Sul finire del 1600 faccio la mia comparsa sulle tavole toscane: custodisco, nel mio impasto, di farina, zucchero e chiara di uovo, come scrive di me la prestigiosa Accademia della Crusca.
Qualche anno dopo aggiungono anche le mandorle, ma bisognerà attendere il 1800 affinché io possa assumere le fattezze che oggi tutti conoscono ed apprezzano.
Ho
l’onore di essere portato persino a Parigi, in occasione dell’Esposizione
Universale del 1867.
Nasco da un impasto a forma di filoncino a base di farina, zucchero, uova, burro, miele e mandorle che viene poi tagliato a fette, e non è un caso che il mio nome cantuccino, derivi proprio “cantellus” che, in latino, significa pezzo o fetta di pane.
Ho molti fratelli sparsi in tutta Italia: nel Lazio ed in Umbria si chiamano tozzetti, in Basilicata stozze e in Sicilia tagliancozzi. Siamo tutti buoni ma, mentre alcuni di loro sono preparati anche con nocciole o gocce di cioccolata, io seguo l’antica ricetta perché mi fregio del marchio IGP, Indicazione Geografica Protetta.
Il mio compagno di avventure è il Vin Santo, ottenuto da uva trebbiano o malvasia e lasciata appassire dopo la raccolta.
L’aggettivo “Santo” sembra derivi dal fatto che un frate francescano, mentre la peste si era impossessata di Siena, nel XIV secolo, avesse curato dei malati proprio con il vino usato durate la celebrazione eucaristica.
Altri raccontano che qualcuno, giunto a Firenze dalla Grecia, assaggiando il vino, avesse detto che tanto somigliava al loro “Xatos”, il passito greco e da qui, per assonanza, il nome italiano di “Santo”.
Qualunque sia la sua origine, il Vin Santo è il mio compagno preferito perché mi ammorbidisce, rendendomi irresistibile e non c’è mai nessun turista che vada via dalla Toscana senza avermi gustato e io, ogni volta, mi lascio andare languidamente…
Ogni fascia d’età presenta aspetti peculiari, da un punto di vista ormonale, che richiedono una dieta specifica.
Dieta…quante
volte abbiamo letto e sentito questa parola e quante volte è stata associata a
un regime alimentare sinonimo di privazione e talvolta persino di “fame”: tale
termine, invece, è da leggere nel suo aspetto etimologico per comprenderlo
completamente.
“Dieta” deriva dal greco “daita” e significa regime di vita che ha come suo pilastro un’alimentazione sana ed equilibrata avente come obiettivo il benessere a la salute, non dimenticando del tutto i piaceri della buona tavola.
Come già accennato all’inizio, un regime sano ed equilibrato è indicato ad ogni età, ma ci sono delle fasce o delle condizioni che ne richiedono uno ancora più specifico: è il caso dei bambini, degli adolescenti, delle donne in gravidanza, in allattamento o in menopausa, degli anziani ma anche di coloro che sono in sovrappeso o obesi o di chi è affetto da particolari patologie.
Anche
gli sportivi o chi segue un regime alimentare vegetariano o vegano ha necessità
di seguire un’alimentazione specifica.
Dei vari aspetti di una dieta, con un’ attenzione rivolta a quella per la Terza Età, ne parliamo con il Dottor Rolando Alessio Bolognino, Biologo Nutrizionista, Professore al Master in Scienze della Nutrizione e Dietetica presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Professore al Master in Medicina Oncologica Integrata presso l’Università degli Studi di Roma “Guglielmo Marconi”, Istruttore di protocolli Mindfulness per la riduzione dello stress. Autore di libri ed esperto scientifico sulle reti nazionali, nelle trasmissioni “Uno Mattina”, “La Prova del cuoco”, “Buongiorno Benessere” su RAI 1, su “Tutta Salute” su RAI 3, Rete 4, LA7, Sky.
L’anziano,
fino alla metà del secolo scorso, era il nonno che, terminata la sua attività
lavorativa, era a casa, quasi del tutto privo di interessi e che si
accontentava di non aver malattie per dire di star bene.
Ma
il benessere, oggi, è fatto di tante sfaccettature e non è più, fortunatamente,
solo assenza di patologie, ma è un discorso che spazia dall’alimentazione
all’attività fisica.
Per questo parliamo con il Dottor Bolognino dello stile di vita da tenere nella Terza Età.
“Molti
anziani hanno la tendenza a
dimagrire, per disturbi legati alla masticazione o al gusto, ad esempio, o ad ingrassare, spesso per sedentarietà e assenza di
attività fisica. E’ per questo che bisogna
valutare attentamente, anche per l’anziano, i bisogni reali dell’individuo e le
necessità. Come discorso molto generale sull’alimentazione, possiamo dire
che eliminare cibi dalla dieta, a meno che non ci sia una patologia che lo richieda,
non è mai un bene”.
L’anziano che vuole vivere bene la sua età: “Deve fare pasti piccoli e frequenti: mangiare per prevenire la fame, questa è la parola d’ordine. Così come è importante bere molto prima ancora che arrivi la sete, perché a quel punto c’è persino il rischio di disidratazione”.
Con
il passare degli anni, ciascuno di noi, inevitabilmente, va incontro ad una perdita
di massa muscolare “Perdiamo ogni anno tra lo 0,1 o lo 0,4 % del muscolo, e questo fenomeno
prende il nome di sarcopenia. E’ inevitabile, ma possiamo tutelarci mangiando
bene e cercando di modificare lo stile di vita”.
