Come in un romanzo: una romantica giornata a Sirmione

Insieme, mano nella mano, si incamminarono verso il pontile dove era attraccato il vaporetto che, da Desenzano sul Garda, li avrebbe condotti a Sirmione.

Appena saliti sull’imbarcazione, lei chiuse gli occhi: voleva sentire il fragore delle acque del lago infrangersi sulla carena del vaporetto e avvertire su di sé quelle gocce che le arrivarono sul viso, tra i capelli.

Aprì gli occhi in tempo per ammirare il Castello Scaligero di Sirmione: allungò il braccio e le sembrò di accarezzare quelle guglie.

Il traghetto rallentò la sua corsa e una voce maschile disse: “Sirmione”.

In tanti scesero dal vaporetto e si divisero, come acqua del fiume quando giunge al mare.

Sirmione…Sirmione: quattro consonanti e quattro vocali che avevano un sinonimo : quello di paradiso

Insieme, mano nella mano, si inoltrarono per le viuzze zeppe di turisti con le maniche corte, i sandali, e cercarono un bar dove poter mangiare un toast.

Si inoltrarono nel cuore di quel centro lacustre e, all’improvviso, seguendo la curva della strada, s’accorsero che erano giunti al cospetto di quel Castello Scaligero che avevano già visto dal lago, arrivando da Desenzano con il vaporetto.

Eccolo…era lì, immerso nelle acque di quel lago di Garda che sembrava un mare,  a difesa di quel piccolo centro lacustre.

Lei sapeva tutto di questo antico maniero: sapeva che era stato costruito dagli Scaligeri, tra il XIII e il XIV secolo.

Tre torri  e poi il maschio, che svettava dai suoi 47 metri e poi la darsena per la flotta.

Sul lato orientale, sulla ghiaia e tra i turisti, i cigni passeggiavano e si facevano avvicinare, fotografare, come le papere che affollavano quel lembo di spiaggia ghiaiosa.

Risalirono verso il paese e panorama un cartello “BACIATEVI, PER FAVORE“, allora si baciarono, si baciarono come mai altre volte.

E si persero, occhi negli occhi, mano nella mano, per le vie di un paese che esaltava i sensi.

Non sarebbero voluti andar via, ma il traghetto li attendeva per tornare a Desenzano, dalla cui stazione sarebbero ripartiti con il treno.

Sarebbero rimasti altre ore, altri giorni alla loro vacanza…eppure…eppure quando si girarono, dalla prua del  vaporetto e accarezzarono con lo sguardo Sirmione, ormai in lontananza, sarebbero rimasti davvero sempre lì, non con il corpo ma con il cuore.

                                              Alessandra Fiorilli

Le noci: tra miti, leggende e quel Miracolo narrato ne “I Promessi Sposi”

Furono i Persiani a portarle in Europa dall’Asia Minore e da allora sono state circondate da storie e leggende dai profondi significati simbolici.

Per i Greci le noci erano considerate doni degni di un re, mentre gli antichi Romani adoravano mangiarle, certi che l’albero dal quale nascevano fosse sacro a Giove, e a conferma della predilezione che i romani avevano per questi frutti, durante gli scavi di Ercolano, sono stati ritrovati fossili di noci carbonizzate dall’eruzione del Vesuvio.

Secoli dopo, durante il Medioevo l’albero del noce fu considerato come quello preferito dalle streghe sotto al quale, secondo alcune leggende, amavano riunirsi per preparare i loro miscugli.

I Britanni, sulla base di  testimonianze risalenti alla dominazione romana in quell’area, la notte del solstizio d’estate erano soliti bere un liquore scuro di noce, molto apprezzato, tempo dopo, anche dai francesi, dai quali sembra che gli italiani abbiano imparato l’arte di preparare il nocino, usando  i malli  delle noci ancora verdi ed alcool.

Coltivate in tutto il mondo, la produzione maggiore la vanta il Cile e la California, ma l’Italia non sta certo a guadare, vantando due tipi molto ricercati: la Sorrentina e le noci Lara.

La costiera a nord di Sorrento non è l’unica zona della Campania dove si trovano i noceti, se ne hanno  anche nell’agro di Nola, nell’area flegrea, nei comuni vesuviani e nella terra casertana.

L’altra eccellenza italiana è la noce Lara, con il suo guscio a globo e prodotta in Veneto.

