Il radicchio rosso trevigiano: la carta d’identità di questo prodotto italiano IGP

L’Italia è una nazione che può vantare un grande numero di prodotti DOC, DOPIGP:  tra questi ultimi, anche il Radicchio Rosso di Treviso, la cui zona di produzione è esplicitamente dichiarata nel Disciplinare dell’ Indicazione Geografica Protetta e comprende 24 comuni  tra le province di  Treviso, Padova e Venezia.

IGP è il marchio che identifica il territorio il  quale, grazie a specifiche caratteristiche, è in grado di dare, a un prodotto qualità che lo differenziano da altri della stessa specie.

I terreni dei 24 comuni compresi nelle tre province venete suindicate, sono fertili e ricchi delle acque purissime di falda che provengono direttamente dalle Dolomiti. Scorrendo sotto la ghiaia, risalgono in superficie, originando corsi d’acqua quali il Sile, il fiume che si può ammirare passeggiando per la città di Treviso.

E proprio da questa  città, la storia vuole che tutto abbia inizio: si narra, infatti, che il vivaista Francesco Van Den Borre, giunto dal Belgio nel 1870 per realizzare un giardino nel trevigiano, abbia fatto arrivare, in terra veneta, la tecnica di imbiancamento che veniva usata per le cicorie belghe, nonostante la coltivazione del radicchio fosse già avviata nella zona di Treviso, già nel XVI secolo

La sua famiglia d’origine è quella della comune cicoria, ma a rendere questo prodotto così unico ed apprezzato, è la  particolare lavorazione cui viene sottoposto.

Il Radicchio  rosso si divide in due categorie: il Precoce e il Tardivo, quest’ultimo è molto più pregiato e  richiede un trattamento complesso.

Già il nome con il quale è conosciuto, “re dell’inverno”, ci fa comprendere come il suo sviluppo sia legato al freddo: non a caso, lo stesso Disciplinare di Produzione prevede che la raccolta del radicchio debba avvenire dopo due brinate.

Vediamo insieme come nasce il radicchio trevigiano IGP: messi a dimora i semi nei vivai, le piantine vengono, successivamente, collocate nel terreno, tra luglio e metà agosto.

Con l’arrivo della prima brinata, verso il mese di novembre, si ha la raccolta delle piante che vengono, così, ripulite delle foglie più esterne, legate tra loro e immerse in vasche con acqua risorgiva per ottenere l’imbiancamento, periodo, questo, che dura 20-25 giorni, durante il quale le radici del radicchio diventano bianche e assorbono le sostanze nutritive dell’acqua stessa.

In questo lasso di tempo, le piante, grazie al buio e alla temperatura che si aggira intorno ai 10-13° C, germogliano di nuovo.

Dopo la  fase della “toelettatura”, il radicchio viene lavato ed è pronto ad arrivare in tutto il mondo.

E così, sui banchi ortofrutticoli,  si offre, languidamente, con il suo rosso scuro intenso delle foglie attraversate da striature bianche.

Ricco di antiossidanti, con un basso contenuto calorico, essendo composto per circa il 92% da acqua, il radicchio aiuta a contrastare i radicali liberi e l’invecchiamento, oltre a rappresentare un’ottima fonte di vitamina A, B1, B2.

Il sapore piacevolmente amarognolo e la sua consistenza croccante lo rendono ideale per il consumo sia crudo, in insalata, che cotto alla griglia.

Ottimo come ingrediente principe del risotto al formaggio Asiago, il radicchio trevigiano è un prodotto d’eccellenza italiano e il simbolo di un’antica tradizione capace di regalare un prodotto unico.

                                                   Alessandra Fiorilli

Alla riscoperta della pasta fresca fatta in casa: oggi parliamo di orecchiette pugliesi e “pettole” casertane

I Social, in queste settimane, si stanno riempiendo di foto e video che ritraggono gli italiani alle prese con pane, pizza, pasta, dolci.

I nostri connazionali ci stanno regalando, così, l’immagine di un’Italia che sembrava scomparsa da tempo, e, in un istante, siamo tornati tutti bambini, quando le nonne o le bisnonne impastavano, con grande maestria e passione, acqua e farina per portare in tavola la pasta fresca fatta in casa.