A tal proposito, il Dottor Bolognino fa un distinguo tra: “Vita attiva, quindi muoversi a piedi, salire le scale, passeggiare in bicicletta” e “Attività sportiva, caratterizzata da un inizio e da una fine dell’allenamento e da un’intensità di lavoro programmata”.
Per
la Terza Età, specie le donne, molto indicate sono : “Yoga, pilates, posturale, attività
dolci che favoriscono comunque l’allungamento e la tonicità muscolare”.
Il sesso femminile deve fronteggiare, infatti, con il passare degli anni anche l’osteoporosi:“Lo stadio precedente all’osteoporosi è quello dell’osteopania, ovvero la perdita di calcio da parte delle ossa. Per rallentarne il processo, anche in questo caso, a fare la differenza è il movimento, ovvero portare il carico sull’osso stimola quest’ultimo a trattenere il calcio e rimanere elastico. Quando il calcio, invece, non viene trattenuto dalla matrice ossea questa cristallizza divenendo fragile”.
Tornado
alla dieta per la Terza Età, “Il primo alimento magico è l’acqua
oligominerale con residuo fisso (la quantità di minerali disciolti) tra i 100 e i
200 mg/l “
Attenzione
al latte, spesso non sufficiente per contrastare l’osteoporosi: “In realtà ho più successo quando tolgo il
latte dalla dieta che quando lo inserisco. Al
suo posto è da preferire lo yogurt,
più digeribile e che ci permette di assumere calcio durante gli spuntini,
quindi a metà mattina o a metà pomeriggio.”
Bene
anche i: “Formaggi magri, con una percentuale di grassi tra il 10 e il 12%, quale
la ricotta di mucca o un buon formaggio stagionato come il parmigiano,
ottimi come scelta per un secondo”.
Il cibo
non è solo una necessaria fonte di sostentamento, ma ha un potere ancora poco conosciuto:“Occupandomi di nutrizione oncologica, ho potuto constatare come
modificando la propria alimentazione, andando a preferire alcuni alimenti specifici
durante la chemioterapia escludendone alcuni, consenta al paziente di ridurre
drasticamente gli effetti negativi quali la nausea e il vomito”.
L’alimentazione è anche da considerarsi, quindi come: “Cura e prevenzione”, tanto che “Alcuni tipi di tumore, come quello del colon e del seno hanno un rapporto fino al 70% con il cibo”.
E per quanto attiene all’uso di integratori, il Dottor Bolognino così si esprime: “E’ da considerare solo se necessario. Assistiamo oggi a un fenomeno particolare: siamo una società alla ricerca del “senza”: glutine, lattosio, zucchero, grassi. Paghiamo di più per avere meno! E poi andiamo continuamente alla ricerca di integratori! L’eventuale uso di integratori è da valutare caso per caso”.
La dieta equilibrata: “Con alimenti di stagione” è il toccasana per qualsiasi fascia di età e agli anziani:“E’ consigliato assumere proteine in piccole quantità e facilmente digeribili. Quindi bene carne magra e sottile, pesce azzurro, uova purché siano di classe 0/1 (quindi allevate a terra), legumi. Ogni giorno poi consiglierei di inserire una centrifuga/estratto di verdura quali finocchio, carota, rapa, crescione, broccolo, spinacio, zenzero e un frutto, per rendere il sapore più gradevole”.
Al
termine dell’intervista ringrazio il Dottor Bolognino non solo per i suoi
preziosi consigli, ma soprattutto per la chiara incisività del suo messaggio,
forte di una competenza in campo della nutrizione, ma soprattutto di una
grande passione per il proprio lavoro.
E
grazie perché il Dottor Bolognino ci ha fatto comprendere come siano poche, ma fondamentali
le regole da seguire per stare in salute.
Perché la vita, se non afflitta da patologie, è bella, ricca, piena, a qualsiasi età.
Accompagna
ogni singolo nostro respiro, si emoziona con noi, asseconda paura e timori, ma
anche gioie e felicità.
E’
l’emblema stesso dell’essere in vita e, nel corso dei secoli, è stato osannato
da poeti, letterati, musicisti.
Rappresenta
l’amore, impariamo a disegnarlo sin da piccoli e, da quando sono comparse le
emoticon, il suo simbolo è tra i più usati.
Stiamo
parlando del cuore, di quest’organo che percepiamo, che sentiamo, e la cui
variazione di ritmo e velocità, se non dovuta a fattori esterni oggettivamente
rilevabili, ci mette in allarme.
Il campo delle aritmie e delle tachicardie è vasto e, per far chiarezza, ho intervistato uno dei maggiori esperti della cardiologia italiana: il Dottor Massimo Grimaldi, il quale, nel 2017 ha ricevuto il premio come miglior cardiologo d’Italia ai Top Doctord Awards, con la seguente motivazione: “Premio all’eccellenza come specialista di prim’ordine conferito dalla comunità medica italiana attraverso le segnalazioni ricevute durante il 2017.”
La
branca che studia la formazione e la conduzione degli impulsi elettrici del cuore è quella
dell’Elettrofisiologia Cardiaca. L’ Aritmologia si
occupa dei disturbi del ritmo cardiaco e proprio dell’Unità Operativa Semplice Dipartimentale di Artimologia il Dottor
Grimaldi è il Responsabile, presso l’Ospedale F. Mulli di Acquaviva delle
Fonti, Bari, e sempre di questa branca
è stato docente presso la Scuola di Specializzazione in Cardiologia presso l’Università
di Foggia.