Le noci, che l’immaginario collettivo vede come le protagoniste delle festività natalizie, portate in tavola in ceste, insieme all’altra frutta secca come mandorle e nocciole, in realtà rappresentano un alimento completo, con un elevato contenuto di Omega 3 e Omega 6, di Vitamina E, del gruppo B e ricche di minerali.

Inoltre, secondo la teoria delle segnature di Paracelso, farebbero bene al cervello e alle memoria perché il loro gheriglio somiglia molto alla struttura della corteccia celebrale.

Ottime per chi fa sport, in cucina accompagnano primi come il riso con il gorgonzola, arricchiscono l’ impasto del pane e la loro granella viene talvolta usata anche  per impanare carni o pesci.

E poi… come dimenticare che al di là di tutte che leggende antiche e moderne, le noci sono state celebrate persino dal grande Alessandro Manzoni ne “I Promessi Sposi”, il cui capitolo terzo,  si conclude proprio con il “Miracolo delle noci”.

Fra’ Galdino, infatti, dopo aver bussato alla porta di Agnese, riceve le noci in dono per il suo convento, e prima di andar via racconta una storia.

 Un giorno, il proprietario di un  noce decise di abbattere questo suo albero, certo che non avrebbe prodotto frutti, ma Padre Macario del vicino convento dei  Cappuccini gli disse che quello  stesso noce, in primavera, avrebbe invece dato abbondanti frutti. L’uomo si convinse e non solo seguì il consiglio del frate, quanto gli promise che, in caso di un buon raccolto, la metà delle noci sarebbe andata in elemosina al convento. Ma il giovane e scapestrato figlio del proprietario non mantenne la parola data: e quando un giorno andò al granaio per ammirare l’abbondante raccolto, si accorse che di questo non era rimasto altro che i fiori secchi della pianta.

                                Alessandra Fiorilli

Courmayeur…e il cuore trema dall’emozione

Courmayeur, noto centro turistico a circa 30 chilometri da Aosta, vanta tre primati: è l’ultimo comune in territorio italiano, il più ad occidente della Valle d’Aosta e l’unico che confina con due nazioni, la Francia e la Svizzera.

Ad unirla con i cugini d’oltralpe è il traforo del Monte Bianco, lungo quasi 12 chilometri, superato il quale, ci si trova nella cittadina di Chamonix.

Il legame che ha con il comune “gemello” in terra francese, nasce nel XVIII secolo, quando gli esploratori furono richiamati dal grande fascino di scalare la vetta più alta d’Europa, il Monte Bianco,  ai piedi del quale giace, sul versante francese Chamonix, e su quello italiano, Courmayeur.

Scorcio della vallata dalla Piazza (Foto di Lorenza Fiorilli)

I due comuni alpini diventano, in pochissimi anni, i centri più noti ed apprezzati dall’alpinismo mondiale.

La sede del Municipio (Foto di Lorenza Fiorilli)

Il clima alpino, con le sue estati fresche e gli inverni nevosi, rendono Courmayeur un centro turistico ambito da molti, anche se nel comune valdostano l’affluenza dei primi villeggianti si registrò nel secolo XVII perché richiamati dalle fonti di acqua solforosa.

Particolare di una casa in pietra (Foto di Lorenza Fiorilli)

La vicinanza con la prima Capitale d’Italia, Torino, che dista da Courmayeur poco più di 140 chilometri, la rese una delle mete preferite di Casa Savoia per i loro soggiorni alpini  e, con l’avvento di un turismo non più solo d’elite, il comune valdostano è diventato,  a partire dal XX secolo, una delle più apprezzate stazioni sciistiche alpine.

…e di una in legno (Foto di Lorenza Fiorilli)

La volontà di far conoscere le bellezze mozzafiato delle nostre montagne e di promuovere l’attività alpinistica, ha spinto, nel 1850, alcuni cultori della montagna a costituire la Società Guide Alpine, che oggi si trova sulla Strada del Villair, di fronte la Chiesa principale, la Parrocchia di San Pantaleone, il quale è il patrono della cittadina.

Il Museo delle Guide Alpine “Duca degli Abruzzi” (Foto di Lorenza Fiorilli)

Proprio nel caratteristico edificio della Società Guide Alpine, oggi è ospitato il Museo “Duca degli Abruzzi”, dove sono esposte foto ed oggetti di chi l’alta montagna l’ha vissuta, amata, assaporata, conquistata, metro per metro.

