Da quel giorno la nuova macchina è chiusa nel suo scatolone e solo di rado la fa uscire, proprio quando le serve per qualche lavoro che la vecchia macchina non è in grado di svolgere.
Arriva la nonna con il catino pieno di panni e per aiutarla, le corro incontro per aiutarla, perché barcolla sotto il peso dei panni asciutti che ha tirato via dei fili.
“Nonna, dovresti comprare un catino più grande, rischi di perdere gli indumenti per strada altrimenti”.
“Non ti preoccupare, Ludovica, questo piccolo catino mi basta. Ora i panni sono di più perché ci sei tu ma tra qualche giorno…tu a Chicago ed io qui, nuovamente sola…” risponde la nonna che è diventata all’improvviso malinconica.
Accipicchia, non riesco proprio a stare zitta, devo sempre dire qualcosa che la fa intristire.
Mi vado a mettere in un angolo, quasi volessi da sola punirmi per ciò che ho detto.
La nonna mi vede e mi porge la mano, dicendomi:
“Signora Pila, venga con me, le racconto cosa hanno combinato, un po’ di tempo fa le due macchine per cucire, quella antica e quella nuova”.
Dalle parole della nonna capisco che è arrivato il momento di tuffarci nel mondo fantastico di Mila e Pila, e dei loro racconti di fantasia.
29 DICEMBRE: LA MACCHINA PER CUCIRE A PEDALE E QUELLA ELETTRICA
A Chicago, nell’appartamento dove vivo con i miei genitori, non c’è nulla, né un mobile, né un oggetto qualsiasi che parli del passato.
Il casolare della nonna, invece, è zeppo di ricordi, e anche chi ormai non c’è più su questa terra, come il nonno, torna a vivere attraverso un oggetto che tanto amava e che la nonna non ha buttato ma è ancora qui, con noi.
Ecco allora i suoi straccali neri, o gli stivali di gomma nel magazzino fuori l’orto, o la fedele zappa con la quale levava i fili d’erba che crescevano attorno agli alberi del frutteto.
Ma c’è voluto del tempo per tirarle fuori, non l’abbiamo fatto subito dopo la scomparsa del nonno, perché in quei momenti era troppo forte il dolore per una persona che non c’era più.
Se volessi fare un gioco, un indovinello, ad esempio, e dire qual è l’oggetto che identifica immediatamente la nonna, tra tutti quelli che si trovano nel casolare, direi sicuramente la macchina da cucire alla quale la nonna aggiunge sempre l’aggettivo “fedele”, perché è stata in grado di aiutarla in molti lavori di cucito e non si è mai lamentata, neanche quando era costretta a lavorare anche per molte ore di seguito.
Alla nonna è sempre piaciuto usare questa macchina per cucire che è custodita in un mobile di radica ancora lucidissima che il nonno le fece costruire da un suo amico falegname.
Questo mobile sembra uno di quegli scrigni segreti che si leggono nelle favole per bambini, se lo vedi non ti accorgi che custodisce all’interno un segreto: è un parallelepipedo di legno tirato a lucido con una maniglia di ottone proprio in mezzo all’anta centrale.
Poi, però, se ci si avvicina, si nota subito che il pezzo superiore è ribaltabile e diventa un piano da lavoro, dove poter mettere i fili, le forbici, e tutto l’occorrente, mentre un altro pezzo di legno nasconde la macchina che, con un gesto rapido della mano, viene su.
L’anta, quella con il manico in ottone, serve invece a nascondere il pedale con il quale l’ago viene fatto andare su e giù sulla stoffa da cucire.
“Signora, sta scherzando, vero? Come, lei mi chiede perché sono felice? Ma ha visto il luogo dove vivo? In mezzo alla natura che cambia con le stagioni, che si modifica con esse,, che cambia forma, che vive, palpita e che non sa cosa sia la monotonia. Chi è più felice di me…”
E ricominciò a cantare il suo ritornello.