Dopo
il conseguimento della Laurea con lode
in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Bari, si specializza in Cardiologia presso lo stesso ateneo, per
conseguire poi il Dottorato di Ricerca
in Fisiopatologia e Clinica dell’Apparato Cardiovascolare e Respiratorio presso
l’Università di Pisa.
Esperienze
maturate all’estero, numerose pubblicazioni a carattere scientifico, circa 6000 ablazioni transcatetere, completano
il brillante e ricco curriculum del Dottor Grimaldi, il quale, in merito alle aritmie, così si esprime:
“Il
cuore è un muscolo e ha bisogno di un impulso elettrico per attivare la contrazione. Normalmente il cuore si contrae per 60-80
battiti al minuto (b/m), nel momento in cui si registra una perdita
di ritmicità o un incremento (oltre i 100 b/m) o una diminuzione (al di sotto di 60 b/m) di
tali battiti, parliamo di aritmia,
che può essere fisiologica o patologica”.
Quante
volte, a causa di un’emozione o di uno
sforzo, avvertiamo che il nostro cuore sta battendo più velocemente; anche
la febbre o la digestione accelerano la frequenza cardiaca. Ecco :”Tutte queste situazioni generano tachicardie che si definiscono fisiologiche in quanto sono provocate
da una normale reazione del nostro organismo. Nulla di cui preoccuparsi se
il cuore arriva a registrare, limitatamente a quel contesto, anche i 180
battiti al minuto”.
Importante
è anche la modalità in cui il cuore
accelera i suoi battiti, se avviene “Gradualmente e torna alla sua velocità normale in modo
progressivo, non c’è nulla di cui allarmarsi, solitamente si tratta di
tachciardie fisiologiche. Di contro quando l’accelerazione è improvvisa, brusca
quasi sempre si tratta di tachicardie patologiche.”
L’aritmia assume fattezze che possono
destare preoccupazione, richiedendo, così,
il ricorso a uno specialista,:”L’aritmia
che deve destare allarme è quella che insorge in maniera immotivata, ovvero non a causa di un’emozione o di uno
sforzo. L’aumento, inoltre, dovrà essere
brusco e il cambio di ritmo repentino. Pertanto, quando i battiti superano,
velocemente e senza motivo, i 150-160 b/m, è il caso di approfondire, perché molto
probabilmente ci troviamo di fronte ad un’aritmia patologica”.
Le tachicardie dunque possono essere sia fisiologiche che patologiche, ma quelle patologiche sono sempre pericolose? “Possiamo dividere le tachicardie in due gruppi: quelle sopraventricolari che generalmente sono soltanto fastidiose e che provengono dagli atri, e quelle ventricolari, che invece nascono nei ventricoli, e che possono anche essere a rischio di vita. Quando le tachicardie causano una sincope, ovvero una perdita transitoria di coscienza, possono essere particolarmente pericolose ed è opportuno chiamare immediatamente il 118”. Tra le tachicardie sopraventricolari, ricordiamo la fibrillazione atriale, che è caratterizzata da un battito particolarmente irregolare. Questa aritmia non è immediatamente pericolosa per la vita, ma aumenta notevolmente il rischio di ischemie cerebrali se non opportunamente trattata.
La tachicardia:” Si può rilevare anche con un semplice elettrocardiogramma, che è un
esame fondamentale. Nei casi in cui gli episodi sono sporadici la diagnosi può
essere posta con un elettrocardiogramma di lunga durata chiamato ECG- secondo Holter. La durata del monitoraggio
solitamente è di 24 ore ma può arrivare ad oltre 3 anni: in quest’ultimo
caso, l’apparecchio è sottocutaneo e viene iniettato quasi come un micro-chip”.
Altro
evento spesso viene riferito dai pazienti è quello del: “Colpo in gola,che in realtà è un sintomo causato da un’extrasistole, ovvero una contrazione
anticipata del cuore. Queste, nonostante
il paziente le avverta come fastidiose, nella maggior parte dei casi sono benigne, tuttavia se il soggetto è affetto da
altre patologie cardiache o se avverte dolori al petto, sincopi o presincopi è
meglio che consulti un medico”.
Ringrazio
il Dottor Grimaldi per la sua grande capacità di aver illustrato, in maniera
semplice e accurata le manifestazioni più frequenti legate alle aritmie
cardiache.
Una
terra come quella siciliana, che ha vissuto un esodo massiccio tra gli anni ’60
e ’70 del secolo scorso, non attende altro
che i suoi figli sbarchino dagli aerei o
dal traghetto che attraversa quel lembo di mare che la separa dalla Calabria.
E
cosa è Natale se non un ritorno a casa, tra le braccia dei propri familiari,
tra gli odori di una terra mai dimenticata?
E cosa è Natale se non preparare, in onore di chi ritorna in occasione del Natale, la tradizionale Scaccia cotta ancora nel focolare domestico?
Semplice ma gustosa, la Scaccia è una sorta di pizza-pane preparata con farina di semola di grano duro, lievito di birra e sale, ingredienti che, impastati insieme e fatti crescere, vengono poi lavorati nuovamente aggiungendo dell’olio extra vergine di oliva. L’impasto così ottenuto viene poi divisi in tanti panetti che vengono spianati. Poi si comincia a preparare il ripieno: la ricetta vuole che ci sia, al suo interno, la ricotta, le cipolline, l’uomo sbattuto e il formaggio. Il composto viene poi messo nella sfoglia di pasta e arrotolato sui bordi. Dopo aver passato sulla superficie un po’ d’olio, la Scaccia è pronta per essere infornata per circa mezz’ora in quel forno in pietra ancora ospitato in molti casolari di campagna.