Ciascun prodotto appartenente alla tradizione italiana ha una storia da raccontare: oggi, in questo articolo, parliamo delle orecchiette pugliesi e delle “pettole” casertane.

Tipiche della Puglia ma diffuse anche in Basilicata, varie sono le ipotesi sulla loro comparsa: c’è chi le ritrova persino in un testo del grande poeta latino Varrone, vissuto tra il 116 e il 117 a. C., il quale, in un suo testo, parlava di una pasta, le “lixulae”, di forma tondeggiante con un incavo nella parte centrale e che ricordano proprio le odierne orecchiette. 

Un’altra ipotesi sembra essere legata, invece, al Medioevo, quando, tracce di una pasta prodotta con il grano duro delle Tavoliere, si hanno nella città di  Bari e nel suo entroterra. Sembra, però, che fosse una tradizione importata dalla Provenza, località, questa, dalla quale la pasta a forma di orecchiette, partì alla volta della Puglia, insieme agli Angioini, i quali intorno al XIII secolo, ebbero il controllo di gran parte del suddetto territorio.

 La forma data a tale tipo di pasta in terra francese, aveva una sua motivazione molto profonda, legata alle carestie che si dovevano, spesso, fronteggiare in epoca medievale: l’incavo che si faceva al centro del piccolo disco di pasta spessa, serviva, infatti, a rendere più facile l’essiccazione e, di conseguenza, anche la conservazione.

Un’altra corrente di pensiero, invece, vuole che le orecchiette abbiano avuto i loro natali nel territorio di Sannicandro di Bari, tra il XII e il XIII secolo, periodo, questo, della dominazione normanno-sveva nell’attuale Puglia.

I Normanni, infatti, proteggevano la comunità ebraica che risiedeva in terra pugliese e gli ebrei erano soliti preparare dei dolci, con un incavo al centro, note come le “Orecchie di Haman”, da cui scaturì la classica forma del formato di pasta delle orecchiette, appunto.

Una data è certa: quella del 1500, quando, negli archivi della chiesa di San Nicola di Bari,  in un atto notarile di cessione di un  panificio dal padre alla propria figlia, fosse indicata, alla voce “dote matrimoniale” anche la famosa ricetta delle “reccjetedde”, nome, questo, con il quale le orecchiette sono ancora oggi chiamate a Taranto e provincia

A Bari, invece, sono note con il nomignolo affettuoso di “L strascnat”, termine, questo che indica la modalità con la quale la pasta viene lavorata, strusciandola, appunto, sulla spianatoia.

Con la superficie esterna ruvida e spessa, e il cuore più liscio, le orecchiette si sposano alla perfezione con le famose cime di rapa, ma non disdegnano neanche cavolfiori, broccoli o altri tipi di verdura mentre, in altre zone della Puglia, come il Salento, si usa condirle con un sugo corposo e cosparse di ricotta di pecora.

Altra tipica pasta fatta in casa sono le pettole casertane, le cui origini sono legate alle tradizioni contadine dell’agro aversano. Si narra, infatti, che un piatto di pettole e fagioli non mancasse mai sulle tavole dei contadini i quali, dopo una lunghissima e faticosa giornata trascorsa sui campi, potevano trovare sollievo in questo piatto tipico che vedeva il connubio perfetto tra le pettole, pasta fresca a base di farina e  acqua e i fagioli, la cosiddetta “carne dei poveri”.

Noto come “Pettl’e fasul”, ancora oggi è un tipico piatto della zona di Caserta, riscoperto in particolar modo, in questo periodo di reclusione forzata, quando il tempo a disposizione permette di rispolverare piatti dei nostri avi, la cui preparazione poco si addice alla fretta nella quale eravamo soliti vivere prima dello “stop” impostoci dall’emergenza sanitaria in corso.

In attesa che tutto torni alla normalità, intanto, le mamme impastano acqua e farina, proprio come facevano le massaie di una volta, mentre i ragazzi di oggi possono, così, assaporare dei piatti di pasta fresca che custodiscono in sé una storia antica, fatta di consolidate usanze e di preziose tradizioni.