“ Allora, se è vero ciò che dice, dovrebbero essere felici e canterini tutti i ruscelli della terra! Perché, invece, è la prima volta che incontro un ruscello così contento?” gli chiesi io incuriosita.
“Vede la mia storia è un po’ speciale, io in realtà, nasco come un ruscello triste, sempre imbronciato, invidioso per i lunghi fiumi che si gettano nell’immenso mare, per i maestosi laghi.
Io invece, ero solo un povero ruscello di collina, destinato a fare sempre il solito percorso. Poi, un giorno, sentii degli uomini parlottare tra loro: erano venuti qua perché c’era un progetto edile che prevedeva l’abbattimento di tutti gli alberi e il mio prosciugamento. La gente della vallata si mobilitò e lottò strenuamente per la difesa di questi luoghi. Alla fine, dopo mesi, i “montanari” come chiamavano questi uomini con disprezzo gli abitanti della vallata, vinsero la loro battaglia. Ma quanta paura provai nel pensarmi prosciugato e quanta tristezza nel sapere che non avrei più potuto scorrere e gettarmi dalla cascata. Allora capii l’importanza di essere un piccolo ruscello non inquinato dagli scarichi e libero di poter correre e saltare. Da allora non ho più invidiato nessuno e ringrazio il cielo ogni giorno di essere nato qui e di poter continuare a vivere in questa bellissima valle”.
Continuai il mio cammino, riflettendo sulle parole pronunciate dal ruscello e sull’importanza di apprezzare ciò che si ha, senza pensare agli altri.
Quante volte, ormai sempre più spesso, sentiamo o leggiamo notizie sulla crudeltà umana? Uomini che usano violenza sulle compagne, adolescenti che picchiano a sangue un senzatetto, persone che maltrattano e seviziano gli animali.
Ma perché succede tutto questo? Da cosa derivano i comportamenti violenti? Ci sono delle cause scatenanti?
Sull’origine dei comportamenti violenti sono state e vengono continuamente condotte numerose ricerche da parte di psichiatri, psicologi e criminologi. Tra questi lo psichiatra e criminologo Adrian Raine, che ha concentrato i suoi studi sulle basi biologiche e anatomiche della violenza, ha dimostrato che un cattivo funzionamento del cervello può aumentare la probabilità di mettere in atto comportamenti violenti; in particolare il distacco tra corteccia frontale e sistema limbico: ciò renderebbe l’individuo incapace di controllo e incapace di provare empatia.
Foto di Lorenza Fiorilli
E proprio di quest’ultimo concetto si è occupato lo psicologo britannico Simon Baron Cohen secondo il quale proprio l’assenza di empatia, ovvero la capacità di mettersi nei panni degli altri (sulla quale ho dedicato un mio precedente articolo che potete trovare su https://www.emozionamici.it/2018/04/11/empatia-questa-sconosciuta/), sarebbe la spiegazione scientifica della cattiveria. Ovviamente, come sottolinea lo stesso Cohen, la sola mancanza di empatia non basta a giustificare un comportamento violento, ma sarebbe impossibile procurare volontariamente sofferenza ad un altro essere vivente se si provasse empatia.
Perché ho appena citato, volontariamente, essere vivente e non “persona” o “essere umano”? Perché la violenza si mette in atto anche verso gli animali; anzi, svariati studi realizzati negli Stati Uniti hanno dimostrato che la crudeltà contro gli animali è uno dei fattori predittivi di futuri comportamenti violenti verso altri esseri umani. Il risultato di numerose ricerche hanno mostrato che ragazzi che avevano ammesso di aver inflitto violenze contro gli animali, in seguito hanno commesso atti di delinquenza gravi quali furti o aggressioni. Ma non solo: gli adulti crudeli verso gli animali spesso sono gli stessi che picchiano la propria compagna, i propri figli o le persone più deboli. Una ricerca condotta su tale correlazione ha mostrato che quando un individuo di sesso maschile ha già minacciato di violenza il proprio animale domestico, quintuplica il rischio che la partner diventi anch’essa una vittima di violenza.