La storia vuole che la Scaccia arrivò, per la prima volta sulla tavole natalizia, nel 1763, quando il Principe Moncada, la volle per celebrare la Santa Festività: da allora è sinonimo di Natale, di famiglia, di ritorni.
Tra i dolci tipici siciliani del periodo natalizio, invece, spicca il famoso torrone di mandorle, noto anche con il nome di cubaita, di origine saracena, tanto che il termine arabo qubbait significa proprio mandorlato.
La ricetta più diffusa e tipica,
infatti, vuole che siano utilizzate per la preparazione solo le mandorle unite
a zucchero
e miele, anche se ci sono varianti
nell’uso della frutta secca: c’è chi preferisce preparare il torrone con i
tipici e famosi pistacchi dell’area etnea in provincia di Catania o con il
sesamo.
Tipici della zona di Ragusa, anche le praline di cioccolato con la pasta di mandorle mista a cacao. Tradizione vuole che le prime a preparare questi deliziosi dolcetti siano state le suore del Monastero di San Carlo di Erice, e sempre in un Convento, quello di Martorana, a Palermo, nacque la pasta di mandorla, usata per la preparazione di rinomati dolci.
E anche se la Scaccia, il torrone alla mandorla, i pasticcini, possono essere preparati anche durante tutto l’anno, la magia dell’atmosfera natalizia regala loro un gusto unico e particolare, capace di arrivare sin dentro l’animo.
La tradizione è quell’anello che unisce due sponde egualmente importanti nella vita dell’uomo: il passato e il futuro. E così, ciò che è appartenuto agli avi diventa di nuovo nostro, nel presente, ed è pronto a tuffarsi nel futuro, laddove le nuove generazioni raccoglieranno il testimone fatto di sapori, emozioni, momenti di convivialità che si vivono, si assaporano, si ricordano.
E cos’è il Natale se non la massima espressione di condivisione e di tradizioni che strizzano l’occhiolino e che ci chiamano, ci ammaliano, ci rapiscono?
L’articolo di oggi apre una serie di storie legate alle tradizioni natalizie italiane: iniziamo con quella napoletana, fatta di un pranzo del 24 “di magro”, dove la pizza di scarola è la protagonista, pronta, poi, a passare il testimone ai dolci il cui nome fa subito Natale: struffoli, roccocò e mostaccioli.
Ma iniziamo dalla prelibata pizza di scarola che affonda le sue radici in centinaia e centinaia di anni fa, quando le donne di Napoli, per il pranzo della Vigilia, impastavano gli ingredienti della classica pizza con friarielli (che verranno poi abbandonati) e scarola, le due verdure più diffuse sulle tavole dei napoletani. Il cenone che sarebbe arrivato in tavolo la sera richiedeva stomaci sgombri da ogni prelibatezza e così all’ora di pranzo, le famiglie erano solite mangiare la pizza di scarola arricchita da uvetta passa, pinoli, olive, capperi, e anni dopo, anche con acciughe sotto sale debitamente diliscate.
E così il classico piatto povero per eccellenza, ovvero la verdura condita accompagnata dal pane, si era trasformata in una pizza alta, soffice, umida e morbida che solo chi l’ha gustata almeno una volta ne conosce l’inconfondibile sapore.
Ma
Natale è anche e soprattutto dolci…dolci che non sono solo da gustare ma da
ammirare, quasi fossero opere d’arte le quali nascono, ancora oggi, non solo in
tutte le pasticcerie, ma anche e soprattutto nelle case dove le mamme non hanno
mai relegato in un angolo le tradizioni
della propria famiglia, ma la continuano a portare avanti, con gioia e
pienezza d’animo.
Proprio
come le sorelle Maria, Rita e Rosa le
quali, in prossimità delle feste natalizie, inondano le proprie case di odori e
sapori che non sanno solo di zucchero, miele, cioccolato ma di tradizioni, di
desiderio di voler continuare a fare ciò che la madre e le nonne erano solite
fare per loro.
Immancabile
ad arrivare sulle loro tavole, la pizza di scarola :” Che dava la possibilità alle donne, di impiegare tutto la giornata
del 24 nella preparazione del cenone”, come dichiara Maria.
Ma
l’aria si riempie di buonissimi odori molti giorni prima di Natale, con quei
dolci che:” Vengono preparati con largo
anticipo in quanto, essendo secchi e senza creme al loro interno, si conservano
senza problemi”.
E quando si parla di dolci natalizi, immancabile sulle tavole, il re: gli struffoli : “Palline di pasta con farina uova, zucchero che vengono fritte e poi, una volta raffreddate, colate di miele e decorate con confettini colorati”.
La tradizione vuole che il nome struffoli derivi dal greco, ma non si esclude un legame anche con la lingua e la tradizione spagnola che ha tra i suoi dolci la pinonate, che molto ricorda i nostri struffoli.
Francese sembra invece essere l’origine del nome roccocò, altro famosissimo dolce natalizio campano: “Un impasto di farina, zucchero, mandorle o nocciole e pisto, ovvero un mix di spezie”.