                                           Alessandra Fiorilli

…e il TEMPO rivolle indietro il tempo che aveva regalato agli uomini

Privi di libertà e pieni di tempo…un tempo che, talvolta, ci sembra infinito, rallentato da una non-azione a cui ci ha costretto l’epidemia.

Da settimane, ormai, non diciamo più : “Ti chiamo io dopo, ora non ho tempo”, “Semmai ci vediamo un’altra volta, adesso devo correre”, Appena mi sarà possibile, verrò a trovarti, tempo permettendo”.

Ecco, ora il tempo abbonda in queste nostre vite trasformate, piene di interrogativi e di paure:  paura del contagio, paura dell’altro, paura di ammalarci, paura di diventare uno dei numeri che, quotidianamente, affollano l’ormai consueto e triste bollettino della Protezione Civile.

In questa dimensione mai sperimentata prima d’ora, in bilico tra l’assenza di libertà e l’assoluta necessità di questa “prigionia” forzata che è l’unico mezzo per lottare, tutti insieme, contro il virus, lui, il TEMPO sembra essere lì, in un angolo a guardarci, sembra che ci voglia dire: “Voi fermi e io che trascorro libero, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto, ora dopo ora. Quanto tempo  vi ho dato, nei mesi e negli anni passati… e quanto ne avete sprecato, buttato via, in sterili litigi, in vane lamentele, in fumosi chiacchiericci. E ora che ne avreste in abbondanza, e che vorreste riempirlo di abbracci, incontri, baci, strette di mano….ecco, ora siete lì, immobili, in attesa. E io, allora, mi prendo il mio tempo, il tempo che voi avete riempito con le vostre sciocchezze insulse, con le promesse che sapevano di falsità. Il tempo che non avete assaporato, quel tempo che non vi sarà più reso. Ricordatevelo, uomini, quando ne diventerete di nuovo padroni”.

                                                   Alessandra Fiorilli 

La tipica graffa napoletana e la sua “sorella”, la classica e golosa ciambella fritta

Una ciambella fritta…calda, morbida, cosparsa di zucchero.

E così, in questo periodo in cui l’emergenza sanitaria ha azzerato la nostra quotidianità, quanto ci manca una ciambella fritta mangiata in strada per celebrare un incontro casuale tra amici, un esame universitario andato bene, una serata dal cielo terso.

E quante volte quella stessa ciambella fritta mangiata in strada ci ha consolato, ha asciugato quella lacrima, ci ha addolcito l’animo stanco.

Nell’impossibilità di gustarla seduti ad una bar, in pasticceria, è sempre possibile prepararla in casa, anche perché la ciambella fritta è più di un semplice dolce: è un’amica, una confidente, una parentesi tra gli impegni quotidiani, una coccola.

Le sue origini, nonostante sia tra i dolci più apprezzati e consumati in Italia, sono, invece, austriache: si narra che sia giunta nella nostra penisola insieme agli Asburgo, i quali dominarono il Regno di Napoli che divenne parte integrante dei loro domini  con il Trattato di Utrecht del 1713.

Fu così che gli austriaci portarono con sé dei bombolotti fritti e cosparsi di zucchero: i Krapfen.

Sull’origine del nome ci sono due ipotesi: la prima, è quella legata a una certa pasticcera austriaca, Cecilia Krapf, la quale, alla prese con la preparazione di un impasto, lo fa,  accidentalmente, cadere in una padella di olio pronta ad accogliere altri alimenti da cuocere. Si rende, però, conto di aver creato un dolce gustoso e saporito che prenderà da lei il nome con il quale sarà noto in tutto il mondo.

La seconda ipotesi vuole che la parola Krapfen abbia origine dal termine austriaco “Krafo”, ovvero uncino, perché un’altra tradizione vuole che l’originaria forma ricordasse proprio quella di un uncino, appunto.

Con molta probabilità e per una chiara assonanza, da “Krafo” deriverebbe il nome con il quale le ciambelle fritte sono conosciute in Campania: graffe, che, a differenza delle classiche ciambelle consumate nel resto d’Italia, vengono preparate con le patate, oltre ai classici ingredienti quali la farina, le uova, il burro, il latte, la scorza di limone.

Qualsiasi sia il suo nome o la sua origine, quanto è bello gustare una ciambella calda ad occhi chiusi con quello zucchero che rimane sulle labbra e ai lati della bocca?