Scorcio di una strada nel centro di Courmayeur (Foto di Lorenza Fiorilli)

Courmayeur si sveglia ogni mattino e va a dormire ogni sera con, negli occhi, le Alpi che la circondano come un abbraccio e lo strettissimo rapporto con l’alta montagna lo rivela il nome stesso di Courmayeur che sembrerebbe derivare, secondo l’Abbé Henry, nel volume “Histoire Populaire de la  Vallee  d’Aoste”, dal latino “culmen majus”, ovvero “grande cima”, per via della notevolissima vicinanza al Monte Bianco.

Scorcio del Monte Bianco (Foto di Lorenza Fiorilli)

Proprio dalla Piazza Abbé Henry si gode di un panorama spettacolare sulla vallata e sui monti circostanti.

Panorama dalla Piazza Abbé Henry (Foto di Lorenza Fiorilli)

Tra gli appuntamenti che celebrano lo stretto rapporto tra Courmayeur  con le Alpi, spicca il “Tor des Geants” il “giro dei giganti”,  una competizione che si snoda per 34 comuni valdostani, con partenza ed arrivo proprio a Courmayeur.

 Il tour, giudicato come uno tra i più duri al mondo, si snoda per 330 chilometri attraverso bellezze uniche come il Parco Nazionale del Gran Paradiso.

Courmayeur è un gioiello alpino da assaporare in ogni suo suggestivo angolo, con i balconi in legno pieni di fiori, le case in pietra, i loro tetti ricoperti  da lastre di losa, ottenute da rocce che, per loro stessa natura, sono facilmente divisibili in lastre, appunto.

Courmayeur è le sue strade, dove il tempo sembra voler dire ai turisti: “Fermati, respira l’aria pura e dissetati con l’acqua freddissima e indugia su quanta bellezza ti circonda”.                                                    

                                              Alessandra Fiorilli

Pan Canasta: quel panettone salato goloso, stuzzicante, invitante

Coinvolti a tal punto dal gioco delle carte da non voler rimandare nemmeno la partita al dopo pranzo, qualcuno pensò tra sé e sé: “Dovranno pure mangiare qualcosa”.

Ma questi  “ligi giocatori” non volevano proprio lasciare il proprio posto attorno al tavolo da gioco per sedersi attorno a quello di una cucina o di una sala da pranzo… sarebbe stato, quindi,  necessario portare loro qualcosa di stuzzicante, goloso da mangiare e al tempo stesso facile da prendere e da gustare senza sporcarsi: e così nacque, come vuole la storia, il Pan Canasta.

Un Pan Canasta riccamente farcito (Foto per gentile concessione di Rita Umili)

Negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso era considerato il re degli antipasti: servito insieme agli immancabili voulevant ripieni e all’insalata russa, non poteva certo mancare come preludio ad una cena “all’ impiedi”, come era di moda sul finire del XX secolo, magari accompagnato da un bicchiere di spumante.

Poi, il lento declino. ma negli ultimi decenni, grazie agli ormai numerosi programmi televisivi di cucina che l’hanno rilanciato, sta vivendo un nuovo “momento di gloria”.

Per alcuni è il “panettone gastronomico” che si differenzia dal suo fratello dolce e protagonista della tavola di Natale, per il fatto di essere un prodotto lievitato sì, ma salato, pronto ad accogliere al suo interno salumi, formaggi, sottolio, carote tagliate alla julienne, insalata, ma anche uova sode, salsa tonnata, maionese, ma la fantasia e il gusto può fare il resto: c’è chi non disdegna farcirlo con il pregiato tartufo o in versione vegetariana, puntando su verdure, sottaceti, olive e salse.

Tagliato trasversalmente per essere poi imbottito a piacimento, appunto, di solito sulla sua cupola svettano spesso bandierine di carta multicolori, come quelle che si è soliti vedere nei bicchieri estivi di bibite ghiacciate.

La soddisfazione maggiore la si ha quando viene preparato in casa, con farina di manitoba e 00, latte, uova, lievito di birra, sale.

Il classico formato è quello simile al panettone, ma non mancano anche i mini Pan Canasta, ideali specie per le feste tra  bambini.

Un delizioso mini Pan Canasta (Foto per gentile concessione di Rita Umili)

E così questo prodotto rustico, noto anche come Pan brioche, per la sua morbidezza, ha lasciato i fumosi tavoli da gioco per lanciarsi e reinventarsi con gusto, strizzando sempre l’occhio ad una golosità semplice, veloce e di fronte alla quale difficilmente si può declinare l’invito.