Delizia per il palato e “uno tira l’altro” i mostaccioli, rombi di pasta morbida con la variante al rum e cosparsi di glassa al cioccolato.
E
così, quando arriva Natale, con lui giungono da un remoto passato anche quegli
antichi gesti, sapori, odori, sapori che ci prendono ancora per mano,
accompagnandoci verso il futuro.
Tra Udine e la valle dell’Isonzo, la cui parte alta sconfina in territorio sloveno, proprio ai piedi di quei colli che ad osservarli bene ti parlano di battaglie della Grande Guerra con le sue trincee, ecco proprio lì, sopra le sponde del fiume Natisone, Cividale del Friuli ti accoglie tra le sue mura e i suoi palazzi.
Le sue origini affondano in epoca romana, quando Giulio Cesare, dà a questo centro geograficamente strategico, il nome di Forum Iulii, nome che verrà cambiato nel corso dei secoli a seconda della dominazione che subirà. La denominazione attuale, molto probabilmente, deriva dal nome che prenderà nel X secolo: quello di Civitas vel Castrum Foroiulianum, che verrà abbreviato dalla popolazione in Civitate, e poi, trasformato dal dialetto locale, in Sividat, Zividat, Cividat, nome, quest’ultimo, molto simile a quello attuale.
Se il suo diventare centro con tanto di nome risale all’epoca romana, i primi insediamenti umani, in realtà, sembrano risalire già al Paleolitico, ma sarà la discesa dei Longobardi in Italia, nel 568 d.C. a dare un’impronta regale a Cividale, dopo che il re Alboino la sceglie come capitale del ducato longobardo in Italia. Di questo periodo, Cividale conserva lo splendido Tempietto e l’Ipogeo Celtico che svolgeva, secondo la tradizione, funzione di prigione in epoca longobarda, essendo scavato nel sottosuolo.
Con il Trattato di Campoformio del 1797, Cividale passa sotto il dominio dell’Impero Asburgico e solo nel 1866, in seguito alla vittoriosa Terza Guerra di Indipendenza Italiana, viene annessa al Regno d’Italia, per la cui Bandiera combatterà lotte impervie e sarà teatro, specie con quei colli che si vedono in lontananza, di battaglie passate alla storia.
Città di confine nel periodo della Guerra Fredda tra il blocco dell’Ovest e quello dell’Est, e dopo il terremoto del 1976 che pure l’ha colpita, anche se non in maniera pesante come le vicine Venzone e Gemona, oggi accoglie con la sua mirabile bellezza, fatta di valli, mura antiche, pace e silenzio i turisti che, immancabilmente si regalano una foto sotto il cartello del Ponte del Diavolo, che collega le due sponde del fiume Natisone sul quale sorge Cividale. La leggenda vuole che, essendo talmente impervia la costruzione dell’opera, i cittadini chiesero aiuto al Diavoloil quale, in cambio, chiese l’anima del primo che fosse transitato proprio sul ponte. Terminata l’opera, il primo a passare non fu un cittadino cividalese, ma un animale , la cui anima fu presa dal Diavolo così ingannato.
Affacciarsi dal Ponte del Diavolo è un’esperienza unica: il fiume Natisone che scorre lungo la valle, e sulle cui sponde si può accedere tramite una scalinata, il campanile del Duomo di Santa Maria Assunta che svetta sulle case, e i colli teatro di tante battaglie della Grande Guerra.
Inoltrandosi nelle vie della città, si rimane ammaliati da cotanta bellezza dei palazzi, in primis il Palazzo Comunale, un edificio gotico tutto a mattoni davanti al quale svetta la statua di Giulio Cesare, fondatore della città. Si tratta di una copia bronzea di un’opera originale in marmo custodita a Roma, nel Campidoglio.
Regalarsi una giornata a Cividale del Friuli, nella lista deiPatrimoni dell’Umanità dell’Unesco dal 2011, significa assaporare la storia di un luogo immerso in una pace e in silenzio che canta ancora, se si tende bene l’orecchio ai monti circostanti, i cori dei soldati italiani che combatterono contro lo straniero.
Dalla necessità di un popolo è nato il simbolo dello strett food napoletano: il cuoppo, o per dirla in dialetto, o’ cuopp.
Si narra, infatti, che il popolo partenopeo acquistasse dai pescatori di ritorno dall’uscita in mare, del pesce di piccole dimensioni che non avrebbe trovato spazio sul mercato ittico. Proprio questo pesce di piccolo o piccolissimo taglio, andava a finire nelle padelle delle famiglie più povere che provvedevano, per dargli più gusto, a friggerlo.
La preparazione di alimenti fritti, in primis il semplice impasto della tradizionale pizza, divenne persino un’attività lavorativa per molte donne che , fuori dalle loro case, vendevano le famose e caldissime pizze fritte, celebrate dalla grande Sofia Loren nel film “L’oro di Napoli”.
Soldi ce ne erano sempre pochi e così il piazzaiolo vendeva la pizza e segnava su un quadernino i nomi di coloro che si impegnavo e saldare il debito contratto al massimo entro otto giorni.
Ecco il motivo per il quale il famoso cuoppo napoletano è conosciuto anche con il suo secondo nome di “oggi a otto”.