                                                   Alessandra Fiorilli

La Basilica Palladiana di Vicenza, simbolo della città e del genio artistico di Andrea Palladio

Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO dal 1994 e Monumento Nazionale dal 2014, la Basilica Palladiana a Vicenza, oltre ad essere il simbolo della città veneta, rappresenta il genio artistico di Andrea Palladio, architetto rinascimentale, il quale ebbe proprio nel Veneto il centro nevralgico della propria attività.

La Basilica, che domina la centralissima Piazza dei Signori sulla quale si affaccia, è in realtà frutto di una serie di progetti volti a modificare il preesistente Palazzo della Ragione, realizzato tra il 1449 e il 1460, che, così come il suo omonimo padovano, aveva la copertura a carena di nave rovesciata e ricoperta di lastre di rame.

L’edificio, prima dell’intervento di Andrea Palladio, ospitava, al primo piano, le Magistrature pubbliche di Vicenza e, al piano terra, le botteghe.

La facciata, caratterizzata da rombi in marmo rosso e gialletto di Verona, era ispirata volutamente al Palazzo Ducale di Venezia.

In seguito ad un crollo, le autorità cittadine vicentine passano al vaglio le proposte che giungano dai più eccelsi nomi dell’architettura veneta, ma, nel 1546, il Consiglio decide di affidare i lavori ad Andrea Palladio, giovane architetto di appena 38 anni, il quale propone di riprogettare il preesistente Palazzo della Ragione aggiungendovi delle logge in marmo bianco e serliane.

Gli interventi sull’iniziale struttura sono quelli che ancora oggi possiamo ammirare: una struttura al tempo stesso imponente ma agile, dinamica, caratterizzata dalle serie delle cosiddette serliane che si ripetono, ovvero una struttura composta da un arco affiancato da due aperture laterali rettangolari architravate.

In seguito al restauro che si è avuto tra il 2007 e il 2012, è visitabile anche la terrazza superiore, dalla quale si può ammirare la vista sulla città e sui monti che la circondano. Il perimetro della balaustra è ornato di statue realizzate, agli inizi del 1600, da Albanese, Grazoli e Rubini, fedeli ai disegni del Palladio.

La Basilica Palladiana, nonostante il nome evochi per i cristiani una funzione religiosa, è stata così chiamata dallo stesso Andrea Palladio per rendere  omaggio alle tradizioni dell’antica Roma, dove, nell’edificio chiamato appunto basilica, si discuteva di politica e di affari.

Intatta, invece, è rimasta la Torre detta dei Bissari, risalente al XII secolo e che è ben visibile dalla terrazza della Basilica

Il Salone del Consiglio dei Quattrocento, al piano superiore, si sviluppa su un’altezza di 24 metri e vanta una superficie di circa 1500 metri quadri , spazio, questo, utilizzato per allestimento di mostre.

Visitare la Basilica Palladiana significa diventare testimoni del  genio artistico di Andrea Palladio, uno tra i grandi nomi dell’arte italiana, ammirata ed invidiata in tutto il mondo.

                                              Alessandra Fiorilli

La storia della Zeppola di San Giuseppe, dolce tipico della Festa del Papà

La prima ricetta scritta della Zeppola di San Giuseppe la troviamo nell’opera “La cucina teorico pratica” redatta da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nato ad Afragola, paese in provincia di Napoli, dove poi è morto.

Parente del famoso poeta Guido e di nobili natali, la sua opera più nota, da lui rivista ed aggiornata più volte , è un omaggio alla cucina napoletana e, non a caso, tra le ricette spiccano quella della parmigiana di melanzane, della pizza fritta, dei vermicelli con le vongole, della minestra maritata.

Tra i dolci, invece, sono menzionate la famose Zeppole di San Giuseppe, che, nel trattato di Ippolito Cavalcanti, le troviamo preparate con farina, acqua, liquore d’anice, marsala o vino bianco, sale, zucchero e fritte nell’olio.

La zeppola che oggi conosciamo è arricchita, al suo interno, di crema pasticcera, la cui aggiunta successiva deriva, con molta probabilità, dalla dominazione francese sul territorio napoletano.