                              Alessandra Fiorilli

Ode agli gnocchi

Ci sono dei piatti che non sono soltanto delle pietanze da gustare, ma custodiscono immagini care, capaci, talvolta, di riportarci indietro in tempo.

Chi non ha mai assistito, da bambini, alla preparazione degli gnocchi, con la nonna dal grembiule ombrato di farina? E quante volte abbiamo guardato, incantati, il sapiente movimento delle mani che impastavano con passione semplici ingredienti?

E poi, avremmo sicuramente chiesto alla nonna di aiutarla: eccoci, dunque, forchetta alla mano, ad imprimere su quei piccoli cilindri di pasta, la forma della forchetta, in modo che quelle “rughe” avrebbero assorbito, voluttuosamente, il sugo con il quale sarebbero stati conditi.

Tanta è la poesia che si cela dietro gli gnocchi, da essere considerati non un semplice formato di pasta, ma una famiglia a sé, come confermato dal grandissimo gastronomo e scrittore Pellegrino Artusi, nella sua opera summa “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”.

Preparati con le patate, con il semolino, come quelli detti alla romana, o con una semplicissima pasta choux, o pasta bignè, a base di sola farina ed acqua, sanno dominare la scena, anche se il loro condimento è semplice, come richiede la tradizione.

Degli gnocchi si ha notizia già dalla seconda metà del Cinquecento, ma due secoli più tardi arriveranno ad essere annoverati tra i piatti preferiti dai nobili, che sceglieranno di condirli con sughi ricchi e corposi.

A Roma questo piatto è legato un preciso giorno della settimana, quello del giovedì e questa tradizione affonda le sue radici nella cristianità, che vuole il venerdì “di magro” e quindi, un bel piatto di corposi gnocchi mangiati il giorno precedente, rende il povero pranzo del venerdì più sopportabile.

Nella Capitale non è raro trovare tipiche trattorie che ancora seguono questo rituale legato ad una tradizione particolarmente sentita nel secolo scorso.

Regione che vai, giorno dedicato agli gnocchi che trovi: in Campania si servono di domenica, conditi con un semplice sugo al basilico  e mozzarella e, se gratinati al forno, prendono il nome di gnocchi alla sorrentina per il particolare connubio di sapori tipici della costa mediterranea come l’odoroso basilico.

Nell’Italia del nord si preferisce condirli con il burro e la salvia, come era soliti mangiarli durante il Rinascimento,  e portarli in tavola il  venerdì.

Gli gnocchi non disdegnano, come loro compagni, neanche lo speck, le noci, i formaggi.

E quella corposità che avverti appena li porti alla bocca, sono tra le cose più buone che la cucina italiana è in grado di regalarci.

                                   Alessandra Fiorilli

…e uno spiraglio di luce ci abbaglierà…

Era questo che volevi insegnarci, coronavirus, o per chiamarti con il tuo nome proprio, Covid-19?

Volevi farci scoprire l’inutilità delle nostre superflue lamentele sugli obblighi, sempre gli stessi, della nostra vita quotidiana?

Volevi dirci che quello che appariva ai nostri occhi come la “solita routine”, era in realtà, VITA, da vivere e da condividere?

Volevi farci riflettere su come anche le azioni più banali, che compivamo quasi inavvertitamente, come sederci in macchina, andare a fare la spesa, vederci con gli amici per un caffè al bar o invitarli a casa per una cena, erano dei momenti preziosi, che avremmo rimpianto, un giorno non troppo lontano?

Volevi insegnarci il valore e la bellezza di un ABBRACCIO, di un BACIO sulla guancia, di una stretta di mano?

Volevi farci comprendere che non esiste nella vita la cosa scontata, ovvia, quasi banale, perché tutto ciò che riempie i nostri giorni, le nostre ore, ogni singolo attimo, è VITA da vivere e da assaporare?

Volevi forse vederci piangere per questa coltre di paura che sembra avvolgerci?

(Foto di Lorenza Fiorilli)

Volevi forse farci disperare al pensiero di quei momenti, preziosi, ma che non avevano giudicati tali, nell’istante stesso in cui li stavamo vivendo?

Volevi assistere alle nostre lacrime mentre sfogliamo gli album delle foto che ci ritraggono liberi?

Volevi ingabbiare le nostre CERTEZZE e frantumarle e renderle schegge impazzite?