Il turista che si inoltra per le vie di Napoli, non può fare a meno di notare come in ogni angolo ci siano pizzerie che vendono le pizze a portafoglio, ovvero una classica pizza napoletana di dimensioni minori e che essendo poi piegata a portafoglio, appunto, può essere mangiata anche in strada. Ma immancabili sono anche le friggitorie che offrono i famosi cuoppi, i quali possono essere di due tipi: di mare, con gamberetti, alici, calamari, e di terra, con pastecresciute, Montanare, verdure pastellate (melanzane, zucchine, cavolfiori, peperoni, carote), arancini di riso, crocchette e frittatine di maccheroni.
L’abito del cuoppo è la carta paglia che viene avvolta a forma di cono dal quale l’acquirente, come un abile prestigiatore, tira fuori, talvolta aiutandosi con un lungo spiedino di legno, tutte queste prelibatezze, figlie della migliore tradizione gastronomica napoletana.
Le protagoniste indiscusse del cuoppo sono soprattutto le frittatine di pasta, le pizzette fritte chiamate Montanare e le crocchette di patate, il famoso crocchè.
Le prime sono la versione monoporzione della famosa frittata di maccheroni: si presentano come dei dischetti di pasta, di solto bucatini tagliati, arricchiti con besciamella, dadini di prosciutto e pisellini. Le Montanare, invece, sono le classiche pizzette fritte che devono il loro nome ai montanari, i quali, scendendo dalle colline, arrivavano a Napoli con il questo gustosissimo cibo da asporto.
A differenza della pizza cresciuta, che viene fritta, alle Montanare viene aggiunta, sopra, la salsa di pomodoro, il pecorino in scaglie e una foglia di basilico.
Le crocchette di patate, noti anche con il nome di panzarotti ma che a Napoli sono chiamati con il loro diminutivo “crocché”, sono invece un impasto a base di patate, uova, formaggio e pepe.
E quando anche l’ultima verdura pastellata scomparirà dal cono di carta paglia si avrà la certezza non solo di avere gustato un trionfo di sapori, ma anche di aver mangiato un pezzetto di storia partenopea.
Una definizione, quella della Fibromialgia, che da sola riesce a circoscrivere non solo il quadro clinico di chi è affetto da tale patologia invalidante, ma anche tutti gli effetti prodotti dalla FBM nella sfera psichica del paziente: “Condizione cronica non infiammatoria caratterizzata da dolorabilità diffusa, rigidità o dolore muscolare o articolare, dove ad esser colpiti sono i muscoli, i tendini e non le articolazioni” come ci dice il Professor Umberto Tirelli, Oncologo e Senior Visiting Scientist presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (PN) nonché Direttore Centro Tumori, Stanchezza cronica e Ossigeno Ozono Terapia della Clinica TIRELLI MEDICAL Group, con sede a Pordenone.
Procediamo
con ordine: “Oltre alla condizione
cronica suddetta, altri sintomi
della Fibromialgia sono la stanchezza,
la spossatezza, i disturbi di concentrazione e di memoria, le parestesie, ai
quali vanno ad aggiungersi quelli di tipo psichiatrico (ansia, depressione ed
attacchi di panico), dispepsia, colon irritabile e, nelle donne, vaginismo e
dismenorrea”.
L’American
College of Rheumatology aveva, nel 1990, legato la diagnosi di Fibromialgia a
due condizioni particolari: un dolore diffuso simmetrico che durava da almeno
tre mesi e la dolorabilità alla digitopressione di almeno 11 dei 18 tender
point, anche se :” Di recente lo stesso American College ha scelto di eliminare la valutazione
sui tender point preferendo quella dei sintomi disfunzionali che comunque non
sono propri solo del quadro della fibromialgia,
ma comuni anche ad altre sindromi disfunzionali
come la quella da stanchezza cronica”.
Il dolore diffuso, la rigidità e il dolore muscolare o articolare, protratto nel tempo:” Fa sì che il soggetto affetto da Fibromialgia riscontra una inabilità a svolgere anche le più comuni attività quotidiane e, anche laddove queste vengano compiute, il recupero delle forze può richiedere un tempo imprecisato”.
I 2/3 dei pazienti affetti da Fibromialgia,
alla domanda su cosa avvertono sul proprio corpo, rispondono: “Un dolore
ovunque, dalla testa ai piedi. E non si tratta di un dolore qualunque, ma con specifiche caratteristiche: scottante, bruciante, vibrante, battente,
martellante, profondo, tagliente, frequentemente viene riferita la sensazione
di “ammaccatura”, o “corpo battuto”.
L’intensità
del dolore non sempre è la stessa, infatti ci sono situazioni che lo fanno
aggravare, rendendolo ancora più insopportabile: “L’ansia e lo stress hanno un ruolo
determinante nel peggioramento del quadro clinico, così come anche l’umidità il
freddo, il sovraccarico ma anche l’inattività”.
La
qualità del sonno peggiora moltissimo: “Tipico della Fibromialgia è la cosiddetta
fatica al risveglio, causata da
un sonno non ristoratore perché disturbato dal dolore. Dobbiamo dire che la
fatica, piuttosto comune nella Fibromialgia, e che è presente nei pazienti con
una percentuale che varia dal 75% al 90%, la si avverte soprattutto al mattino.
Non a caso i pazienti si svegliano sentendosi già stanchi o più stanchi di
quando sono andati a letto.”.
La
Fibromialgia non colpisce in egual misura i due sessi “Il rapporto donne –uomini è di
8:1”.