Mentre, invece, l’amarena sciroppata , si badi bene, e non la ciliegia, che viene posta alla sommità della zeppola  come decorazione, serve a regalare quel tocco di asprigno necessario a “spegnere” l’eccessiva dolcezza dell’impasto unito alla crema.

Così come per gli altri cibi fritti e che venivano solitamente mangiati in strada, anche le zeppole erano preparate sul momento, fritte da venditori che avevano, sino alla metà del secolo scorso,  i loro banchetti davanti la propria abitazione.

L’origine della zeppola legata ai festeggiamenti della Festa del Papà (anche se da anni ormai, compare dietro i banconi delle pasticcerie già durante il periodo di Carnevale, accanto alle tradizionali frappe e castagnole) sembra essere religiosa: alcuni, infatti,  narrano che  San Giuseppe, dopo la fuga dall’Egitto insieme a Maria e a Gesù, si diede alla vendita di frittelle per mantenere la propria famiglia.

Nell’antica Roma, invece, l’usanza di consumare frittelle fritte era legata alle feste delle Liberalia, che si tenevano proprio intorno alla prima metà di marzo, periodo nel quale si festeggiavano Bacco e Sileno, con fiumi di vino e, appunto, cibo dolce fritto.

Se la classica Zeppola di San Giuseppe ha origini napoletane, in altre parti d’Italia si è soliti preparare altri dolci che, in comune con quello campano, hanno i classici ingredienti per l’impasto e la crema come ripieno, ma non sono decorati con l’amarena, , come il Bignè di San Giuseppe, tipico di Roma.

In Toscana e in Umbria, molto diffusa è la frittella di riso, mentre in Emilia Romagna, è la raviola, simile al bignè romano di San Giuseppe.

Tanti auguri a tutti Papà dalla rivista EmozionAmici.

                                       Alessandra Fiorilli

Il tramonto che ci manca e la libertà che tornerà, se rimaniamo uniti

Sono giorni  difficili per la nostra nazione, con un bollettino giornaliero di contagiati, ricoverati e morti che ci fa sentire in guerra, con i nostri sanitari in lotta contro il tempo e con i posti in terapia intensiva al limite del collasso. Chi ha la fortuna solo di rimanere a casa, sta sperimentando, forse per la prima volta, una limitazione di quelle libertà che sembravano scontate e una cancellazione pressoché totale di quella vita che poteva sembrare, talvolta, banale.

E’ indubbio che lo stare in casa per impedire il diffondersi della catena di contagio, diventa sopportabile al pensiero di coloro che si trovano ricoverati nelle terapie intensive, dove non possono incontrare i propri cari e dove la paura della morte si accompagna allo strazio di non poterli vedere neanche un’ultima volta.

Ciò che sta accadendo ha contorni apocalittici e se solo qualcuno, un po’ di tempo fa, ci avesse predetto un tale scenario, saremmo andati via con una smorfia di disgusto, tanto era impossibile credere che, nell’arco di qualche settimana, ci avrebbero chiesto un’autocertificazione per andare a fare la spesa e ci saremmo trovati separati dai nostri familiari solo perché non vivono nella nostra stessa casa.

Il momento che manca di più, specie per coloro che hanno la fortuna di vivere in un paese o in una città sul mare, è quello del tramonto. Non a caso, su Facebook e su Instagram, le foto che più spesso vengono pubblicate e condivise sono quelle che immortalano i minuti dopo che il sole è scomparso all’orizzonte, “gettandosi in mare”.

E lì,ogni sera, il cielo si tinge di arancione carico e di rosso, e l’animo si apre, accogliendo in sé la forza e l’incomparabile bellezza della natura.

Ecco, oggi, questo editoriale, è dedicato al tramonto che ci manca guardare in silenzio.

In questa foto si vedono degli uccelli in volo, da sempre simbolo massimo della libertà,  di questa libertà che oggi tanto ci manca.

Potranno arrivare altri tramonti e altri voli da guardare ma per tornare alla nostra vita dobbiamo restare a casa e credere ciascuno nel sacrificio dell’altro.

Uniti ce la faremo.