Volevi farci fermare e mettere in pausa le nostre vite?

Ebbene, sì, lo hai fatto, hai fatto tutto questo, ci sei riuscito…e noi?

A noi altro non resta che imparare di nuovo a CAMMINARE: faremo come i bambini… prima avremo paura, saremo incerti, cadremo e piangeremo e in aiuto, come le braccia amorevoli di una mamma, verranno, in fila ordinata, tutte quelle cose che avevamo date per scontate, banali, ripetitive, quasi inutili se non persino, in alcuni casi, noiose.

E allora noi ci RIALZEREMO, con gli occhi ancora umidi di lacrime, ma ci rialzeremo e continueremo, anche se ancora con un’andatura incerta e poi piangeremo di nuovo, ma stavolta per la gioia: perché sopra di noi scorgeremo uno spiraglio di luce che ci abbaglierà…

                                                                                       Alessandra Fiorilli

In questa Pasqua “sospesa” arrivano in aiuto i ricordi…

In questa Pasqua di abbracci vuoti di affetti e pieni di  distanze, di campanelli di casa muti, di notizie che ci incalzano con la loro drammaticità, ecco, proprio ora abbiamo bisogno di aggrapparci, con tutte le nostre forze, all’immagine di giorni felici, nella speranza, da far  diventare certezza, che tutto torni com’era prima dell’emergenza sanitaria.

In questa Pasqua così lenta, quasi “sospesa”, senza i piatti del servizio buono da sistemare sulla tavola, senza l’immancabile tovaglia bianca che ha un profondo valore simbolico, ancora più forte è la nostalgia…e stamane, allora, non le ho opposto resistenza e mi sono lasciata trascinare da essa.

Il Casatiello con tanto di uova (Foto per gentile concessione di Rosa Umili)

Eccomi: ho nove anni, scendo giù dai nonni e li trovo entrambi in cucina, sorridenti e amorevoli.

Li abbraccio forte, forte, forte e sembra così impossibile che possa arrivare un giorno in cui ci sia proibito farlo.

Nell’aria, i sapori della festa e, sul piatto grande di porcellana bianca, il casatiello della nonna è già lì, che ci attende, ci attende per abbracciarci con i suoi sapori che rimarranno impressi nel cuore.

Il Casatiello (Foto per gentile concessione di Maria Umili)

Il nonno sta già tirando fuori dalla vetrinetta del soggiorno il servizio dei giorni di festa, tra poco arriveranno tutti gli altri e saremo quello che si dice, “una bella tavolata” e sembra davvero incredibile che un giorno ci sia impedito di riunirci con parenti ed amici.

Il Casatiello è  lì, sembra mi chiami…la tentazione è forte, ma so che dovrà far bella figura di sé intatto, quando sarà portato a tavola.

Lo guardo con insistenza: quel colore dorato, quell’odore inebriante, e quel cuore morbido, saporito, umido che mi aspetta.

Sono la prima nipote, i nonni non riescono a dirmi di no e me ne tagliano una fetta…chiudo gli occhi e quasi mi commuovo.

Questa torta rustica, che la nonna prepara ogni Pasqua,è il simbolo di questa festa, delle tradizioni che i nonni hanno portato dalla loro terra casertana, di un rito ormai irrinunciabile per la nostra famiglia.

“Quando sarai grande ti dirò come prepararlo”, mi svela dolcemente la nonna.

Lei, che non ha la ricetta scritta, ma sa tutto a memoria, come sua madre, sua nonna, vuole insegnarmi un’arte a me sconosciuta.

Il Casatiello ornato da un ramoscello d’ulivo (Foto per gentile concessione di Rita Umili)

So già che non sarò mai brava come la nonna ad impastare tutti gli ingredienti e poi…poi come farei a mangiarne una fetta senza di lei, senza i nonni?

Oggi quel Casatiello mi manca ancora di più, perché a colmare il vuoto di presenze così care, non ci saranno gli abbracci e i baci degli amici, la lunga tavola apparecchiata con cura, il servizio buono dei piatti, l’allegria di un giorno di festa che si preannuncia con il sole e con le temperature di una primavera inoltrata.

Ma a darmi forza torna sempre il ricordo del nonno, il quale, quando mi vedeva un po’ abbattuta mi diceva con il suo perfetto latino: “Sursum Corda”, ovvero, “In alto i cuori”.

