patrizio mi diceva tutto ciò, ma fu proprio in quel momento che sentii di essere stata chiamata a gestire un’assenza così pesante come quella che mi avevi lasciato tu, nonno.

Mi vennero in mente tante immagini felici, ricordai le nostre chiacchierate, le lezioni di latino, la correzione dei compiti, le poesie ripetute all’unisono, i libri letti e commentati assieme, ma anche le volte in cui mi portavi con te nell’orto e m’insegnavi i segreti del contadino. Pensai a te, e più le immagini riaffioravano alla mente, più il dolore mi toglieva il fiato. Pensai a te ma non scrissi mai di te.

Oggi, invece, scrivo di te, nonno.

Perché il dolore s’impara a gestirlo, perché il tempo regala un’immagine diversa delle persone che non ci sono più, perché il ricordo non fa più male, anzi, diventa un sollievo per l’anima.

Oggi scrivo di te, di te e di me, una storia un po’ speciale di un nonno e di una nipote che di notte ancora sogna di incontrarti ma che si sveglia di mattino con le lacrime agli occhi, nella piena consapevolezza che non ci sei più in quella casa, seduto sulla poltrona dello studio o a sonnecchiare sul divano, in cucina a scegliere il riso o in camera a sistemare le cravatte nell’armadio, chinato sulla scrivania dello studio a rilegare un tuo vecchio libro o a riordinare le carte: c’è un’assenza tanto forte quanto forte è stata la tua presenza.

Non sono riuscita ad entrare in cantina per mesi, perché lì c’erano le tue botti e le bottiglie verdi con l’anno scritto da te a mano, in giardino non si sentivano più i tuoi passi, mentre quel suono ritmico delle cesoie si era smorzato per sempre, eppure tutto è rimasto lì, ci sono ancora le calle lungo il viale, mente il petto d’angelo sta mettendo le prime foglie proprio come sta facendo in questi giorni l’ortensia.

Oggi ho capito ciò che volevi dirmi con la carezza regalatami quel giorno d’aprile, quando lessi nei tuoi occhi la consapevolezza che stavi per morire, quando capii, dal tuo sguardo addolorato, che stavi leggendo nel mio, il dolore e la disperazione che di lì a poco avrei provato, lasciandoti per sempre. Mi dicesti: “Se scriverai di noi, allora nulla andrà perduto, ed io sarò felice e riuscirò a farti giungere un mio sorriso, una mia carezza. Mi prometti che farai tutto ciò?”. Io non dissi nulla, mi limitai a scuotere la testa, quasi a scacciare indietro l’idea che tu potessi morire, che non ti avrei più dato il buongiorno, affacciandomi di mattino dalla finestra mentre facevi colazione sulla panchina dalle piccole piastrelle blu, che non ti avrei più raccontato le mie giornate, che non avrei più rivisto i tuoi occhi, sempre pronti a cercare i miei, in qualsiasi occasione. Ingenuamente pensavo che, se non ti avessi fatto quella promessa, tu non saresti morto, oppure avresti aspettato che le facessi, prima di lasciare questa terra.

Ho atteso l’ultimo tuo respiro per rassicurarti che sì, sarei rimasta qui, a prendermi cura di quello che più amavi.

Ho pensato a te, sempre, ma solo oggi scrivo di te, perché voglio mantenere la promessa che un giorno avrei scritto di noi, di te e di me.