                                             Alessandra Fiorilli

L’incanto del Castello “Miramare” di Trieste

E’ il 1855 quando l’arciduca Massimiliano d’Asburgo sceglie il promontorio di Grignano, a circa 6 chilometri da Trieste, come luogo per far sorgere una residenza dove la distesa d’acqua salata sarà la principale protagonista del castello il quale verrà chiamato, non a caso,  “Miramar”, che in spagnolo significa, appunto, “guarda il mare”.

E il mare ti accompagna sin dal momento in cui ci si incammina per raggiugere l’ingresso del Castello stesso.

Quando il cielo è terso, lo spettacolo che offre la distesa d’acqua salata e la natura circostante, ti avvolge in un girotondo di emozioni fortissime, intense, che non ti lasceranno per tutta la durata della visita, terminata la quale il ricordo di quelle sale, del parco, della scalinata che collega i due piani, degli oggetti appartenuti a Massimiliano e a Carlotta, sua moglie, ti faranno compagnia, per sempre.

Oltre al mare, l’altra protagonista della residenza, è il verde che si estende per 22 ettari e che costituisce il Parco del Castello, voluto fortemente dall’arciduca austriaco.

La natura che, infatti, Massimiliano trova, al momento dell’acquisto dei vari lotti, è  una natura scarna ma, grazie alla consulenza di un grande botanico, l’intera area  si arricchirà di alberi e piante da tutto il mondo che conviveranno insieme, in armonia.

Il progetto del parco sarà  affidato, come quello dell’intero Castello, all’architetto austriaco Carl Junker.

Il piano terra ospita le camere dove Massimiliano risiedette con la moglie Carlotta, mentre il primo livello è il piano di rappresentanza, dove venivano accolti gli ospiti.

Chi ha la fortuna di visitare il Castello, ne può ammirare gli arredi originari, mentre la distesa del mare che si perde a vista d’occhio è una presenza, al tempo stesso, discreta e travolgente, in tutte le stanze.

Tra le varie sale in cui si articola il percorso della visita, spicca  quella che ricorda l’arredamento tipico di una nave: fu, infatti, proprio Massimiliano d’Asburgo a volere che una stanza fosse lo specchio fedele dell’arredamento della fregata sulla quale era imbarcato, mentre assolveva il servizio per la Marina d’Austria.

Ai piedi del Castello, un piccolissimo porticciolo dotato di un pontile di circa 7 metri, al quale si accede da una scalinata.

E dopo aver indugiato sul profilo di “Miramare” che si staglia all’orizzonte in tutta la sua magnificenza, ti accorgi che non riesci proprio a lasciarti alle spalle cotanta bellezza, e, così, ti giri più volte, e sembra quasi di vederli Massimiliano e Carlotta i quali, come narra la storia, proprio in questo castello, vissero i momenti più felici della loro vita.

                                                 Alessandra Fiorilli

Tra antiche tradizioni, classiche ricette e un pizzico di innovazione, ecco le protagoniste del Carnevale: le frappe e le castagnole.

Tra carri allegorici e cortei in maschera, tra stelle filanti e coriandoli, ecco arrivare anche loro: le frappe e le castagnole, i dolci tipici di questa festa antica, che affonda le sue radici nell’antica Roma dove, in onore di Saturno, si organizzavano feste goliardiche chiamate, appunto, Saturnalia.

Era questo, un periodo nel quale l’ordine delle cose poteva essere sovvertito per tornare, poi, rinnovati e rigenerati, ad un assetto nel quale la morigeratezza dei costumi  ed il rispetto delle regole avrebbero rappresentato, nuovamente,  il cardine fondamentale dell’intera società.

Durante i Saturnalia, non poteva certo mancare la celebrazione anche della gola: ecco nascere, i Frictilia, ovvero dei dolci fritti nello strutto che venivano distribuiti alle persone le quali, durante questo periodo delle storia romana, si riversavano, numerose, nelle strade.

E sempre un grande gastronomo  e cuoco, nonché scrittore romano, Marco Gavio Apicio, parla nel suo libro “De re coquinaria”, di frittelle a base di uova e farina tagliate a bocconcini, fritte nello strutto e cosparse di miele.