E oggi, carissimi lettori di EmozionAmici, permettetemi di dirlo io a tutti voi, a tutti noi, a tutti gli Italiani divisi, separati, lontani, ma sorretti  da quella forza che ci ha ci sempre contraddistinto: “Sursum Corda”, dunque, e tanti affettuosi auguri di Buona Pasqua, carissimi lettori di EmozionAmici

                                                Alessandra Fiorilli

La Pigna di tarallo: la sua storia e il suo significato simbolico

Tipica della città di Caserta e della sua provincia, la Pigna di Tarallo è l’altro dolce simbolo, accanto alla Pastiera, della festività pasquale in terra campana.

Può essere considerata la sorella dell’altro immancabile protagonista della tavola di Pasqua, il tortano o casatiello: non  a caso, la Pigna è anche conosciuta con il nome di “casatiello dolce”.

Grande manualità ed esperienza, quella che viene richiesta per la preparazione della Pigna, il cui impasto dovrà essere senza grumi e soffice.

E’ un dolce che racchiude in sé una profonda simbologia, come quella che si cela dietro la durata richiesta per la lievitazione: 72 ore, proprio il tempo che va dalla morte di Gesù alla sua Resurrezione.

 Al suo interno nessuna farcitura, e questa sua peculiarità, sino alla prima metà del secolo scorso, significava avere la colazione garantita per i più piccoli almeno per una paio di settimane: con il passar dei giorni, il dolce, infatti,  induriva e questo lo rendeva ideale per inzupparne una fetta nel latte.

Quello che invece, migliorava, era l’aroma sprigionato: un misto di vanillina e di limone in grado di regalare al palato un trionfo di sapori.

Qualche curiosità sul nome:  sembra che derivi da “pignata”, un recipiente di coccio usato per la cottura dei fagioli, e la cui forma era proprio ricalcata da questo dolce pasquale.

Il secondo appellativo, “tarallo”, è legato, invece, alla consistenza, alquanto simile a quella  dei rustici pugliesi, che assume dopo qualche giorno dalla preparazione.

Solitamente è  ricoperto da una glassa bianca,  ma c’è chi lo preferisce senza glassatura per godere della vista delle “fresature”, ovvero  aperture che ricordano le crepe sui fianchi di un vulcano e che non sono delle imperfezioni, quanto piuttosto un effetto della crescita della Pigna stessa.

E con la storia di questo dolce tipico pasquale, la rivista EmozionAmici augura a tutti i suoi lettori una Serena Pasqua, nonostante il difficile periodo che stiamo vivendo.

Ce la faremo, distanti fisicamente ma vicinissimi nel cuore.

                                                                                   Alessandra Fiorilli

La Lasagna: non un piatto della Festa, ma la Festa stessa.

E’ il simbolo della Festa e della famiglia che prende posto intorno alla tavola imbandita.

E’ gioia, voglia di stare insieme, è felice condivisione di momenti.

E’ la regina della gastronomia italiana: è la lasagna.

La sua origine sembra affondare le radici in epoca romana, quando si preparava il “laganon”, una sottile sfoglia con farina di grano e cotta direttamente sul fuoco: non a caso l’altro termine, “lasanum”,  dal quale potrebbe derivare il nome attuale,   indicava  proprio il treppiede che si portava sul fuoco per cuocere i cibi.

Apicio parla di una “lagana” descrivendola come un insieme di sfoglie sottili di pasta che venivano, poi farcite con carne. Il piatto degli antichi romani differiva, però, dal nostro, in quanto non si presentava come quello che siamo soliti portare in tavola: somigliava, infatti, più ad un pasticcio di pasta farcita.

Il Medioevo è l’epoca d’oro della lasagna, non a caso viene menzionata in molte opere di scrittori: da Jacopone da Todi a Cecco Angiolieri.

L’epoca successiva, quella rinascimentale, vede nel nord Italia, in particolare nell’Emilia Romagna, l’aggiunta delle uova all’impasto e l’accurata preparazione della lasagna la ritroviamo in una ricetta del XIV secolo, dove si parla di : “Strati di pasta e formaggi alternati”.

L’aggiunta del pomodoro, però, avverrà solo intorno al 1660, quando la  famosa “salsa napoletana” regalerà alla lasagna quel tocco in più.

E’ della prima metà del XVII secolo una ricetta contenuta in un libro pubblicato proprio a Napoli, dove si legge di : “Lasagne stufate, condite con mozzarella e cacio e poi messe in forno”.