Ma che vissuto hanno le persone crudeli? In quale ambiente sono cresciute?
Un bambino cresciuto in un ambiente arido, ostile e di deprivazione affettiva avrà maggiori possibilità di diventare violento. Il famoso psicologo americano John Bowlby ha dedicato la sua vita allo studio delle cure nella prima infanzia concentrando le sue ricerche sul rapporto madre-bambino e su come questo possa influire sullo sviluppo di una personalità sana o disturbata, sviluppando la sua famosa “Teoria dell’attaccamento”; egli ha dimostrato, tra le altre cose, che l’attaccamento è uno degli elementi chiave nella formazione dell’empatia e che il comportamento antisociale si ha più frequentemente nei bambini che non hanno formato relazioni affettive stabili. Essenziale, quindi, è l’ambiente in cui cresce il bambino: se osserva altri comportarsi in modo crudele, svilupperà la consapevolezza che sia una cosa lecita e naturale. Un bambino educato alla violenza può subire quella che può essere denominata “dipendenza dal male”.
Concludendo, la violenza e la crudeltà, possono avere sia origini biologiche che ambientali, ma se si educasse al rispetto, all’amore, all’empatia verso ogni essere vivente, se ognuno si sforzasse di mettersi nei panni dell’altro, se quando si parla con un amico, con un conoscente, lo si guardasse negli occhi e lo si ascoltasse veramente, se i genitori facessero capire ai propri figli quando stanno mettendo in atto un comportamento violento o comunque poco rispettoso verso un animale o verso un coetaneo, forse si riuscirebbero a far diminuire atti crudeli e spietati.
Bene, un pomeriggio proprio mentre ero arrivata vicino al ruscello, sentii una voce squillante canticchiare un allegro ritornello.
Che strano, non c’era nessuno nelle vicinanze!
Continuai a camminare finché quella stessa vocina continuava a cantare.
“Chi è più felice di me?
No, so bene che non c’è!
Guardate la mia acqua,
felice come una Pasqua!
E sotto questo cielo
ringrazio il mondo intero!
Ringrazio il Signore
per quel ripido burrone
nel quale poi mi tuffo
facendo un gran bel tuffo!
Guardate e ascoltate
Ridete con me e non più pensate
alle cose tristi
ma sorridete e cantate, o voi tutti!”
La vocina proveniva dal ruscello, da quel piccolo ruscello che attraversa il bosco, che accarezza i sassi, levigandoli, che gorgheggia felice e che poi si butta in quel burrone, creando delle bellissime cascate naturali.
Mi avvicinai a lui e complimentandomi per la sua voce, ben intonata e impostata, e gli chiesi il motivo di così tanta felicità.
Ma stamattina no, non sono a Chicago, ma sto dalla nonna e il mio palato non chiede altro di poter gustare quella fetta che la nonna ha messo nel piattino di porcellana decorato a mano.
Che sapore!
E che gioia poter fare colazione in compagnia della nonna, che mi guarda estasiata in silenzio.
“Mai nessuno ha mai apprezzato le mie torte come te, Ludovica. E mi manca tanto preparartele”, dice la nonna mentre un velo di tristezza le offusca lo sguardo.
Capisco che è venuto il momento da cancellare la nostalgia dei giorni passati e che non torneranno più, allora senza perdere nemmeno un istante, mi trasformo nella signora Pila.
“Signora Mila, sono proprio impaziente nel raccontarle ciò che mi è successo un po’ di tempo fa”.
“Signora Pila, la prego, inizi” risponde la nonna a tono.
“Allora, un pomeriggio, decisi di fare una bella camminata per il bosco. Era autunno, e in questa stagione dell’anno il bosco è bellissimo. Molti pensano che possa essere triste vedere le foglie degli alberi cadere, o i rami spogli, invece a me piace questo periodo dell’anno perché la natura si spoglia di ciò che è stato e si prepara per la nuova primavera. E poi i colori delle foglie che sono incantevoli: passano dal rosso carico all’arancione tenue, dal marroncino al giallo.