Con l’avvento del Cristianesimo la festa del carnevale rappresenta l’ultimo avamposto della celebrazione dei peccati di gola e della goliardia, non a caso il Martedì Grasso, che conclude il Carnevale, precede di un  giorno il Mercoledì Delle Ceneri, con il quale ha inizio la Quaresima, che conduce alla celebrazione della Santa Pasqua.

Proprio  il nome Carnevale sembri derivi dal latino “Carne levare”, ovvero togliere la carne,  perché, secondo l’ortodossia cristiana, nei quaranta giorni che vanno dal martedì grasso alla Pasqua di Resurrezione, non andrebbe consumata la carne.

Inalterate sono rimaste, invece, sin dall’epoca romana, le tradizioni legate alla preparazione e al consumo dei dolci: le classiche frappe, dirette discendenti delle  Frictilia, sono ancora il simbolo di questa festa, anche se la ricetta più simile a quella dell’odierna frappa, è quella che Domenico Romoli scrive, nel 1560, in un suo libro, dove parla di questo impasto a base di farina, uova, zucchero, stesa, tagliata a strisce, fritta nello strutto e cosparsa di miele.

Regione che vai, nome che trovi di queste gustose strisce di pasta dai bordi arricciati e spolverate di abbondante  zucchero a velo: chiacchiere, cenci, frappole, crostoni, bugie.

Una leggenda vuole che proprio il nome di chiacchiere, con cui sono conosciute in molte regioni d’Italia,  sia legato alla richiesta della regina di Casa Savoia al suo cuoco Raffaele Esposito, di deliziare le conversazioni, o chiacchiere, appunto, nelle stanze di Palazzo Reale  con dei dolci fragranti, semplici ma saporiti.

Con il tempo si sono aggiunte anche delle varianti alla ricetta originaria: c’è chi aggiunge all’impasto, ad esempio, il marsala, il Vin Santo o quello bianco.

Più recente, invece, l’origine dell’altro dolce tipico del carnevale: le castagnole, così chiamate perché, per la loro forma e dimensione, ricordano, appunto,  quella della castagna.

I primi cenni scritti di quest’altra delizia, li troviamo nell’Archivio di Stato di Viterbo: siamo nel 1700, ma c’è chi fa risalire la comparsa delle castagnole, impasto a base di uova, zucchero, farina, burro, un secolo prima, alla corte degli Angiò e dei Farnese.

Anche le castagnole, nel corso del tempo,  hanno visto aggiungere al loro impasto originario, il rum, il cioccolato, l’alchermes, così come le frappe hanno conosciuto anche un altro metodo di cottura, quella al forno.

Cambiano il tempo e le abitudini ma loro, le frappe e le castagnole, rimangono sempre le indiscusse protagoniste del Carnevale.

                                             Alessandra Fiorilli

Ipercolesterolemia familiare, Dislipidemie e Sindrome Metabolica: ne parliamo con uno dei maggiori esperti internazionali, il Professor Paolo Calabrò

Di ipercolesterolemia si parla quando il colesterolo, grasso fondamentale per l’uomo, prodotto principalmente dal corpo ed introdotto per un 20/30% con l’alimentazione, supera i 200 mg/dl.

Se l’ipercolesterolemia si associa al diabete e all’ipertensione, può causare, più facilmente, la formazione di placche aterosclerotiche e c’è una probabilità maggiore che si registrino eventi cardiovascolari come l’infarto del miocardio, l’ictus cerebrale e l’ischemia degli arti inferiori.

Ne parliamo con uno dei massimi esperti in campo internazionale, il Professor Paolo Calabrò,  direttore della UOC di Cardiologia Clinica a Direzione Universitaria dell’A.O.R.N Sant’Anna e San Sebastiano a Caserta, direttore del Dipartimento Cardio-vascolare e Professore Ordinario della  Cattedra di Cardiologia, presso il Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”.