Ancora sconosciute le cause scatenanti della
fibromialgia: “Potrebbe esserci lo stress, l’ansia, il sovraccarico di lavoro ma si è affacciata
anche l’ipotesi di una ipersensibilità del cervello al dolore. Eppure, a
tutt’oggi, la medicina non può indicare ancora una causa scatenante. Potrebbe trattarsi
anche di una causa di tipo immunologico,
forse legata ad un fatto infettivo che potrebbe essere scatenato persino da una
situazione stressante”.
Ma
come si giunge ad una diagnosi di Fibromialgia? “Trascorsi 6 mesi dalla prima
manifestazione di questo dolore invalidante ed entro 1 anno dall’insorgenza
dello stesso, il medico, dopo aver escluso qualsiasi patologia legata ai
muscoli e ai tendini, giungerà ad una diagnosi di Fibromialgia. E’ da evidenziare come ci possa esser una sovrapposizione
con la sindrome da fatica cronica (CFS), dove la spossatezza prevale sul
dolore, che è invece prevalente nella Fibromialgia. E’ stato stimato che il 20/
70% dei pazienti con Fibromialgia soddisfi anche i criteri per la CFS e viceversa,
il 35%-70% dei pazienti con CFS presenti anche una FBM concomitante. Rispetto
ai pazienti affetti solo da Fibromialgia, quel che soddisfacevano i criteri per
entrambe le sindromi erano sottoposti ad un peggior decorso della malattia, una
peggiore salute generale, un maggior numero di sintomi diversi tipici della CFS
ed un maggiore impatto sulla qualità della vita. Di fronte a ciò alcuni ricercatori
hanno evidenziato come queste due condizioni debbano essere considerate come differenti
manifestazioni degli stessi processi biomedici e psicosociali”.
Cosa
può fare il paziente di fronte ad una diagnosi di fibromialgia? “I trattamenti
usati fino ad ora, ascrivibili alla sfera degli antidolorifici o degli ansiolitici
o degli antidepressivi, non hanno prodotto grandi benefici. Da 2 anni, presso
il nostro Centro di Pordenone, applichiamo l’Ossigeno Ozono Terapia sui
pazienti affetti da Fibromialgia, con un miglioramento sul 70% dei pazienti
trattati e con una pubblicazione su una rivista indicizzata. C’è da dire
che l’Ossigeno Ozono Terapia è un antinfiammatorio, antidolorifico, energetico,
usato anche per alleviare la fatica oncologica, perché purtroppo la chemioterapia,
l’ormonoterapia, l’immunoterapia, la radioterapia, come effetti collaterali, hanno
spesso anche quella di causare stanchezza”.
L’Ossigeno Ozono Terapia,
con le sue proprietà antinfiammatorie ed analgesiche, prevede l’introduzione di una miscela di ossigeno e
ozono nell’organismo del paziente: “Per autoemotrasfusione e per insufflazione rettale, due volte a
settimana per un mese e poi due volte al mese come terapia di mantenimento,
secondo i protocolli della SIOOT (Società Italiana Ossigeno Ozono Terapia). Abbiamo
registrato un incremento significativo della riduzione della sintomatologia nel
70% dei pazienti trattati, nessuno dei quali ha riportato effetti collaterali:
questo a dimostrazione di come l’Ossigeno Ozono Terapia rappresenti un efficace
trattamento per la Fibromialgia”
Entrare nel Museo “Tiere Motus”, ospitato nel Palazzo Orgnani- Martina, a Venzone, borgo a circa 30 km da Udine, è entrare nell’animo, nei cuori, nelle menti, persino in ogni singolo battito del cuore di coloro i quali hanno vissuto il tremendo terremoto del 6 maggio 1976.
Appena se ne varca la soglia, le foto, alcune in bianco e nero, altre a colori, nonché i titoli a caratteri cubitali dei principali quotidiani nazionali, sembrano accoglierti nel loro grembo, fatto sì di dolore, ma anche di tanta dignità, e di una volontà ferreache farà del Friuli terremotato un simbolo per tutta Italia.
“Tiere Motus” è un Museo, ma anche una sorta di Sacrario della memoria e quando sei lì, ad osservare l’esposizione fotografica, quasi ti verrebbe spontaneo chiedere il permesso di osservare tutte quelle immagini, perché trasudano una sofferenza unita ad una forza che permetterà al Friuli di risorgere.
A raccontarci la storia di questo Museo è la Direttrice dello stesso, la Dottoressa Floriana Marino, architetto, siciliana d’origine, veneziana per studio, avendo frequentato l’Università nel capoluogo veneto, e friulana per amore verso questo popolo che tanto le ha insegnato.
“Sono arrivata a Venzone quando ancora si stava compiendo la ricostruzione e da allora non sono andata più via. Prima di questo incarico, sono stata responsabile del gruppo di lavoro e ho partecipato alla codirezione del Centro di Documentazione sul Terremoto del 1976, dal quale poi nascerà il Museo grazie alla volontà dell’Associazione Comuni Terremotati e Sindaci della Ricostruzione del Friuli. “Tiere Motus” è un luogo dedicato alla memoria storica, dove tutta l’esperienza del terremoto e degli anni successivi al sisma, trova qui la sua sede.”
“Tiere Motus” viene inaugurato nel 2009: “Dopo anni di un lavoro molto intenso con un gruppo operativo molto qualificato con il quale abbiamo collaborato bene. E’ stato indubbiamente un grande lavoro e ha richiesto un grande sforzo, ma siamo stati molti soddisfatti del risultato”.