Adoro camminare e sentire il crepitio che le foglie secche producono sotto le mie scarpe. E poi mi piace giocare con i raggi del sole che s’insinuano nel bosco attraverso gli alberi che lentamente si stanno spogliando.
In tantissimi hanno conosciuto ed apprezzato la sua innata simpatia, il suo senso dell’umorismo grazie ai film di Carlo Verdone, che l’ha voluta al suo fianco dopo averla “scoperta”: “In un programma radiofonico trasmesso, negli anni ’80, da una radio romana, Radio Lazio, che aveva la sede nel cuore storico della Capitale”, come ci racconta Mauro Trabalza, uno dei nipoti dell’indimenticabile “Sora Lella”, all’anagrafe Elena Fabrizi, nonché sorella dell’indimenticato Aldo Fabrizi.
La mitica “Sora Lella” (Elena Fabrizi) ritratta nella sua trattoria. Alle spalle, le locandine dei film interpretati dal fratello Aldo Fabrizi (foto per gentile concessione di Mauro Trabalza)
E proprio Mauro, insieme ai fratelli Renato e Simone e alla sorella Elena, che porta lo stesso nome della nonna, ci svela come la mitica Sora Lella si sia avvicinata al mondo della cucina.
“ Il 26 giugno del 1938 apre una sua trattoria nel quartiere San Lorenzo, si trasferisce poi a Tor Pignattara, successivamente si ferma per dedicarsi alla famiglia, ma nel 1959, quando viene a conoscenza che stanno vendendo un ristorante sull’Isola Tiberina, nel cuore di Roma, non esita neanche un istante e lo acquista: era nata la trattoria Sora Lella”.
Gli anni ’60 vedono protagonista Aldo Trabalza, figlio di Lella, nonché padre di Mauro, Renato, Simone ed Elena: “Papà è stato l’anima della trattoria– svela Mauro- e ha inventato anche un piatto che non manca mai e che è quello più rappresentativo: “Tonnarelli (all’uovo) alla cuccagna”, per la cui preparazione , a base di vari tagli di maiale, sono usati 18 ingredienti”.
Aldo Trabalza, figlio della Sora Lella (foto per gentile concessione di Aldo Trabalza )
E, sempre dal padre, Mauro e i suoi fratelli hanno imparato tanto, non solo in cucina, ma nella vita :” Ci ha insegnato il valore dell’umiltà e l’importanza di non sentirsi mai arrivati”.
Aldo in cucina(foto per gentile concessione di Aldo Trabalza)
Anche la morte del padre ha insegnato loro qualcosa, come ci svela Mauro:” Abbiamo capito il valore profondo della famiglia, della vita privata, che tanto abbiamo sacrificato in gioventù. Da qualche anno infatti, la domenica siamo chiusi: è il giorno che andiamo tutti insieme per vedere la Magica (Roma, n.d,r,) o per seguirla in trasferta”.
La famiglia Trabalza al completo, da sinistra verso destra: Simone, Elena, Mauro, Renato, Seduti, mamma Renata e papà Aldo (foto per gentile concessione di Mauro Trabalza)
Dal lunedì al sabato, invece, i clienti della trattoria , possono degustare la cucina tradizionale romana, incluso il piatto inventato dalla Sora Lella in persona: ”Gli gnocchi all’amatriciana che, insieme ai rigatoni con la pajata, non mancano mai nel menù”.
60 anni di presenza nel panorama gastronomico della Capitale, i fratelli Trabalza hanno saputo coniugare tradizione : “Tanta” e innovazione“Specie nell’attenzione che mettiamo nella ricerca di prodotti stagionali, a km 0 e di presidi slow food e abbiamo anche provveduto ad alleggerire le dosi che era solito preparare nostro padre”.