Tradizione vuole che uno dei più ghiotti in assoluto della lasagna fosse proprio un re di Napoli, Francesco II di  Borbone, al quale venne dato persino il nomignolo di “re lasagna”, per indicare quanto fosse forte la sua predilezione per questo piatto.

Ippolito Cavalcanti, noto cuoco napoletano, nel suo ricettario del 1837, descriverà minuziosamente questo piatto a base  di: “Strati di pasta intervallati da un sugo di carne, piccole polpette, fette di mozzarella o provola, formaggio grattugiato”: la lasagna che tutti conosciamo ed apprezziamo è già nata.

Sarà un evento storico importante, quello dell’Unità d’Italia, a far accendere l’interesse di molti, attorno a questo piatto che diventerà, per gli italiani, il simbolo della festa per eccellenza.

Eppure, quando nel 1891 è pubblicato il volume “La scienza in cucina” del notissimo Pellegrino Artusi, lo stesso gastronomo, non menziona, nella sua opera, la lasagna.

Le variazioni che vengono apportate alla ricetta base fanno trasparire l’importanza che alcuni ingredienti rivestono nella tradizione gastronomica delle regioni italiane: in Liguria, ad esempio, il ragù viene sostituito con il pesto, in Veneto si ha l’aggiunta del Radicchio rosso IGP, mentre nelle regioni adagiate sugli Appennini si preferisce infarcire la lasagna con i funghi porcini e il tartufo, mentre in Sicilia non mancheranno, nel ripieno, le melanzane.

Dal Nord al Sud della nostra penisola, dal mare alla montagna, le variazioni alla ricetta originaria nulla tolgono al significato che la lasagna riveste nella tradizione, e non solo gastronomica, italiana.

                                Alessandra Fiorilli

Mie amatissime Alpi, fate da eco al nostro grido “ANDRA’ TUTTO BENE”…

Mie amatissime Alpi,

è su di voi che ogni giorno il mio pensiero indugia con un velo di profonda nostalgia. I miei primi passi non sono stati mossi sui vostri prati,  perché, come ben sapete, sono nata in una cittadina sulla costa e credevo,  nella mia ingenuità di piccola bimba, che tutte le città avessero il proprio mare, quasi fosse un diritto “non scritto” della geografia.

Poi, grazie alla cartina geografica,  scoprii la variegata bellezza naturalistica della nostra Italia  e, più tardi, a scuola, la maestra parlò di voi come della  corona posta sulla testa della nostra meravigliosa nazione.

Piansi insieme ad Heidi, quando, la piccola protagonista del cartone animato fu portata a Francoforte, e da qui non riusciva a scorgere, nemmeno in lontananza, le sue amate montagne. La sua struggente nostalgia, oggi, in questi giorni di reclusione forzata, è anche la mia…e quando indugio sulle foto che mi ritraggono vicino a voi, mie carissime Alpi,   io a stento riesco a trattenere le lacrime, perché queste foto sembrano essere immagini di una vita così lontana…

 E così, per sentirmi più vicino a voi, vi immagino, giganti buoni solitari, senza turisti, senza il via vai delle cabinovie, e, ad occhi chiusi, percepisco il silenzio irreale che domina da voi, in questi giorni.

Allora m’immagino lì, al vostro cospetto,  apro le braccia e urlo a squarciagola: “ANDRA’ TUTTO BENE, ANDRA’ TUTTO BENE” e l’eco rimanda questo messaggio di speranza che attraversa, da nord a sud,  la nostra Italia.

Questo parole, però, a differenza dei primi giorni dell’epidemia, custodiscono in sé anche le lacrime per le decine di migliaia di nostri connazionali che non ce l’ hanno fatta, per quelle bare trasportate da mezzi militari, per quei necrologi che riempiono decine e decine di pagine dei quotidiani, per le famiglie spezzate, per gli abbracci che mancano ogni giorno di più, per le difficoltà economiche di padri di famiglia disperati.

E spero che questo virtuale “ ANDRA’ TUTTO BENE”,  che la mia immaginazione grida davanti a voi, giunga più facilmente al cielo e squarci il velo di tristezza che invece, voi, mie amatissime Alpi,  sapevate cancellare con la vostra maestosità, con i vostri prati sterminati, con le vostre vette innevate e incontaminate, con i vostri ghiacciai perenni.

                                                     Alessandra Fiorilli