Nella mostra fotografica: “Che ha richiesto due anni e mezzo per l’allestimento”, le immagini scelte “Tra migliaia e migliaia di foto, sono corredate da didascalie non messe in evidenza, questo perché abbiamo deciso che sarebbero state le foto a parlare, foto che esprimono, pur nella loro drammaticità, il carattere e la determinazione della gente friulana”.
Il lavoro certosino svolto: “Ci ha visti impegnati nel volere raccontare gli accadimenti del ’76 e della ricostruzione, facendo attenzione a non essere autoreferenziali e sforzandoci di essere, nella narrazione, il più obiettivi possibili. Abbiamo cercato un continuo confronto e condivisione, proprio per far emergere le diverse voci”.
E così nel museo di Venzone, il terremoto: “Come evento intimo di tutti quei friulani che hanno perso case e congiunti, è diventato un luogo della memoria, depositario di ricordi individuali, che necessariamente sono diventati collettivi. Abbiamo voluto far conoscere come il Friuli e la sua gente abbia saputo voltare pagina e raccogliere la sfida della ricostruzione”.
Nonostante l’immane distruzione causata dal sisma del 1976 : “Che ha interessato ben 137 comuni, 45 disastrati nella cosiddetta area cratere, con 989 vittime”, le foto esposte testimoniano il grande desiderio di tornare alla normalità : “Tra le tante, c’è una immagine che riguarda la fabbrica di arredamento Fantoni, anch’essa, come moltissime, pesantemente danneggiata dal terremoto, e che ritrae un documento, datato luglio 1976, dove si invitano gli operai ad un brindisi per il primo mobile nato dopo il sisma. Questo è uno dei tantissimi esempi della determinazione e della grande forza d’animo di persone che, dopo aver perso tutto, si sono ritrovate a ricominciare daccapo, impegnandosi e lottando. Aggiungo, che la ricostruzione è stato un periodo intenso ma anche duro, fatto di scontri e discussioni accese.”.
Prima la forza, dunque, poi la partecipazione collettiva al grande processo di ricostruzione che è testimoniato sempre dalle foto esposte al museo, visitato anche da molti turisti stranieri, i quali :“Possono, così, vedere da vicino e comprendere una delle pagine di storia recente del Friuli, fatta di macerie, distruzione, dolore ma anche di impegno, ordine, compiutezza”.
“Tiere Motus”non è solo un percorso espositivo, ma si compone anche di una sala molto particolare: “La sala del simulatore è nata ancora prima del museo. Ricostruire in realtà virtuale il crollo del Duomo di Venzone la notte del 6 maggio 1976 e gli effetti sonori del terremoto ha richiesto circa 2 anni di lavoro. Il visitatore viene catapultato, nell’istante stesso in cui cade giù il duomo di Venzone, a quella notte. Il suono assordante delle migliaia di pietre che vengono giù, delle vetrate della chiesa che vanno in frantumi, ha un grande impatto sui visitatori. Ma l’effetto sonoro più rilevante è dato dal terrificante boato che nasce dal cuore della terra, l’ “Orcolat” per i friulani, il terribile mostro. La sala di proiezione è dotata di un impianto di diffusione in grado di generare frequenze infrasoniche che fanno rivivere la spaventosa voce del terremoto. Una curiosità: la prima volta che lo mettemmo in funzione, tutti uscirono fuori spaventati, ecco perché il volume è tenuto al minimo per non creare panico tra la gente di Venzone”.
Ringrazio la Dottoressa Floriana Marino non solo per la disponibilità, ma anche per la grande capacità di raccontare un dolore così grande: “Non dimentichiamo che quasi tutte le famiglie dei comuni disastrati hanno pianto la perdita di un proprio congiunto” con garbo, sensibilità per far capire come “Dietro la lucidità del disastro ci sia stata una forza così grande”.
Un vassoio di pasticcini preparati con pasta di mandorle e tutto assume un altro sapore.
Sarà per l’impasto leggermente e tipicamente umido delle che li contraddistingue, sarà per la languida morbidezza che avvolge il palato, sarà per l’inconfondibile profumo che inebria l’olfatto, comunque, gustare un pasticcino con “pasta reale” è davvero una dolce coccola.
La pasta di mandorle, indiscussa protagonista dei dolci siciliani, è infatti nota anche con il nome di pasta reale, derivante, con molta probabilità, dal fatto che una volta nato il primo dolce da questo impasto, chi lo avesse preparato, abbia esclamato: “E’ un dolce da re”.
La tradizione vuole che i primi a impastare le mandorle con lo zucchero siano stati gli arabi al tempo della loro dominazione sull’isola, ma sembra molto più probabile che a dar vita, per la prima volta, ad un dolce con “pasta reale”, siano state, nel 1100 circa, le suore del Convento di Martorana, a Palermo, nei pressi della Chiesa di Maria dell’Ammiraglio. Questo impasto, conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, ha meritato il titolo di “Prodotto Agroalimentare Tradizionale siciliano”.
Tra i dolci più noti spicca la famosa “Frutta Martorana”, così chiamata proprio in onore al nome del convento che per primo regalò questo impasto. Altra specialità è l’agnello pasquale con pasta di mandorle e pistacchi di Bronte.
Ideali per accompagnare un thè, eleganti insieme al caffè, talmente raffinati da portarli portare in dono alla padrona di casa che ci ha invitato a pranzo o a cena, morbidi, profumati, deliziosamente unici: i pasticcini alla pasta di mandorle sono parte di quel patrimonio dolciario italiano apprezzato in tutto il mondo.