Moltissimi i personaggi famosi che sono stati o continuano ad essere clienti abituali della trattoria “Da Elizabeth Taylor e Richard Burton che avevano casa qui vicino, a Anthony Hopkins, ghiotto della nostra pasta e fagioli, da Carlo Verdone al grande disegnatore Ugo Pratt, il quale chiedeva sempre un piatto di melanzane e peperoni tagliati a tocchetti. E poi ancora Giuliano Gemma, Ettore Scola, Mario Monicelli, Antonello Venditti, Jean Paul Belmondo, Paola di Liegi”.
Chiedo a Mauro se, sino a quando è stata in vita Lella Fabrizi, in molti andavano a mangiare in trattoria anche per vedere la nonna :” Sì…entravano, vedevano se c’era e, in caso di risposta negativa, chiedevano quando avrebbero potuto trovarla in trattoria per passare di nuovo e fermarsi a mangiare. Gli ultimi anni, quando era stanca ed affranta per la morte della figlia, diceva ai clienti della trattoria che chiedevano una foto con lei, “Nun so la Sora Lella, so la gemella”. Nonna è morta nel 1993, ma ci ha lasciato tanto ed è per noi grande orgoglio e gioia essere i suoi eredi e i nipoti di Aldo Fabrizi, al quale nonna portava a casa il suo piatto preferito: abbacchio alla scottadito e il vino di Frascati”.
…i piatti sono pronti per arrivare in tavola…(foto per gentile concessione di Aldo Trabalza)
Prima di terminare l’intervista con Mauro gli chiedo se la nonna fosse proprio come l’abbiamo conosciuta nei film di Carlo Verdone: “Sì, era proprio così, e anche la famosa scena della gambe in “Bianco Rosso e Verdone”, nel quale Carlo è alle prese con la ricerca di una sistemazione migliore per la gambe doloranti della Sora Lella che interpretava la nonna nel film, è presa dalla realtà: alcune volte, infatti, quando gli innamorati si dilungavano a tavola ben oltre la mezzanotte, lei garbatamente si avvicinava e diceva loro “Scusate sa…ma a me me fanno male le gambe..me vorrei allungà a letto, dovrei chiude…”. Tra la tradizione di nonna anche i dolci come la famosa crostata ricotta e visciole o solo visciole, , il salame di cioccolato e la zuppa inglese. E, quando è estate, a nostri clienti offriamo il tortino di ricotta e cioccolato preparato da mio fratello Renato, Executive chef della cucina, nonché uno dei migliori gelatai di Roma”.
Parlare con Mauro è stato come rivedere la Sora Lella, la sua allegria, la sua verace romanità che ha incantato tanti italiani, ma anche la Roma della “dolce vita” immortalata in tanti film.
Ringrazio Mauro per questo tuffo nei ricordi e per averci raccontato la storia di questa sua famiglia che ha ereditato dalla Sora Lella la passione per la tradizionale cucina romana e per una città che sembra proteggere, con il Cupolone, i suoi abitanti.
Con il freddo che fa, la torta non impiegherà poi tanto tempo a raffreddarsi, ma, intanto, ogni due minuti chiedo alla nonna se posso mangiarla.
“Se sei così impaziente, tra qualche istante te ne taglierò una bella fetta così potrai farci colazione”, mi dice la nonna.
Ah, la colazione!
Quanto mi manca quel momento iniziale della giornata che fa da cornice a un nuovo giorno che è impaziente di iniziare, proprio come lo sono io nel voler mangiare la torta di mele della nonna.
Quando vivevo con lei in questo casolare di collina, la facevamo sempre assieme, anzi, lei per non scontentarmi faceva colazione due volte.
La prima, quando si alzava e beveva il suo caffè appena macinato, la seconda con me, davanti ad una bella tazza di latte caldo accompagnato da una fetta di ciambellone o di crostata.
A Chicago è molto raro che io possa fare colazione con i miei genitori, loro escono sempre prima di me e a me tocca stare in cucina con la donna che la mamma ha assunto nel ruolo della “tuttofare”: si occupa delle pulizie di casa, della spesa, di prepararmi la colazione.