Il Professor Paolo Calabrò (Foto per gentile concessione di Paolo Calabrò)

All’interno del quadro generale dell’ipercolesterolemia, esiste quella di tipo familiare, che si ha, più spesso: “A causa  dell’alterazione genetica del recettore LDL”, ossia il recettore del colesterolo cosiddetto “cattivo”.  Chi ha queste mutazioni e, quindi, alti livelli di colesterolo sin dalla nascita, va incontro ad una rapida formazione di placche aterosclerotiche. Attraverso dei prelievi ematici in alcuni Centri specializzati, come il Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, è possibile eseguire dei test genetici che possono confermare o meno la diagnosi di ipercolesterolemia familiare.  Eseguiti gli esami ematologici di routine, come colesterolo totale, HDL, LDL, emocromo, glicemia, funzionalità epatica, tiroidea e renale, il paziente sarà seguito nel percorso di follow-up e, scelta la terapia migliore, tornerà presso il centro, per monitorare il tutto.  Uno screening familiare consente, quindi, di poter intervenire in maniera tempestiva all’interno di un quadro dove, purtroppo, l’assunzione di integratori alimentari, quali il riso rosso fermentato, hanno un ruolo marginale. In questi casi, il ricorso alle statine, che agiscono soprattutto sull’inibizione della produzione del colesterolo endogeno da parte del fegato, è necessario. Demonizzate da più parti, hanno subito un attacco indiscriminato. Non possiamo dire che non abbiano effetti collaterali, ma il più delle volte sono proprio necessarie, inoltre, quelle messe a punto più recentemente, risultano maggiormente tollerate.”

Talvolta alla statina, che va ad agire sul processo di sintesi, si associa anche all’ezetimibe, che ha la funzione di limitare l’assorbimento dello stesso colesterolo. “Ultimamente ci sono anche farmaci di ultima generazione, come gli inibitori di PCSK9 che sono mostrati sicuri ed estremamente efficaci nel ridurre il colesterolo LDL”.

Il paziente che è affetto da ipercolesterolemia familiare, però, non deve schermarsi dietro questa alterazione genetica e pensare che nulla possa fare, oltre ad assumere i farmaci: “Anche per questi soggetti è importante seguire uno stile di vita adeguato, ovvero un’alimentazione varia ma corretta, e praticare un’attività fisica regolare, che aiuta, specie nei pazienti in sovrappeso, a diminuire il gito vita, ad abbassare la pressione arteriosa e a e far rientrare a valori accettabili anche la glicemia, che può trovarsi in concomitanza ad alti valori di colesterolo.”

Per quanto attiene all’alimentazione, il Professor Calabrò sottolinea come: “Per alcuni cibi non è il caso di parlare di abolizione totale, come per i formaggi, quanto di riduzione e moderazione nell’assunzione. Il junk-food, invece, è da eliminare, ma questo vale per tutti e non solo per chi è affetto da ipercolesterolemia familiare”. 

Accanto ai soggetti che sono affetti da tale patologia,  c’è un’altra tipologia di pazienti, ovvero coloro i quali si trovano a dover fronteggiare elevati tassi di colesterolo e trigliceridi nel sangue a causa di un’alimentazione e di uno stile di vita scorretto:” Siamo di fronte da un quadro clinico misto, che in gergo medico chiamiamo dislipidemia, caratterizzato da colesterolo, trigliceridi, basso colesterolo HDL, il cosiddetto colesterolo buono; quadro, anche questo, che conduce allo sviluppo di placche aterosclerotiche. C’è comunque da fare un distinguo necessario: in presenza del solo colesterolo è più facile agire prima che si formino le placche, le quali, senza un trattamento specifico, per loro naturale storia, tendono ad aumentare. Nonostante tutto, chi dovesse riscontrare la presenza di placche aterosclerotiche, ad esempio attraverso un ecocolordoppler dei tronchi sovraortici, non deve sentirsi “bollato”. La placca, grazie alla somministrazione di farmaci, può persino  diminuire”.

Si sente parlare sempre più spesso anche di Sindrome Metabolica: “Anche questa è causata spesso da uno stile di vita scorretto ed è caratterizzata da un aumento della circonferenza della vita, ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, diabete e dislipidemie”

Un cambio di alimentazione unito a un’attività fisica regolare, possono essere d’aiuto per combattere tale sindrome: “Sono sufficienti 30, 40 minuti di camminata a passo sostenuto ogni giorno per 4-5 volte la settimana. La camminata veloce, inoltre, è in grado di far aumentare il colesterolo buono. Bene anche l’assunzione, moderata, di vino rosso che contiene polifenoli”.

                                               Alessandra Fiorilli