Questa signora ha i capelli corti rossi, il volto pieno, un po’ di pancetta e le gambe troppo magre per la sua stazza.
Mi osserva sempre quando faccio colazione con il latte e i cereali che odio.
Una volta le ho detto che avrei tanto voluto mangiare, di primo mattino, una bella fetta di torta e lei, proprio il giorno successivo alla mia richiesta, si è presentata con un involucro trasparente dal quale ha tirato fuori una specie di ciambella gigante con sopra dello zucchero sciolto e dei pezzettini di una cioccolata insipida.
Ho apprezzato il suo tentativo di soddisfare la mia richiesta ma poi…poi ho deciso di mangiare i cereali…tanto nessuno mi avrebbe più potuto regalare le torte della nonna.
Che poi, a pensarci bene, non erano tanto la torta di mele o la crostata di albicocche a mancarmi, quanto la nonna e l’amore che metteva tra gli ingredienti che impastava con tanta maestria.
Mi sveglio con l’inconfondibile profumo della torta di mele che la nonna sta preparando per me, lo sa bene che ne sono ghiotta e sa altrettanto bene che la “apple pie” che vendono in America non la apprezzo come la sua, vero capolavoro di sapienza, di tecnica, d’amore.
Sì, perché ogni ingrediente usato dalla nonna si sposa perfettamente con gli altri e le mele, una volta portata la fetta di torta alla bocca, sono capaci di scatenare una melodia di sapori unici.
Prima di scendere giù in cucina, accendo il cellulare e l’inconfondibile suono che ho scelto per i messaggi, mi avverte che qualcuno mi ha pensato.
E’ la mamma che mi ha scritto:
“Buongiorno Lù, ieri siamo stati sulle rive del Lago Michigan e abbiamo ascoltato, il papà ed io, il suono delle lame dei pattini e abbiamo pensato a te, alla prima volta che hai pattinato sull’acqua ghiacciata. Ti vogliamo bene”.
Lù, mia madre mi chiama così ma a me non piace molto quest’abbreviazione ma io non gliel’ho mai detto, so che lei ci tiene tanto a sapere che sono la sua Lù.
Mi tolgo da dosso il pigiama di flanella, indosso la tuta grigia, quella con il cappuccio, e mi precipito giù dalla nonna.
La torta di mele è sul tavolo, il suo calore sta producendo quel soffio trasparente che mi fa capire che è ancora troppo calda perché io possa assaporarla in tutta la sua bontà.
Dopo aver scoccato un sonoro bacio sulla guancia della nonna, mi siedo e osservo quel capolavoro che sa di zucchero, di cannella, di scorza di limone grattugiata, che sa di amore.
Ma prima che cacciasse i suoi arnesi, mi chiese se volevo fare un piccolo sgabello con l’unico pezzo di tronco rimasto intatto.
Non ci pensai due volte e gli dissi di sì.
Quando il lavoro fu terminato e il signor Franco andò via con il suo triciclo pieno dei rami secchi del susino, andai nel frutteto, dove il susino non c’era ormai più.
Ma vidi che vicino al magazzino, c’era un bellissimo sgabello di legno che portai subito dentro casa.
Lo misi vicino al camino e ogni volta che mi prende la nostalgia del mio susino, lo guardo e mi sembra che la sia esistenza non sia passata inutilmente.
Ora al posto di quel vecchio albero, ho fatto piantare un alberello di limoni, sapevo che non sarei riuscita ad amare un altro albero di susino con la stessa intensità con la quale avevo amato lui.
Nei giorni di primavera, quando gli altri alberi mettono i fiori e d’estate, quando vado fuori al frutteto per raccogliere le pesche, le albicocche, le prugne, nell’istante stesso in cui ritorno per il viale lastricato verso casa, sento una voce melodiosa che canticchia un allegro ritornello: è l’albero di susino che esprime tutta la sua gioia nell’essere rimasto da me, anche se sotto forma di sgabello.